LA PAZIENZA E L’IRONIA

Scritti 1982-2010

Raccolta di scritti di Riccardo Terzi da lui curata. Riportiamo l’indice degli scritti selezionati e, a seguire, il saggio introduttivo alla raccolta.

Indice
• Prefazione di Mario Tronti
• Introduzione La crisi italiana: transizione o mutazione?
Compromesso storico e alternativa (da Laboratorio politico, 1982)
L’eredità di Berlinguer (da Micromega, 1987)
La pratica del “non agire” (da Rinascita, 1987)
Una scelta di classe (da Micromega, 1988)
• Un nuovo statuto politico per la CGIL (da Sinistra ‘80, 1988)
La FIAT e la sconfitta operaia (da L’Unità, 1988)
• Il ‘68, vent’anni dopo (da L’Unità , 1988)
La rettifica dei nomi (da L’Unità, 1989)
L’accordo del 31 luglio: una scelta sbagliata (da L’Unità, 1992)
Politica come tecnica o come progetto (da Democrazia e diritto, 1992)
Il mito padano e l’Europa (da Quale Stato, 1996)
Rappresentanza sociale e potere politico (da Finesecolo, 1997)
La pratica del non agire, dieci anni dopo (da Austro e Aquilone, 1997)
Ridefinire la sinistra a partire dal lavoro (da Quaderni di Rassegna sindacale, 2000)
Il sindacato tra indipendenza e autonomia (da Quaderni di Rassegna sindacale, 2003)
La natura della destra e i dilemmi della sinistra (da Democrazia e diritto, 2003)
Riformismo: un’idea da riscoprire (da Gli argomenti umani, 2004)
De Senectute (Convegno SPI Lombardia, 2004)
Elogio del relativismo (da Gli argomenti umani, 2005)
Una solitudine troppo rumorosa (da Gli argomenti umani, 2008)
La crisi della democrazia (da Gli argomenti umani, 2009)
Comunità chiusa, comunità aperta (da Gli argomenti umani, 2009)
Milano e la politica (da Le nuove ragioni del socialismo, 2010)
Dopo le elezioni politiche (Comitato centrale del PCI, 2-5 luglio 1979)

Introduzione
LA CRISI ITALIANA: TRANSIZIONE O MUTAZIONE?

Questi trent’anni

Rimettendo in ordine le mie carte, mi sono accorto di avere scritto molto, probabilmente troppo. Sorge allora la domanda impietosa sugli effetti politici concreti di tutto questo lavoro, e l’unica giustificazione plausibile è quella di aver cercato, nei diversi passaggi, di chiarire il mio punto di vista, di argomentarlo, essendo questa la condizione di partenza per ogni possibile dialogo nella sfera pubblica. Ora, tutto questo materiale è solo la testimonianza di un itinerario personale, dentro gli sconvolgimenti politici dell’ultimo trentennio. L’insistenza di alcuni amici mi ha spinto, infine, a questa pubblicazione, e una volta tanto vengo meno al mio convincimento che la pigrizia sia una forma della saggezza. L’utilità di questa iniziativa è solo quella di offrire lo spunto per uno sguardo di insieme sulla lunga e infinita transizione che ha investito tutto il nostro sistema politico. I testi selezionati sono diseguali, e per lo più occasionali, legati cioè ad una determinata contingenza politica. Ma si può rintracciare, credo, un filo di continuità e di coerenza, e anche una certa insistenza ossessiva su alcuni temi di fondo, su alcuni nodi, che sempre si ripresentano, pur nel variare delle situazioni. Cercherò allora, con queste pagine introduttive, di cogliere questo filo conduttore, tentando così di rintracciare non tanto il senso complessivo del processo politico che si è snodato lungo questi trent’anni, quanto piuttosto l’impatto che esso ha determinato, soggettivamente, sulla cultura politica della sinistra. Restano aperte molte domande, sul passato e sull’oggi. La domanda cruciale è se non abbiamo attraversato una lunga stagione di cecità e di false certezze, se dunque ciò che si avverte come crisi non è altro che la caduta del velo delle illusioni. Molti, a sinistra, sembrano aver scelto questa interpretazione liberatoria, e si muovono con leggerezza e spensieratezza nel nuovo contesto, adattandosi all’idea che non ci sia più bisogno delle idee. È il momento del fare. A me sembra piuttosto che sia proprio questo “fare” de-ideologizzato il luogo della cecità, il momento in cui la nostra libertà è solo il riflesso illusorio di un processo che non è più nelle nostre mani. Tutto può, e anzi deve, essere rimesso in discussione, ma non la convinzione che teoria e azione sono le due facce dello stesso processo, che la politica dunque è l’infinito movimento di congiunzione di questi due lati. In questo senso, quelli che si sentono finalmente liberati dal peso della teoria sono destinati a galleggiare sugli avvenimenti senza mai dominarli.

 

Il compromesso storico

Da dove dobbiamo cominciare, dove possiamo situare l’inizio della crisi? La mia tesi è che già con il “compromesso storico” prende avvio un processo di sfaldamento, di rottura di quel tutto organico e compatto che si era costruito intorno ai grandi partiti di massa e alla loro funzione nazionale. In realtà, il compromesso storico è più un sintomo che una causa della crisi. Esso prende forma come il tentativo ambizioso di rispondere ad una crisi che si era già aperta nel rapporto tra politica e società, ma è un tentativo del tutto improduttivo ed illusorio, che ha solo l’effetto di accelerare le dinamiche centrifughe che mettono in crisi l’equilibrio complessivo del sistema. Se l’obiettivo era quello di ricomporre la coesione nazionale, il risultato, all’opposto, è l’inizio di una disarticolazione.

So che per molti quella stagione, con Berlinguer segretario del PCI, è un momento alto della storia politica della sinistra, è il punto culminante di un grande processo ascendente, è il passaggio verso la maturità di una visione di governo. Ma penso che la figura di Berlinguer possa essere meglio compresa e valorizzata se non viene sacralizzata, ma viene vista come una figura della crisi, come l’estremo tentativo di tenere in vita una tradizione politica che si sta disfacendo, in quanto viene aggredita nelle sue fondamenta, sia sociali che ideologiche. Il PCI di quegli anni è già investito, in pieno, dalla forza d’urto di una crisi che progressivamente tende a sgretolare la sua forza organizzativa, la sua compattezza, la sua interna coesione. Berlinguer incarna in sé l’inquietudine di questa crisi, e in ciò sta la sua grandezza, nella sua ricerca di un nuovo approdo, anche nelle sue oscillazioni, nelle sue incertezze, nel suo procedere a strappi. Egli è il testimone di una domanda che non ha trovato risposte, di una ricerca che è rimasta a metà strada. Il suo grande fascino carismatico non è il risultato di una forza reale, di una effettiva avanzata, ma è il fascino ambiguo della decadenza. Dietro quel carisma resta incolmato il vuoto di prospettive e di risorse strategiche, ed è proprio quel vuoto che spinge nel senso della personalizzazione, perché questa appare come l’ultima risorsa disponibile. Il suo prestigio è quello di essere l’ultimo glorioso testimone di un mondo che sta tramontando. Quando qualche suo seguace sostiene di non essere stato comunista, ma solo berlingueriano, crea una scissione tra il dirigente e il partito, tra il leader e l’identità collettiva da cui trae la sua legittimazione, e una tale scissione sarebbe apparsa allo stesso Berlinguer come un vero e proprio tradimento della sua storia personale. E tuttavia, in questa opportunistica ricostruzione della storia, c’è una parte di verità, perché è pur vero che dietro Berlinguer non c’è più un sistema compatto di pensiero. E con ciò questi sedicenti “berlingueriani” finiscono per essere loro i più feroci liquidatori di quella stagione, e finiscono per ammettere, indirettamente, la loro vuotezza, in quanto restano attaccati ad un simbolo che loro stessi hanno svuotato di significato.

Per tutte queste ragioni, mi è sembrato utile cominciare questa rassegna con uno scritto del 1982, che è un’analisi critica del compromesso storico. Nella sostanza, condivido ancora oggi quel giudizio. Il bersaglio della critica è l’investimento ideologico e strategico con cui si sovraccarica di significato la collaborazione con la DC, che tutt’al più poteva essere giocata sul piano della tattica, con una linea di grande flessibilità. Il problema non è la disponibilità al compromesso, ma il suo essere “storico”, il suo essere cioè non la risposta provvisoria ad una situazione contingente, ma una scelta che dà una forma definitiva al nostro futuro. Come spesso accade nella storia del movimento comunista, la tattica viene enfatizzata e viene teorizzata non come un passaggio, ma come il punto d’arrivo. È una forzatura, che restringe per il PCI lo spazio di manovra e lo blocca nell’attesa messianica di una “rigenerazione” della politica, di cui non si vedono i presupposti. La DC di Moro, al contrario, si muove secondo un criterio di flessibilità e di duttilità tattica, e riesce così a neutralizzare e ad assorbire la potenziale forza d’urto della sinistra. Moro ha uno sguardo lungo, e non si lascia imprigionare nelle formule contingenti. Pensa di dover avviare un processo nuovo, ma ne lascia del tutto impregiudicato l’esito, e si tiene così le mani libere per il futuro. Il PCI ha invece l’ansia di incassare subito il risultato, e tende quindi a irrigidire tutto il processo.

Nel momento in cui la società italiana, dopo i grandi sommovimenti degli anni Settanta, è matura per un cambiamento, ciò che si prospetta è solo una formula politica, un patto di governo, che rischia di apparire come il tentativo di ingabbiare in un regime uniforme tutto il nuovo dinamismo sociale. Per questo l’effetto è quello di un violento contraccolpo, ed è in quel passaggio politico che prende la rincorsa tutto il processo di divaricazione e di reciproca estraneità tra la politica e la società civile. L’errore, dunque, è stato quello di puntare tutte le carte su una soluzione “politica”, mentre ancora tutti i processi sociali restavano aperti e potevano dar vita a nuovi scenari e a nuovi rapporti di forza. Prevale cioè l’idea che solo una forte “iniziativa dall’alto” possa produrre una fase di cambiamento, e qui agisce tutto un retroterra storico e culturale che ha alimentato il mito del “primato della politica”. Questa idea del primato non è per se stessa sbagliata, ma si presta ad infiniti travisamenti. C’è primato solo se c’è egemonia culturale e lungimiranza strategica, mentre spesso c’è solo l’illusione di poter forzare la situazione con qualche atto d’autorità. Ma, in questo caso, si produce un rovesciamento: non la politica che si afferma come superiore regolazione del processo sociale, ma l’esibizione di una forza apparente, di una velleità, mentre la società reale segue la sua traiettoria in modo del tutto autonomo. Il primato si capovolge allora nell’impotenza.

 

Dal PCI alla CGIL

Apro, a questo punto, una parentesi di ordine personale. La mia esperienza politica nel PCI si infrange proprio su questi scogli teorici e strategici. Già nel ‘75 la nascita della giunta di sinistra a Milano mette in evidenza una certa divaricazione di prospettive, ed è noto che il centro del partito ha tentato in ogni modo di scoraggiare quella decisione, pensando che a Milano fosse necessario tenere aperti i canali di dialogo con la DC e considerando la nuova giunta come un azzardo troppo rischioso e troppo condizionato dalla forza preminente del PSI. Su questa vicenda ritorno in un recente articolo pubblicato su Le nuove ragioni del socialismo. Ma il contrasto diviene netto ed esplicito nel ‘79, dopo le elezioni politiche. Un mio intervento nel Comitato centrale, che poneva, in termini ancora problematici, la possibilità di un superamento del compromesso storico e di una più forte alleanza “riformista” col PSI, venne esplicitamente bollato da Berlinguer come una non ammissibile proposta di “socialdemocratizzazione”, che avrebbe comportato una linea di subalternità verso il PSI, a detrimento del nostro patrimonio storico e della nostra “diversità”. C’era, io penso, in questo giudizio così drastico, una lettura piuttosto parziale e tendenziosa, ma posso capire che si trattava per Berlinguer di mettere in atto un fuoco di sbarramento, per bloccare sul nascere una discussione più di fondo sull’intera strategia del partito. Una volta pronunciato questo verdetto, non era certo agevole uscire dall’angolo in cui forzosamente ero stato costretto. La cosiddetta destra “migliorista” del PCI, a cui qualche volta vengo impropriamente associato, fu in realtà la più zelante nell’opera di normalizzazione burocratica, perché essa non pensava affatto ad una democratizzazione della vita interna, ma al contrario aveva un senso fortissimo della politica come “comando”, come iniziativa dall’alto. Era attenta agli equilibri del potere interno, ma assai poco alla battaglia delle idee. Sarebbe interessante analizzare la dialettica interna al gruppo dirigente del PCI di quegli anni. Assistiamo oggi a molte ricostruzioni fantasiose e strumentali, immaginando battaglie politiche “riformiste” che non furono mai seriamente tentate, o cercando di sostenere che il PCI era già del rutto oltre la tradizione comunista. Per quello che io ricordo, non c’era allora, da parte di nessuno, una seria ed esplicita riconsiderazione dei nostri capisaldi teorici, né tanto meno una richiesta di democratizzazione della vita interna del partito. Eravamo tutti, me compreso, dentro un orizzonte teorico e pratico, di cui non riuscivamo ad avvertire la fragilità, la forza di erosione che lo stava frantumando, l’urgenza quindi di un nuovo pensiero, di un nuovo sguardo sul mondo. Anche la mia critica non andava al fondo delle questioni, ma stava tutta sul terreno della politica contingente.

In ogni caso, la mia era una posizione isolata, eccentrica, del tutto esterna ai gruppi di potere organizzati. Non rappresentava dunque nessuna seria minaccia per gli equilibri interni del partito. Ma quel modello di partito era una struttura di tipo militare, che non ammetteva deviazioni o improvvisazioni individuali. Quelle erano le regole, quello era il clima dell’epoca, e io non mi considero affatto una vittima, perché anch’io mi sono formato in quel determinato contesto culturale. Penso però che questa rigidità della vita interna fosse solo il colpo di coda di una storia in via di esaurimento, e che non sia stato un atto di saggezza continuare così, come se nel frattempo la società non fosse cambiata, negli stili di vita e di pensiero. Non sono stato un “dissidente” di professione, ma solo uno che ha cercato di aprire degli spazi, degli spiragli, e di vivere quell’esperienza collettiva in un modo più compatibile con la libertà individuale, e che alla fine ha dovuto registrare l’insuccesso di tutti questi tentativi. Succede spesso che nei momenti di crisi e di trasformazione scattino i meccanismi dell’autoconservazione burocratica, che quindi una struttura si chiuda in se stessa proprio nel momento in cui avrebbe più bisogno di una nuova apertura, di una nuova ricerca. Questa è stata la storia del PCI negli anni Ottanta, la storia di un partito assediato, che finisce per confondere i nemici reali e quelli immaginari. Il clima di sospetto e di diffidenza nei miei confronti mi ha creato, all’epoca, una certa sofferenza. Ricordo, ad esempio, che l’articolo qui ripubblicato sul “compromesso storico” era destinato inizialmente alla rivista ufficiale del PCI, Rinascita, ma l’allora direttore Luciano Barca si rifiutò di pubblicarlo. E al successivo Congresso nazionale del partito, nel 1983, non mi fu concesso di prendere la parola. Mi sembrava naturale poter esprimere, in quella sede, la mia posizione, anche per chiarire i numerosi equivoci e travisamenti che si erano alimentati. Non voleva essere un atto di arroganza, ma solo di lealtà e di chiarezza nei confronti del partito. Mi sembrava del tutto naturale poter argomentare pubblicamente le mie ragioni e le mie critiche. È una ben strana democrazia quella che si alimenta solo delle voci di consenso o, peggio, di adulazione. Ed è in quel momento che ho deciso di voltare pagina, perché non si può lavorare per un’organizzazione che non ha rispetto per la tua dignità personale, e ho scelto la CGIL come mio nuovo campo di lavoro, non come una rottura con la mia esperienza precedente, ma come la sua continuazione in altre forme. Sono molto grato a Luciano Lama e a tutto il gruppo dirigente della CGIL di avere accolto con grande apertura questa mia richiesta, e la CGIL è restata da allora l’organizzazione a cui affido la mia identità e le mie speranze.

 

Il nuovo inizio

È dall’osservatorio sindacale che seguo, in tutti gli anni successivi, gli sviluppi della vita politica, e da questo angolo visuale si può vedere assai meglio tutto l’intreccio tra società e politica, le tensioni e le contraddizioni di questo rapporto, che danno luogo, nello stesso tempo, ad una corporativizzazione del corpo sociale e ad una involuzione autoritaria e oligarchica della politica. Questa divaricazione è già in atto negli anni Ottanta, assai prima del crollo del muro di Berlino e dell’esplosione di Tangentopoli. Trovo una conferma, sorprendente anche per me, in alcuni miei scritti di quel periodo in cui è esplicitamente posto il problema di una possibile «disfatta politica della sinistra», perché «si stanno producendo cambiamenti sociali profondi che tendono a sradicare la sinistra dalle sue tradizioni, dalle sue acquisizioni teoriche più consolidate, dalla sua base sociale» (Micromega, 1988). In una situazione di rapide trasformazioni, la sinistra politica resta ferma, incapace di iniziativa e di innovazione, attenta a difendere il suo patrimonio. L’unico tentativo è quello Berlinguer, negli ultimi anni della sua direzione. Egli coglie esattamente la crisi che sta investendo l’intero sistema politico, e cerca di intervenire in questa crisi con una fortissima denuncia, affidando al PCI una funzione di rigenerazione e di salvezza nazionale. Ma non trova interlocutori, e la sua voce resta isolata anche dentro il suo stesso partito. Dopo la sua morte, restano solo i riti e le formule di un berlinguerismo ormai esangue.

È questo il senso della polemica con Massimo D’Alema, nel 1987, dove la critica riguarda il carattere ormai “vuoto” delle formule politiche e il tentativo consolatorio di fingere una vitalità del partito che è andata perduta. È in quell’articolo che consiglio provocatoriamente ai nostri dirigenti la pratica taoista del “non agire”. Non è solo la civetteria di una citazione culturale lontana dalla nostra tradizione. Essa può essere così tradotta e interpretata: se volete rimettervi in gioco, dovete mettervi in ascolto dei cambiamenti, entrare in comunicazione con la società che cambia, e solo dopo “agire”, dopo che abbiamo individuato una mappa aggiornata delle forze e delle tendenze in campo, così da agire non in astratto, ma nel concreto del processo reale. Questa volta l’articolo viene pubblicato su Rinascita, accompagnato da una nota redazionale scritta in perfetto stile burocratico, che invita in sostanza a diffidare di espedienti retorici ingegnosi e di semplificazioni, e di confidare, ancora una volta, nella superiore saggezza del gruppo dirigente. Il Comitato centrale, di lì a poco, chiarirà tutto quello che merita di essere chiarito. Se la saggezza è, come ci insegnano i grandi classici dell’Oriente, l’essere aperti alle tante verità possibili, e il non fissarsi su nessuna posizione precostituita, essa non fa parte dei tanti meriti del gruppo dirigente comunista, perché non c’è l’idea che la verità possa avere tante facce, e che il pensiero debba essere una libera esplorazione, senza che sia mai possibile fissare il, confine tra la verità e l’errore. Anche per questa ragione, per questa fissazione su un punto di vista parziale che pretende di essere il depositario esclusivo della verità, la storia della sinistra è una serie infinita di eresie e di scissioni.

Non sorprende, quindi, che un partito così bloccato, organizzato per via gerarchica, incapace di una libera dialettica interna, si trovi del tutto impreparato ad affrontare la cesura storica dell’89, di fronte alla quale c’è solo l’invenzione estemporanea di una mossa ad effetto: il cambio del nome e il mito del “nuovo inizio”. È il classico meccanismo della “fuga in avanti”: di fronte ai dilemmi stringenti del presente. Si finge di essere già “oltre” e con ciò ci si illude di mettersi al riparo dall’ondata che si abbatte su di noi, sul mondo ideologico in cui siamo vissuti, su tutto ciò che ha tenuto insieme una grande esperienza collettiva. È questo un passaggio cruciale: nel momento in cui tutta la situazione era tale da imporre un bilancio critico complessivo di tutta la nostra storia, si decide invece di eludere totalmente questa necessità. La mossa acrobatica è la seguente: noi non dobbiamo rendere conto del passato, perché siamo noi che facciamo nascere una sinistra del tutto nuova, inedita, che va oltre tutte le antiche appartenenze. Vorrebbe essere un’astuzia, ma è solo improntitudine. Non è solo Occhetto l’artefice di questa scelta, ma l’insieme del gruppo dirigente, il quale si è poi successivamente gloriato del suo “coraggio”, della sua rottura con la tradizione, rendendosi così disponibile per tutta una serie di altri passaggi e mutamenti, sempre con lo stesso stile di improvvisazione e di disinvoltura, senza mai fissare i fondamenti delle strutture di pensiero su cui dovrebbe reggersi la nuova politica. La stessa critica può essere rivolta anche agli oppositori interni, che si sono limitati a una linea di resistenza, destinata ad essere travolta. E ognuno si è inchiodato con testardaggine cieca alla propria posizione di partenza, senza dialogo, senza spirito di ricerca, capovolgendo lo stile severo vecchio “centralismo” nella sfrenatezza delle lotte di fazione.

Questa è la critica di fondo a tutto il processo politico che nasce dalla dissoluzione del PCI: l’essere stato gestito sull’onda delle emergenze tattiche, senza mai fare i conti fino in fondo col nostro patrimonio storico, senza dire dov’è la continuità e dov’è il mutamento, senza offrire un nuovo quadro di interpretazione teorica della realtà. Siamo andati alla cieca, e oggi nessuno sa dire con chiarezza dove stia l’identità della sinistra, dove sia il cuore progettuale della sua proposta politica. Sappiamo solo, come nella poesia di Montale, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non è stata una “svolta”, ma una ritirata, un disarmo unilaterale. In tutto questo processo c’è qualcosa di inevitabile, di necessario, ma c’è anche il soggettivismo superficiale e presuntuoso di un gruppo dirigente che pensava di scrivere una “pagina di storia”, e quella pagina era bianca.

 

Comunismo e democrazia

Il crollo del comunismo segna la fine di un’epoca. Intendo qui il comunismo non nella sua dimensione teoretica, ma come il movimento reale che ha segnato di sé tutta la storia del Novecento, e non si può fingere che la nostra esperienza nazionale fosse del tutto esterna a questa storia. Parliamo, infatti, di una complessa esperienza di massa, che ha diverse articolazioni e varianti, ma anche una sua forza unitaria, una sua compattezza teorica, e che ha rappresentato, lungo tutto il Novecento, una sfida, teorica e pratica, al modello delle democrazie liberali. Questa esperienza si conclude con un fallimento, traumatico e senza appello. È questo lo spartiacque decisivo, oltre il quale c’è un mutamento che investe lo stesso orizzonte di senso della politica. Per questo, sarebbe necessaria un’indagine in profondità, che invece non è mai stata seriamente compiuta, e neppure tentata.

È con il comunismo che la politica assume un significato globale e coinvolge la persona nella totalità del suo essere, razionale ed emotivo, proprio in quanto esso prospetta un rinnovamento totale della società e del destino umano. Tutta la politica moderna è segnata da questa sfida, ed essa assume così un carattere totalizzante, perché sono in gioco il significato e l’esito finale della nostra storia. E ciò vale, naturalmente, anche per chi si oppone alla prospettiva comunista e mobilita tutte le energie possibili per contrastarla. La fine del comunismo è la fine dell’epoca nella quale la politica ha questo significato globale. Il mutamento, quindi, non è di superficie, ma investe in profondità la nostra struttura culturale e antropologica. È da qui che prende avvio una nuova forma dello spirito pubblico, una posizione di disincanto e di freddezza verso la politica, un nuovo modo di pensare tutto il rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva. È un passaggio d’epoca, che muta radicalmente tutto il quadro, e in questo passaggio la politica, se non riesce a ridefinire il suo statuto, il suo perimetro d’azione, il suo senso, finisce inevitabilmente per essere messa ai margini, travolta dal gioco degli interessi organizzati, da uno spirito di competizione, individuale o di gruppo, che non ammette più nessun argine, nessuna regola.

Ora, in questo nuovo scenario, come ci collochiamo? È qui che vedo tutta la fragilità della politica attuale, che non sa misurarsi seriamente con i mutamenti che incidono così in profondità sulla nostra vita. Da un lato, c’è un adattamento, uno stare al gioco, una posizione passiva, il che comporta una totale rimozione del passato, di tutto il bagaglio ideologico del Novecento; fingendo un’improbabile ripartenza su nuove e inedite basi. L’approdo è solo un pragmatismo che non ha struttura, non ha punti fermi, ed è solo il mimetismo di chi galleggia sulla corrente. Dall’altra parte, c’è l’illusione speculare di una “rifondazione”, di un ritorno al passato, chiudendo gli occhi di fronte all’evidenza di un fallimento storico. Se la sinistra si lascia stringere in questa tenaglia, essa non può aprirsi nessuna strada verso il futuro. Adattamento o resistenza, non sono che le due facce di una medesima impotenza ed estraneità. Il risultato non è la competizione tra due sinistre, tra due progetti che si contendono l’egemonia, ma è l’irrilevanza di entrambi. È questo il frutto avvelenato dello spirito di scissione, il quale ci spinge a scegliere tra due posizioni specularmente unilaterali, e perciò entrambe errate e fuorvianti. Non riusciamo più a tenere insieme tutta la complessità del reale, a coglierlo nella sua dinamica di insieme, non siamo più attrezzati per il lavoro e per la fatica della sintesi. E allora tutto tende ad essere semplificato, banalizzato. È il tempo dei pensieri lineari, superficiali, levigati, dei pensieri che non danno da pensare. Abbiamo lasciato che anche il nostro cervello venisse bipolarizzato, capace di vedere solo un lato, e mai l’intreccio delle cose nella sua complessità.

Se dovessi definire, in sintesi, ciò che è sinistra e ciò che è destra, direi che sinistra è pensiero complesso e destra è semplificazione. E la destra oggi è dominante proprio perché si è perso il senso della complessità, e tutto viene scarnificato, banalizzato, svuotato del suo senso, tutto cioè deve adattarsi alla semplicità delle tecniche pubblicitarie, e la stessa politica è diventata solo una forma dell’intrattenimento. Questo è quello che inquieta della nuova forma antropologica: non il primato dell’individuo, ma il suo adattarsi ad essere una maschera che recita una parte scritta da altri. L’individualismo è solo l’apparenza: la sostanza è lo svuotamento dell’individuo.

E ciò trascina con sé anche l’infiacchimento di tutta la vita democratica. La democrazia è lo spazio pubblico in cui si mettono a confronto le idee, i progetti, le culture politiche, ed essa quindi richiede sforzo di pensiero, capacità di sintesi e di mediazione, spirito di dialogo e passione politica, tutti requisiti che scarseggiano nel nostro mondo semplificato e bipolarizzato. Il paradosso è che la fine del comunismo ha messo in ginocchio le nostre democrazie occidentali, perché esse vivevano anche di quella tensione, di quella sfida, e ora c’è la stanchezza di chi è ormai appagato, e non vede più un traguardo per cui combattere. E in questa stanchezza prendono forza nuove suggestioni autoritarie. La democrazia, che ha vinto la sua competizione nel mondo globale, deve ora guardarsi da se stessa, dalle forze distruttive che essa genera nel suo stesso seno.

 

La mutazione

L’immagine ricorrente è quella della “transizione”: dalla prima alla seconda repubblica, da una democrazia dei partiti al una democrazia dei cittadini, da un modello consociativo a modello bipolare. Una transizione, si dice, che ancora deve essere completata con un ridisegno delle istituzioni politiche. Quasi tutti sembrano convergere su questo punto: le riforme istituzionali sono la priorità. Fallito il tentativo della Bicamerale, occorre ritrovare lo spirito costituente, in un nuovo clima di dialogo e di collaborazione tra gli opposti schieramenti. È su questo punto che insiste, dall’inizio del suo mandato, il Presidente Napolitano. Io mi domando quanto sia efficace questo schema interpretativo, e mi vado sempre più convincendo che esso ci mette su una falsa pista, perché rovescia l’ordine dei fattori. Il centro della crisi non sta nelle istituzioni, ma nella società, nella sua segmentazione corporativa, nel venir meno delle legature sociali, della coesione, di quello “spirito pubblico” che costituisce la società come una comunità unitaria. Le riforme istituzionali, anche quelle più ragionevoli, se sono lasciate a se stesse, se non sono accompagnate da una robusta azione politica che incida nel corpo vivo della società, non potranno avere effetti duraturi, ma solo provvisori, parziali e revocabili. Aveva ragione Bruno Trentin a mettere al primo posto la “riforma della società civile”, rovesciando così l’intera agenda politica rispetto agli schemi dominanti. Le istituzioni, in ogni caso, vengono “dopo”, e sono il riflesso della struttura materiale della società. Dobbiamo fare i conti, in proposito, con tutta una rappresentazione mitologica della “società civile”, che avrebbe solo bisogno di non essere inceppata dalla politica. In questo contesto, le riforme istituzionali hanno solo il significato di un arretramento del pubblico rispetto al privato, di un prosciugamento dello Stato per lasciare libero spazio alle spontanee virtù civiche della società. Ma questa rappresentazione, se appena guardiamo con realismo alla realtà effettuale delle cose, non ha nessun fondamento, e si vede allora con chiarezza come il groviglio di illegalità e di arbitrio che si è insediato nelle istituzioni non è che l’estrema propaggine di una società civile inquinata e dominata da un sistema di caste. Le ricette dell’antipolitica non sono altro che la definitiva resa ad un tale sistema, alle strutture di potere che organizzano la società come società diseguale.

Inoltre, quando si dice “transizione” si sottintende che c’è un cammino iniziato, e che va completato. L’idea della transizione trae la sua motivazione da una rappresentazione sostanzialmente positiva e ottimistica del processo politico che si è avviato, il quale ha solo bisogno di essere portato alle sue ultime conseguenze. E, in effetti, tutti i progetti di riforma istituzionale si differenziano fra loro solo per la loro maggiore o minore radicalità, non per la direzione di marcia. Le riforme servono alla governabilità, al rafforzamento del potere esecutivo, al ridimensionamento delle rappresentanze politiche, allo spostamento del baricentro istituzionale dalle assemblee elettive al governo. Ma è proprio questa traiettoria che va messa in discussione, in quanto essa ci conduce nel vicolo cieco di uno svuotamento della democrazia, di una sua riduzione a mera forma procedurale. Si vorrebbe puntellare la democrazia, ma in realtà la si stravolge. Per questo, io non parlerei di transizione, ma di mutazione, in quanto ciò che si annuncia è una politica del tutto inedita, che non ha più i tratti sperimentati della tradizione, ma è una nuova figura, ancora ambigua e sfuggente, e nello stesso tempo inquietante perché viene messa in gioco la sostanza stessa della democrazia. C’è un mutamento delle forme della politica, e in questo mutamento c’è una trappola che è pronta a scattare: riduzione della politica a competizione individuale per la leadership, dove la novità non è l’emergere del leader politico, ma il fatto che dietro il leader c’è il deserto delle idee e dei progetti. Il leader non è il punto culminante di un processo collettivo, l’incarnazione di un progetto politico, come è sempre stato nella nostra storia passata, ma esso rappresenta solo l’idea pura del comando. La domanda non è più: che cosa fare, quali programmi realizzare, qual è il modello sociale cui tendere, ma solo a chi consegnare il potere di decidere. È come un ritorno a Hobbes: sacrifichiamo le nostre libertà e i nostri diritti in cambio della sicurezza. L’unica garanzia è nell’esistenza di un potere di comando sufficientemente forte, capace di tenere sotto controllo gli umori contraddittori della società civile. C’è qui un curioso rovesciamento: la pretesa di autonomia della società civile finisce per arrendersi di fronte ad un potere esclusivo ed assoluto. L’antipolitica si capovolge nella domanda di un potere politico incontrollato. Questa contraddizione è il segno distintivo dell’attuale fase politica. Che cos’è, infatti, il berlusconismo? È un potere autoritario, un nuovo regime, o è invece la politica che si arrende al mercato, è una forma di dominio, o del dominio c’è solo l’apparenza, perché in realtà il potere sta altrove? Questi due aspetti convivono, tra loro intrecciati. La politica attuale è un ibrido di arroganza e di impotenza, e in questo sta anche la sua forza, perché non è chiaro da quale lato la si possa aggredire.

L’idea di mutazione contiene inoltre in sé il momento dell’ambivalenza, dell’ambiguità. La linea del cambiamento non è tracciata, ma è lasciata in sospeso. Mentre la transizione ha il segno della necessità, la mutazione resta aperta a diversi possibili sbocchi. Nel momento in cui tutto il contesto politico cambia, e assume anche i caratteri aggressivi di un attacco violento alla democrazia, si apre un combattimento tra diverse prospettive, e nulla è dato per scontato. Rivedendo i miei scritti, vi trovo una continua oscillazione tra il senso di un declino, di uno smarrimento, e la ricerca di quali possano essere, anche in questo quadro mutato, le energie potenziali su cui ricostruire una politica rinnovata. In ogni caso, non c’è mai una necessità, una legge oggettiva che ci determina, ma c’è sempre un campo di possibilità che deve essere esplorato. Anche quando tutto sembra precipitare, c’è sempre la possibilità di non farci rinchiudere nell’angolo. Per questo, la mutazione ci consegna, insieme, il massimo del rischio, ma anche l’occasione di una nuova iniziativa, che può scompigliare tutti i giochi del potere costituito. L’immagine può essere allora quella della catastrofe, che costringe tutti a ragionare con nuovi criteri, con nuovi schemi, perché l’equilibrio precedente è stato definitivamente spezzato.

In una tale situazione, occorre il coraggio di posizioni nette, radicali, chiare e riconoscibili nella loro traiettoria, nelle loro motivazioni. È invece un’illusione l’idea che si tratti solo di posizionarsi al centro, su una linea moderata, equidistante, incolore. Il centrismo può funzionare nelle situazioni di stabilità, ma non può che essere travolto nei momenti di crisi. È un tema politico di grande attualità: la sinistra ha bisogno di mimetizzarsi in una operazione neocentrista, o al contrario deve mettere in campo, con chiarezza, un suo progetto alternativo? Se si imbocca la prima strada, la sinistra si rende superflua, e saranno altri i protagonisti politici della prossima stagione. Non è il tempo dei moderati, perché siamo nel mezzo di uno sconvolgimento globale, di fronte al quale non contano nulla le mezze verità, ma conta solo la coerenza di una posizione sviluppata nelle sue ultime conseguenze. La forza della Lega, in Italia, e di altri analoghi movimenti in Europa, è proprio quella di adottare un punto di vista radicale, antieuropeo, tradizionalista, xenofobo. E lo stesso successo di Berlusconi sta nel suo estremismo populista e antipolitico. Non è affatto vero che vince chi sta nel mezzo. Non esiste il centro come autonomo spazio politico, ma il centro lo occupa chi ha l’iniziativa vincente. Se corriamo dietro alle chimere centriste, ci ritroveremo infine del tutto disarmati e impotenti. Nella mutazione delle forme della politica, dobbiamo rendere visibile e credibile un’alternativa, un progetto che va oltre le rigide compatibilità del sistema. La risposta vincente non può essere un’impossibile restaurazione, ma una navigazione coraggiosa dentro le incognite della mutazione. Tutto il nostro passato può e deve essere rimesso in discussione, ma deve essere preso sul serio. La tradizione della sinistra e dell’insieme delle forze democratiche resta un deposito di energie e di risorse a cui attingere. Il futuro non è nelle mani di chi è senza storia, ma di chi riesce a dare un senso alla sua storia.

 

L’ideologia

Se la mutazione è aperta a diversi sbocchi, quali sono i fattori determinanti che decidono dell’esito finale? La mia tesi è che il senso del processo sarà deciso, in ultima istanza, dai fattori ideologici, dalla capacità o meno dei diversi soggetti in campo di offrire un orizzonte di senso, di fare egemonia, di determinare le forme del senso comune. Mi rendo conto di essere portato a questa conclusione da tutta la mia formazione politica, a partire dall’idea del vecchio Engels che il movimento operaio è l’erede della filosofia classica tedesca, un’idea che ha guidato tutta l’esperienza del comunismo italiano, da Gramsci a Togliatti. Nel caso del PCI, era ben chiaro come il decisivo punto di forza fosse la sua sfida sul terreno dell’interpretazione del mondo, e a partire da qui, da questo forte retroterra culturale, venivano alimentati i suoi molteplici legami con la società. Ora, quel mondo è tramontato. Ma, con ciò, è tramontato anche il ruolo delle ideologie? L’ideologia non è altro che il sistema di pensiero con cui leggiamo la realtà. E l’egemonia appartiene a chi riesce a far valere, nella coscienza di massa, la sua interpretazione del reale.

Ciò che è avvenuto, in questi anni, non è la fine delle ideologie, ma un salto di egemonia, che è il risultato di un’offensiva culturale vincente delle correnti individualistiche e liberiste. In questo quadro, mi sembra del tutto fuori dalla realtà chi si immagina un mondo post-ideologico, dove c’è solo il calcolo razionale delle convenienze, e non c’è più nessuna battaglia da combattere sul terreno delle idee. È una prospettiva del tutto repellente, perché vorrebbe dire che l’umanità non è più capace né di pensiero, né di passioni. Ma penso che questi teorici del post-ideologico siano del tutto fuori strada, e attribuiscano all’intera società la loro personale aridità, il loro vuoto mentale. Insisto su questo punto, perché c’è tutta una corrente politica che ha preso nelle sue mani questa bandiera sgangherata della fine delle ideologie. Anche nel linguaggio corrente, si tende a liquidare come “ideologico” tutto ciò che oltrepassa la nostra capacità di comprensione. La fine delle ideologie non è altro che il rifiuto di scavare nella realtà profonda del nostro mondo. E questa realtà è segnata da una violenta competizione per l’egemonia, in cui riemergono con grande forza le grandi correnti religiose, le sedimentazioni della storia, le identità nazionali. Come si può capire tutto questo conflitto, se non si prendono in considerazione i fattori ideologici?

La teoria della fine delle ideologie non è altro, nella sua sostanza, che la riproposizione arrogante della superiorità dell’Occidente. È il nostro mondo che si è liberato dei miti e che si è pienamente secolarizzato. Sono le altre culture che dovranno alla fine adeguarsi al nostro modello. Si dice fine delle ideologie, ma in realtà si immagina il trionfo definitivo dell’ideologia dominante, dove non c’è più spazio per nessun progetto alternativo. Più in generale, si può dire che l’ideologia è una componente ineliminabile della politica, proprio perché essa rappresenta il tramite tra la massa e il potere, il modo in cui si organizzano il consenso e la mobilitazione. Il territorio dell’ideologia non è quello della verità, ma solo quello dell’efficacia. Essa quindi sta in un intreccio che la unisce strettamente alla politica, e non è mai possibile separare le due dimensioni.

La novità, in questo inizio di secolo, è che la politica non dispone più di risorse ideologiche proprie, e allora tende ad appropriarsi del grande deposito tradizionale delle credenze e delle identità religiose. La religione viene spinta direttamente nel conflitto politico, viene usata come un’arma della politica. Il fenomeno si verifica, in forme non molto dissimili, nell’Islam e nell’Occidente cristiano. Questa commistione di religione e politica ha effetti devastanti, perché in questa sovrapposizione si perde l’autonomia dell’uno e dell’altro elemento, si compromette la laicità della politica, da un lato, e anche, nello stesso tempo, l’autenticità spirituale della fede religiosa, che viene piegata alle convenienze del potere. Se il potere ricorre alla fede, e la fede si fa forte della sua alleanza con il potere, ciò significa che la democrazia si dissolve e che ad essa si sostituisce l’intolleranza dei fondamentalismi.

La questione religiosa torna al centro della politica, ed è essenziale, quindi, avere una posizione, un orientamento chiaro intorno a questo problema. La religione va presa sul serio, come una dimensione dell’esperienza umana che oltrepassa la sfera degli interessi mondani, e perciò non si risolve mai interamente nella politica, ma rappresenta per la politica una sfida permanente, un voler andare oltre, un movimento che tende sempre a trascendere i dati della realtà e che non può mai trovare un appagamento. Questo è il senso del messaggio cristiano: una riconversione della propria vita, al di là degli equilibri politici del momento. Il moderatismo è il tradimento di questo messaggio, perché è l’adattamento, è la morale del quieto vivere, mentre tutta la predicazione evangelica è una sfida alla morale corrente e all’osservanza solo formale ed esteriore delle regole. È a questa religiosità esigente che noi dobbiamo saperci rivolgere, non per un patto politico, ma per una comune ricerca che guarda al di là degli equilibri consolidati.

Religione e politica si possono incontrare solo nell’autonomia delle loro rispettive sfere. Se i due piani si confondono, ci troviamo sospinti all’indietro, verso una forma di clericalismo non più compatibile con la nostra moderna soggettività, con il nostro voler essere persone, capaci di autonomia. Il principio della laicità è esattamente questo senso della distinzione, nel quale la religiosità non viene affatto negata, ma riconosciuta come una energia spirituale che può concorrere, nella sua autonomia, alla costruzione dello spazio comune, della comune convivenza. Sotto questo profilo, l’esperimento politico del Partito democratico può essere di qualche interesse e fecondità, a condizione che sia davvero capace di produrre una sintesi e una visione più alta della politica, al di là dei vecchi steccati. In ogni caso, questo tema del rapporto religione e politica è un nodo cruciale da affrontare e da chiarire. Ora, il limite della politica attuale, nelle sue diverse forme, è proprio quello di eludere e di aggirare tutte le questioni teoriche, pensando che si tratti solo, con spirito pragmatico, di adattarsi alle circostanze.

Pensiero e azione vanno ormai su due piani del tutto separati. Chi pensa non agisce, e chi agisce non pensa. In questa separazione sta forse il segno più evidente del nostro smarrimento e del nostro declino. E la politica diviene un affare di piccole oligarchie rampanti, mentre le grandi domande sul senso della nostra vita e del nostro futuro restano senza risposta. Per questo, il primo passo da fare è quello di restituire alla politica la sua dimensione ideale e culturale, in un rapporto diretto con il vissuto concreto delle persone e con le loro domande di senso e di identità.

 

La rappresentanza

Interessi e passioni sono i due ingredienti della politica. Sono tra loro sempre strettamente intrecciati, e non è mai possibile considerarli in modo disgiunto. Un progetto politico consiste in una determinata miscela di questi due elementi, ed è evidente che le combinazioni possono essere le più svariate. E l’efficacia del progetto sta appunto nella capacità di operare una saldatura, nella quale le persone si possano riconoscere in tutta la loro complessità. Nella sfera della politica, non ha nessun senso l’opposizione astratta di materialismo e idealismo, perché essa ha bisogno dell’uno e dell’altro.

Di questi diversi fili si compone il lavoro della rappresentanza. È questo un tema centrale, dal quale dipendono la vitalità e la forza di un sistema democratico. Una società senza rappresentanza si consegna indifesa agli avventurieri del potere, ed è quindi la rappresentanza l’unica forza che può fare da contrappeso alla tendenziale degenerazione del potere politico, in quanto essa dà forma e struttura alla società, e costruisce i luoghi e gli strumenti di un’identità collettiva, di una relazione tra le persone, facendole uscire dal loro isolamento. Costruire la rete delle rappresentanze è il primo compito, la prima tappa necessaria per restituire senso ed efficacia alla vita democratica.

Ma che cosa vuol dire rappresentare? È un tema su cui ritorno in più occasioni, vedendo nella loro distinzione, ma anche nel loro intreccio, l’aspetto sindacale e quello politico, il diverso ruolo di queste due forme del rappresentare, ma anche il loro destino comune, il loro essere l’una complementare all’altra. Tutto il lavoro della rappresentanza è reso oggi più complicato e più problematico per effetto dei mutamenti che hanno investito le nostre società, i quali hanno dato luogo ad una crescente individualizzazione, ad uno spostamento dalla dimensione collettiva a quella individuale.

Non è la fine del “sociale”, ma è piuttosto la fine di una struttura sociale semplice e lineare, dove erano tracciate con nitidezza le linee divisorie del conflitto, e dove quindi erano date precise identità di classe. Oggi si tratta di rappresentare una complessità, un’identità plurale, che non è data solo dal lavoro, dalla collocazione sociale, ma da un insieme di esperienze, di aspettative, di progetti individuali. Il lavoro resta una componente decisiva, ma non è il luogo esclusivo dell’identità, e va inquadrato in una visione più larga e più comprensiva della persona, della sua autonomia e della sua realizzazione. Si spostano, quindi, le linee del conflitto, ed esse investono la qualità complessiva della vita sociale. Anche la rappresentanza sindacale è coinvolta in questo processo, e deve necessariamente aprirsi a nuove dimensioni, a nuovi territori. Per questo, c’è oggi sempre più bisogno di un sindacato “generale”, confederale, non corporativo, che cerchi di rispondere alle domande complesse di una società in movimento.

L’idea-guida è la dignità e l’autonomia della persona, considerata all’interno della rete sociale di cui si compone la sua vita. I cambiamenti che investono la struttura sociale aprono territori al lavoro della rappresentanza. In particolare, tre grandi emergenze: la precarizzazione del lavoro, l’invecchiamento della società, l’immigrazione. In tutti questi casi, si tratta di far valere una politica attiva di inclusione, che contrasti la marginalità e realizzi una cittadinanza attiva.

Nel sindacato dei pensionati ho via via scoperto la pregnanza, sociale ed esistenziale, del tema dell’invecchiamento, che rappresenta, nella vita di ciascuno di noi, un passaggio critico, nel quale possono scattare le trappole della passività e dell’isolamento, o possono essere elaborati nuovi progetti di vita. È un grande tema politico, che è rimasto fin qui del tutto ai margini del dibattito pubblico, e che richiederebbe una riscrittura moderna del De Senectute, vale a dire un approccio culturale di ampio respiro, per dare un senso, una motivazione, un’identità a questo vasto e crescente continente sociale, che sta in un equilibrio instabile e può precipitare nell’irrilevanza.

Da questo punto di vista, occorre rispondere con durezza a tutta la campagna propagandistica che punta alla contrapposizione di giovani e anziani, al conflitto intergenerazionale, presentando gli anziani come l’ostacolo da abbattere per aprire il futuro alle nuove generazioni. In realtà, sono entrambi le vittime di un meccanismo sociale che esaspera le diseguaglianze e produce una generale diffusione della marginalità, e occorre quindi una battaglia comune per una società che sia capace di riconoscere i diritti della persona, in tutto l’arco della sua vita.

 

Il globale e il locale

Posso agevolmente prevedere quali saranno le critiche, o anche i gesti di fastidio, perché questo è stato, in tutti questi anni, il destino di qualsiasi analisi critica della realtà, con il consueto e logoro argomento che si tratta solo di nostalgie conservatrici. È del tutto bizzarra questa saccenteria “riformista”, che rovescia con impudenza forse inconsapevole i termini della questione: i riformisti diventano quelli che si adattano alla realtà, e i conservatori quelli che vogliono cambiarla.

E ora c’è un grande argomento ideologico che viene esibito a sostegno di questo rovesciamento, ed è il tema della globalizzazione, il grande alibi che dovrebbe ormai spazzar via tutte le velleità della vecchia sinistra, perché non c’è un futuro da immaginare, ma esso è già scritto, noi già siamo entrati nel futuro e sono progressisti e moderni solo quelli che ne accettano le regole. Quelli che si ostinano nella ricerca di una qualche alternativa vengono allora avvertiti come gli ultimi seguaci di quel misticismo disperato che guarda con “timore tremore” alle dure e oggettive necessità della vita.

La globalizzazione viene qui intesa come un processo di unificazione del mondo, come il movimento inarrestabile di una generale omologazione. Ma la verità delle cose è assai diversa, perché ciò che si viene affermando è una struttura multipolare, con l’emergere di nuove potenze e con la messa in discussione delle antiche gerarchie: non la compattezza dell’Impero, ma una competizione allargata, che mette a confronto diversi modelli e diverse culture. La novità è nel fatto che tutto il gioco politico si svolge su una scala più ampia, nei grandi spazi dove si decidono gli equilibri mondiali, e in questo cambiano le regole del gioco, e devono necessariamente cambiare le forme di azione e di organizzazione dei soggetti politici e sociali.

Il ritardo in questa necessaria riorganizzazione riguarda essenzialmente il nostro continente, che non riesce a superare i particolarismi nazionali e a costituirsi come una potenza politica unificata. In questa Europa ripiegata su se stessa, incapace di slancio unitario, finiscono allora per diffondersi le politiche del rancore e della paura, del localismo e del fondamentalismo religioso, condannandola così ad una posizione sempre più marginale. La globalizzazione, in sostanza, va analizzata nei suoi processi reali, nelle sue contraddizioni, nelle nuove rotture sociali che si determinano, il che non chiude affatto gli spazi della politica, ma li spinge verso una nuova dimensione.

E c’è una dialettica complessa tra il globale e il locale, perché i grandi flussi globali transitano attraverso luoghi determinati, e mettono in discussione gli equilibri tradizionali del territorio. Questo intreccio vuole anche dire che l’azione locale può influire sul processo di insieme, che un’azione concentrata in alcuni punti strategici può avere degli effetti a largo raggio. E il nostro territorio è già ampiamente globalizzato, per effetto della grande ondata migratoria, che va pienamente riconosciuta come una tendenza storica di fondo, strutturale, che è follia affrontare, come si sta facendo, in una prospettiva non di integrazione, ma di repressione.

Qui c’è tutto un lavoro di ripensamento delle forme della politica e degli strumenti della partecipazione democratica che richiede il massimo di impegno. Questo dovrebbe essere lo spazio di una iniziativa riformista: attrezzare la politica ad affrontare le nuove sfide. Ci sono invece alcuni sedicenti riformisti che si comportano come Ah Q, protagonista di un magistrale racconto di Lu Hsun, il quale riusciva a vivere le sconfitte come vittorie, e più prendeva bastonate più si sentiva moralmente superiore.

 

Essere in cammino

Mi sono già troppo dilungato. Non ho da offrire, alla fine di questo lungo percorso, nessuna proposta conclusiva. Tenderei, anzi, a diffidare di chiunque pretenda di poter disporre di una chiave risolutiva, non per uno scetticismo congenito, ma perché mi sembra che siamo tuttora travolti da un cumulo di macerie, e che sarà lungo il lavoro di bonifica, per liberare il campo da tutto questo deposito di detriti: detriti ideologici, sociali, esistenziali, antropologici, istituzionali. Non siamo in una transizione di cui sia già tracciato il percorso, ma in un sommovimento che resta aperto alle più svariate traiettorie.

Si tratta per ora di sondare il terreno, di riorganizzare le idee e le forze, e di tentare nuove strade, di aprire degli spiagli in una situazione che si è bloccata, in un ordine delle cose che tende a chiudersi in se stesso. Alla fine di tutto questo lavoro preliminare, non so oggi dire quali reali alternative staranno di fronte alla politica, e quali saranno i soggetti capaci di rappresentare queste alternative. L’attuale configurazione dello schieramento politico ha un evidente carattere aleatorio, effimero, instabile. Tutti gli equilibri sono provvisori, e sono esposti alla possibilità di alterazioni, di oscillazioni anche profonde. D’altra parte, tutta la vita politica viene giocata sul breve periodo, con lo sguardo fissato ossessivamente sui sondaggi del giorno, e nessuno sembra in grado di elaborare

una visione di lungo periodo. Identità e rappresentanza vanno ricostruite, pazientemente, senza avere l’ansia del tempo e senza dover misurare, giorno per giorno, l’indice di popolarità. In questa situazione, è chiaro che è del tutto priva di senso la cosiddetta “vocazione maggioritaria”, perché ciò vorrebbe dire rovesciare l’ordine delle cose, e dare per acquisita una forza di egemonia di cui non si vedono le tracce, e che è tutta da conquistare. Si tratta solo di un gesto di arroganza, che si è subito sgonfiato, perché dietro quel gesto non c’era nulla di sostanziale.

Nel frattempo, ci sono numerosi passaggi tattici che dovranno essere gestiti: le alleanze, le tattiche elettorali, le possibili riforme del sistema politico, le forme della comunicazione, le parole d’ordine. Ma la più accorta gestione tattica non può sostituirsi al lavoro di progettazione strategica, che ha un orizzonte temporale necessariamente più lungo. La tattica è il modo di stare negli equilibri dati, mentre la strategia è accumulo di forza che sposta tutti gli equilibri.

Io ho solo indicato alcuni temi su cui lavorare, alcune piste di ricerca per cercare di rimettere con i piedi per terra il discorso politico della sinistra, affrontando a viso aperto le contraddizioni che nel frattempo ci sono scoppiate fra le mani. L’unico criterio ispiratore per questo lavoro mi sembra essere quello di agire sui punti di rottura, di conflitto, di destabilizzazione, per rimettere in movimento tutto il panorama sociale e politico. Riaprire il conflitto, che viene a priori rifiutato nel pensiero politico corrente, non vuol dire uscire dal quadro democratico, ma al contrario immettere tutta la forza dirompente della partecipazione democratica là dove la democrazia è stata sospesa. Vuol dire pensare alla democrazia non come ad una condizione già stabilizzata, ma come ad un processo che ricomincia sempre daccapo e che mette in discussione le forme ossificate del potere. La democrazia, in questo senso, è il movimento della democratizzazione. Anche lo strumento delle primarie può essere utilizzato in questa chiave, come una possibilità che si apre per rompere i giochi delle oligarchie di potere.

E, sul terreno dell’azione sindacale, il principio della democratizzazione è un aspetto decisivo, per far poggiare tutta l’attività contrattuale su condizioni di trasparenza, di consenso, di coinvolgimento effettivo dei lavoratori interessati. Per questo è un grande nodo politico quello rappresentato dalla vicenda FIAT, proprio perché il significato più insidioso del modello sindacale che si vorrebbe introdurre è quello di negare legittimità e agibilità democratica a chi si colloca in una posizione critica, negando alla radice le ragioni del conflitto. L’impresa è un sistema sociale complesso, nel quale convivono interessi diversi, che possono essere mediati, ma devono essere riconosciuti nella loro autonomia.

Ciò che rischia di paralizzarci, di chiuderci in una posizione marginale, è l’adesione acritica al principio della governabilità, della stabilità del sistema, ed è in nome di questo principio che abbiamo compiuto, negli anni passati, una spericolata ritirata strategica, per cui è divenuto sempre più arduo distinguere ciò che è destra e ciò che è sinistra, perché su tutti incombe una legge superiore che fissa rigidamente i confini del possibile. Se non abbiamo il coraggio di oltrepassare questi confini, il nostro ruolo sarà del tutto irrilevante. Per andare dove, non è oggi possibile dire. Oggi si tratta solo decidere se vogliamo ancora essere in cammino, o se il cammino è finito e non resta che accomodarci in mezzo ai detriti della storia.

Bisogna però capire che il cammino che oggi è possibile si distanzia dal passato, perché non c’è la chiarezza della meta, non c’è un percorso prestabilito, ma occorre procedere per tentativi, per esperimenti, ed essere pronti anche a scarti improvvisi, senza più avere la consolazione di una filosofia della storia. È come suonare una musica senza spartito, affidandosi all’improvvisazione. Sul piano filosofico, si può dire che è più attuale l’idea del Tao che non l’idea occidentale del progresso. Camminare così, senza una rete protettiva, è una fatica assai più ardua. Occorrono allora, come è detto in un vecchio saggio del Novecento, le virtù della pazienza e dell’ironia.



Numero progressivo: V66
Busta: 75
Estremi cronologici: 2011, maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Volume
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: Ediesse, Roma, 2011