RAPPRESENTANZA SOCIALE E POTERE POLITICO

di Riccardo Terzi

La politica è il campo dove i due opposti principi della rappresentanza e del potere si confrontano e si scontrano. In questo dualismo permanente sta una possibile chiave di lettura dei processi politici, e un tale approccio interpretativo mi sembra particolarmente pertinente nella fase attuale.

Il principio della rappresentanza pensa la politica in termini orizzontali e plurali: tutto ciò che nella società si manifesta deve poter essere riconosciuto e legittimato e il processo decisionale non può che essere il risultato di un movimento plurale, di un gioco complesso nel quale i diversi soggetti agiscono senza una gerarchia prestabilita. Il principio del potere, all’inverso, pensa la politica in termini verticali e monistici: il problema è l’individuazione del “decisore”, dell’autorità di governo, e il processo decisionale è il movimento di trasmissione gerarchica dall’alto verso il basso.

Questi due principi si combinano in una pluralità di forme, e sono entrambi essenziali per il funzionamento del sistema politico. Il sistema si inceppa quando uno dei due principi impedisce l’esercizio dell’altro. La dilatazione abnorme del principio di rappresentanza impedisce che si costituisca un centro decisionale stabile ed efficace, e determina quindi uno stato permanente di precarietà. E viceversa la dilatazione abnorme del principio del potere impedisce l’espressione democratica della società e del suo interno pluralismo, e si traduce quindi necessariamente in una forma di dispotismo. Costruire l’equilibrio è l’arte difficile della politica.

Ora, nell’attuale determinata situazione italiana, il problema è evidentemente quello di stabilizzare la funzione di governo. Ma nel processo riformatore, che prende avvio da questa esigenza c’è una spinta a far nuovamente deragliare il sistema politico, passando dall’uno all’altro dei due estremi, da un sistema che non funziona per una frantumazione dispersiva della rappresentanza e per un deficit di governabilità ad un sistema di segno opposto e altrettanto fallimentare per una rarefazione della funzione di rappresentanza, con l’effetto di produrre un potere irresponsabile.

Tutte le teorie politiche sul cosiddetto passaggio dalla prima alla seconda repubblica, sono, nella sostanza, teorie che liquidano il problema della rappresentanza, o più esattamente teorie che individuano nella rappresentanza l’ostacolo da rimuovere per attuare la riforma del sistema. La funzione di governo deve basarsi su una propria autonoma legittimazione, scavalcando le mediazioni partitiche e parlamentari, e ciò è possibile solo con procedure di tipo plebiscitario, sostituendo alla rappresentanza il rapporto diretto con la massa polverizzata dei cittadini. Il cittadino, preso nella sua singolarità impotente, prende il posto dei soggetti collettivi, delle rappresentanze politiche e sociali, nelle quali soltanto la volontà individuale acquista forza ed efficacia. La dialettica non è più tra rappresentanza e potere (e in questa dialettica è la verità della politica), ma tra cittadini e leadership, e in questo caso al cittadino-sovrano si sostituisce il cittadino-consumatore, a un corpo politico responsabile si sostituisce la massa di manovra, il materiale informe che viene manipolato dall’esterno. È questo il processo che normalmente accompagna e prepara le soluzioni autoritarie.

Oggi siamo inondati da questa “retorica del cittadino”, dietro la quale si maschera la “retorica del potere”, la rivincita del potere sulla rappresentanza. Ma può funzionare una società senza rappresentanza? La società è un organismo vitale, capace di coesione interna, solo in quanto funzionano le legature sociali, le quali dipendono dai processi di identificazione collettiva, dalla forza organizzatrice dei valori e delle appartenenze, il che rimanda ancora una volta al problema della rappresentanza. Senza rappresentanza la società si dissolve.

L’attuale crisi italiana, se ben guardiamo, è alimentata da processi sociali che non hanno ancora trovato i propri canali di rappresentazione e di organizzazione: nel Nord post-fordista, dove cresce una nuova configurazione sociale e un nuovo dinamismo economico fuori dalle appartenenze tradizionali, e anche nelle regioni più disgregate del Mezzogiorno, dove il cittadino è davvero solo con se stesso e finisce per trovare una rete protettiva solo nelle organizzazioni criminali.

È questo processo la base su cui si costruisce la proposta di secessione. Se non c’è coesione sociale, se non ci sono soggetti collettivi capaci di mediazione politica, se c’è solo la materialità degli interessi individuali, non c’è allora più nessun principio aggregativo che possa tenere unito il paese. La Lega nord lavora in questo vuoto di rappresentanza, e dà identità politica a questa nuova galassia di individui spaesati e isolati, presi dal meccanismo competitivo e privi di voce politica, perché sono fuori da tutti i canali dove si organizza il processo politico e decisionale.

La rappresentanza è il tessuto connettivo della società, in assenza del quale la società si disgrega. E allora è inevitabile che il potere assuma forme autoritarie, perché nel momento in cui vengono meno le risorse del consenso restano solo le risorse della coazione e del comando.

Dobbiamo naturalmente distinguere le diverse funzioni e caratteristiche della rappresentanza politica e della rappresentanza sociale. Ma io credo che esse siano strettamente connesse ed intrecciate e che abbiano in comune lo stesso destino. Dove c’è l’una c’è anche l’altra, non per un rapporto di collateralismo, ma perché entrambe richiedono una società organizzata, strutturata, che supera la frantumazione individualistica degli interessi. Tutta la storia italiana ci dimostra questo rapporto, in quanto la forza dei grandi partiti politici ha sempre coinciso con la loro capacità di rapportarsi ad un tessuto sociale organizzato. Senza retroterra sociale, i partiti non sono nulla.

È quindi del tutto velleitario il progetto di un primato della politica che si affermi nel vuoto della rappresentanza. Il partito del premier, il partito del leader, il partito della comunicazione televisiva: sono forme apparentemente moderne ed efficaci, ma sono in realtà creature effimere, senza radici nella realtà. Vanno e vengono, come vanno e vengono le fortune personali del singolo leader politico. Craxi docet.

La politica non è autosufficiente, ma è la proiezione ad un livello più generale ed astratto dei processi sociali. In una società disarticolata, senza rappresentanza, senza soggetti collettivi, la politica diviene solo il campo di competizione degli avventurieri del potere.

Va quindi ricostruito il rapporto tra rappresentanza e potere. Nel momento in cui questo rapporto si è spezzato, e non è più visibile nella coscienza collettiva, si determina un effetto di “estraniazione” alla vita politica, e quindi un indebolimento inquietante delle risorse democratiche della società. Pensiamo, ad esempio, all’estraniazione del mondo operaio, di un soggetto sociale che ha avuto nel passato una coscienza forte del proprio ruolo politico e che ora appare allo sbando, senza identità e senza valori di riferimento, pronto quindi ad, accogliere passivamente le più diverse suggestioni demagogiche. È un caso che al Nord il voto operaio si sia indirizzato soprattutto verso la Lega? Ancora più vistosa è la mancanza di rappresentanza del mondo femminile, che continua ad essere tenuto ai margini della vita politica, in una condizione di passività. E gli esempi di questo processo di estraniazione potrebbero moltiplicarsi. Il risultato è la specializzazione della politica come sfera separata la quale coinvolge solo una cerchia ristretta di addetti ai lavori, di clienti e di professionisti del lobbismo.

Ora, in una situazione che già registra questi fenomeni negativi, una scelta istituzionale che punta esclusivamente sulla governabilità come obiettivo fine a se stesso, lacerando ulteriormente il già debole tessuto della rappresentanza, significherebbe dare il colpo di grazia al nostro sistema politico e generalizzare i processi di estraniazione e di passivizzazione, rendendoli ormai irreversibili. Per questa via la crisi italiana non viene risolta, ma si corrompe ulteriormente, sfociando in un sistema politico senza consenso e senza vitalità democratica.

Se il potere senza rappresentanza è destinato a degenerare, altrettanto è destinata a degenerare la rappresentanza senza potere, perché solo nell’accesso al potere c’è l’esercizio della responsabilità, il quale consiste nella capacità di trascendere gli interessi immediati e di rapportarli ad obiettivi di carattere generale. In assenza di responsabilità, in assenza cioè di una precisa dimensione politica che costringa a selezionare le scelte e gli obiettivi, finiscono per prevalere gli avventurieri della rappresentanza: piccoli interessi corporativi che vengono estremizzati, uso spregiudicato di tutti i possibili poteri di ricatto, proliferazione di rappresentanti presunti, che in modo parassitario si appropriano di un segmento sociale, di una scheggia di società, costruendo su questa base una propria nicchia di sopravvivenza e di privilegio.

La rappresentanza è continuamente esposta al rischio dell’irresponsabilità, e anche le grandi confederazioni sindacali non sono immunizzate da questo pericolo, e possono divenire il tramite dell’autodifesa corporativa degli interessi costituiti, rifiutando il confronto con le necessità generali del Paese. L’irresponsabilità può essere vinta solo costruendo un circuito virtuoso di accesso al potere e di partecipazione alle decisioni politiche, attivando cioè un processo di responsabilizzazione.

È la via della concertazione. La concertazione si basa sul principio che la rappresentanza politica e la rappresentanza sociale debbano trovare la via di un dialogo, di un confronto, di un’intesa, ed è questa la condizione necessaria per evitare processi degenerativi nell’uno come nell’ altro campo, per togliere spazio sia agli avventurieri del potere sia agli avventurieri della rappresentanza.

Sulla concertazione si è riaperta recentemente una polemica tra la CGIL e la CISL, a proposito dell’opportunità o meno di “costituzionalizzare” il principio e le procedure della concertazione. È una polemica probabilmente strumentale, e sicuramente dannosa. Sarebbe un grave arretramento per tutti se tornassimo a vecchie dispute di tipo ideologico.

La verità è che per le grandi confederazioni sindacali l’apertura di uno spazio di concertazione con il governo è un bisogno vitale, e tutti i comportamenti pratici degli ultimi anni sono stati rivolti, da parte di tutti, senza distinzioni, al consolidamento di questo spazio. Politica dei redditi, modello contrattuale, politiche del lavoro, stato sociale: ciascuno di questi capitoli implica il rapporto con la politica e quindi necessariamente modalità di coinvolgimento del sindacato nel processo decisionale.

Sul piano costituzionale, è bene avere, per questo come per altri problemi, un indirizzo generale che consenta la più ampia flessibilità di applicazione, lasciando quindi all’autonomia delle parti la definizione delle forme e degli strumenti. La nostra Costituzione è già una Costituzione aperta al riconoscimento del ruolo delle organizzazioni sociali, ed è proprio su questo terreno che essa possiede una importante forza innovativa, in quanto supera i limiti di una concezione di tipo “liberale”, considerando non solo i diritti astratti del cittadino, ma inquadrando i diritti individuali nel contesto sociale concreto. Si può quindi dire che la concertazione è già implicitamente inscritta nel nostro ordinamento, e che si tratta ora di realizzarla in modo più coerente e sistematico. La vocazione “sociale” della Costituzione, i vincoli posti all’attività produttiva in modo che essa risponda agli interessi collettivi, il diritto dei lavoratori a partecipare alla vita economica, nell’impresa e nella società, è tutto ciò che si tratta ora di concretizzare attraverso una strumentazione adeguata. Teniamo conto, d’altra parte, che è proprio questo indirizzo generale della nostra Costituzione ad essere oggi messo in discussione, da varie parti, per affermare il principio di una regolazione economica che risponde esclusivamente alla logica del mercato.

Se la rappresentanza accede al potere, come a me sembra necessario, essa si espone anche a tutti i rischi di degenerazione del potere, e va pertanto costruito un sistema di garanzie. Porre limiti al potere: è questo il problema fondamentale intorno al quale ruota tutta la storia del pensiero politico e costituzionale. I limiti sono di due specie: limiti esterni ed interni. I limiti esterni circoscrivono il campo di esercizio del potere, oltre il quale esistono territori inviolabili di autonomia, individuale e sociale. I limiti interni riguardano il carattere democratico e non arbitrario delle procedure decisionali.

Anche la rappresentanza sociale, nel momento in cui partecipa alla decisione politica, deve fissare i suoi limiti esterni ed interni. Deve circoscrivere le materie per le quali è abilitata ad intervenire, senza sconfinamenti arbitrari e non compatibili con la parzialità degli interessi sociali di cui è portatrice. E deve rendere del tutto trasparente il processo di legittimazione democratica sul quale si fonda l’effettiva rappresentatività.

Solo a queste condizioni la concertazione può funzionare in modo efficace e positivo, e queste condizioni sono oggi ancora eccessivamente aleatorie, e in questo varco si inserisce la campagna antisindacale, nella quale si mescolano strumentalità preconcetta e segnalazione di problemi e di limiti reali.

Concertazione e democrazia sindacale sono due aspetti inscindibili, ed è su questo binomio che il sindacato può costruire il proprio ruolo strategico nel nuovo quadro istituzionale che si viene organizzando.

Si tratta comunque di una operazione non agevole, perché le forze politiche si stanno muovendo su una diversa lunghezza d’onda, e l’idea dominante sembra essere quella del ripristino del “primato della politica”. Si configura un modello gerarchico, nel quale c’è un prius, la politica appunto, presa nella sua astrattezza, e poi c’è un’articolazione subordinata di funzioni e di soggetti, i quali costituiscono i rami inferiori dell’ordinamento.

Da questa teoria del primato della politica discendono alcune precise conseguenze: una limitazione dell’autonomia della magistratura, da realizzarsi ad esempio con una composizione del Csm che rafforzi in modo determinante le nomine di parte politica; una marginalizzazione del ruolo delle forze sociali, fino all’ipotesi di soppressione del CNEL come organo costituzionale; un sostanziale rifiuto dell’organizzazione federalista dello Stato, dell’accesso delle autonomie territoriali al potere decisionale, centrale con l’instaurazione della Camera delle regioni, proprio perché la politica e il suo primato si identificano con i meccanismi tradizionali dello Stato centralizzato.

Allo stato attuale del dibattito politico, la Commissione bicamerale sembra avviata a trovare il suo punto di convergenza e di compromesso su questo terreno, su una linea di restaurazione più che su una linea di innovazione. È mancata infatti una chiara discussione preliminare circa i fini del processo riformatore, e in questa indeterminatezza e genericità del dibattito politico gli unici punti di riferimento forti finiscono per essere quelli che affermano in modo unilaterale la logica del potere contro la logica della rappresentanza. La sinistra non esprime un punto di vista diverso, ma solo un punto di vista più prudente, se non più incerto e contraddittorio.

Di fronte al tema, oggi cruciale, del rapporto tra rappresentanza e potere, gran parte della sinistra sembra essere attratta verso una linea di decisionismo e di neocentralismo, nella quale si rinnova il mito della regolazione politica della società, dimenticando che è esattamente in questo mito la ragione del fallimento disastroso delle esperienze socialiste nel mondo.

Appaiono, per converso, più attuali e più moderne alcune intuizioni tradizionali del cattolicesimo democratico, che ha da tempo elaborato una teoria delle autonomie, dei corpi intermedi, del pluralismo sociale e istituzionale, dell’integrazione di pubblico e privato, e questo bagaglio di pensiero acquista oggi una nuova attualità. Mi sembra che sia oggi questo il terreno per una ricerca innovativa che si proponga di saldare rappresentanza e potere. C’è bisogno quindi di ripensare e di ridefinire le categorie politiche della sinistra, che appaiono oggi prive di forza selettiva e che possono finire nel grande pantano di uno statalismo restaurato.

Occorre riformare lo Stato, questa è ormai una convinzione universale. Ma in quale direzione? Per molti la domanda non si pone neppure, perché la strada è tracciata, perché è lo spirito del tempo che ci guida necessariamente in una determinata direzione. Il fine è dato, c’è solo il gioco delle convenienze tattiche. Io credo, all’opposto, che il punto più controverso e impegnativo è proprio quello che riguarda i fini dell’azione di riforma.



Numero progressivo: H67
Busta: 8
Estremi cronologici: 1997, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Finesecolo”, aprile 1997, pp.117-124. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 159-168