MILANO E LA POLITICA

di Riccardo Terzi

Milano e la politica: vorrei tentare di ragionare su questa relazione, ma mi accorgo che è una relazione sfuggente, ambigua, controversa. Milano non si lascia raccontare politicamente, perché il suo centro sta altrove, e la politica vi svolge un ruolo solo secondario, marginale. La sua è una vocazione essenzialmente impolitica, fondata sul primato della società civile, sulla rete degli interessi e delle competenze, e su una visione pragmatica che rifugge dalla compattezza delle ideologie.

Tutto ciò ha una spiegazione nella stessa morfologia sociale della città, nella sua struttura policentrica e differenziata, in cui agisce una pluralità complessa di soggetti sociali e di centri di potere, senza che emerga una forza dominante. A differenza di Torino, strutturata intorno alla grande industria fordista, dove è chiara la linea divisoria tra capitale e lavoro, qui c’è il proliferare delle funzioni intermedie, c’è un agglomerato composito e variegato di figure sociali non riconducibili al classico antagonismo di classe. E anche sul terreno politico, come riflesso di questa struttura sociale, non si produce mai una situazione egemonica, ma c’è un equilibrio sempre aperto, nel quale è stato a lungo preminente il ruolo di cerniera delle forze intermedie, laico-socialiste, che hanno saputo meglio adattarsi, col loro eclettismo culturale, allo spirito pragmatico della città. Non è certo un caso che non ci siano mai stati né sindaci democristiani né sindaci comunisti, il che rappresenta una assoluta anomalia nel panorama nazionale. E questa anomalia dimostra come Milano abbia cercato una sua via autonoma, cercando sempre di non lasciarsi invischiare nei conflitti politici nazionali.

Milano diffida della politica, e se ne difende. C’è una politica locale, che ha solo il compito di tenere le relazioni funzionali con il governo centrale e di regolare il traffico della società civile, con un’azione amministrativa equilibrata ed efficiente. La politica si ferma a questo livello. Ci sono i sindaci, alcuni di grande popolarità e prestigio, ma la loro dimensione è solo amministrativa, locale, senza una proiezione politica nazionale. C’è come una sorta di preventiva spartizione dei ruoli: Milano punta su se stessa, sulla sua forza economica, sulla robustezza della sua società civile, e alla politica chiede solo di non interferire, mentre accade l’inverso nelle realtà dove la struttura sociale è più debole, le quali, proprio per questa loro debolezza, investono tutto sulla politica. Si determina così una meridionalizzazione della politica, e in questo c’è l’origine di un conflitto che successivamente finirà per esplodere, per i costi pagati dall’intero sistema in termini di efficienza e di competitività.

Si parla spesso della funzione anticipatrice di Milano, del suo essere il punto più avanzato che prepara il cammino per l’intera società nazionale. Ciò è sicuramente vero dal punto di vista sociale. Milano è già, in grande anticipo, una società post-fordista: sviluppo del terziario, della finanza, delle comunicazioni, integrazione internazionale, struttura a rete, e grande flessibilità nelle relazioni sociali. Ma a questo non corrisponde un ruolo di guida nazionale sul terreno più strettamente politico. Solo con Craxi c’è il tentativo di fare di Milano la capitale politica, mettendo in opera una linea spregiudicata e aggressiva per scalzare il ruolo tradizionale dei grandi partiti di massa, e per affermare un nuovo modello di leadership, fatto di decisionismo e di personalizzazione. Ma questa operazione ha un successo solo temporaneo, di breve durata, e infine va incontro ad un clamoroso fallimento. Il fatto sorprendente è che il craxismo riesce ad espandersi al sud, dove compete con le vecchie clientele democristiane, ma ha proprio a Milano il suo punto debole, ed è qui che si mette in moto il processo che lo porta alla definitiva sconfitta.

La magistratura ha un ruolo determinante, ma può svolgere questo ruolo perché può contare su un ampio consenso dell’opinione pubblica. Non ha quindi nessun fondamento la tesi del complotto delle “toghe rosse”, perché non di un complotto si tratta, ma di un sommovimento civile, il quale ha di mira non questo o quel partito, ma l’intero sistema. È una crisi che investe direttamente tutta la struttura istituzionale, in quanto viene revocato il rapporto di fiducia su cui si regge la legittimità rappresentativa delle istituzioni. E accade sempre, in tali situazioni di crisi, che prevalga l’aspetto emotivo, con le sue pulsioni semplificate e distruttive. L’esito, come si sa, è devastante per l’intero sistema politico, e un’intera classe dirigente viene rapidamente delegittimata, liquidata, sacrificata come un capro espiatorio. Milano è l’epicentro di questo cataclisma politico. Si può forse interpretare tutto ciò come una rivincita della società civile sulla politica e sulle sue ambizioni egemoniche.

Ma cerchiamo di vedere meglio le tappe di questo processo. Nel 1975 si forma a Milano una giunta di sinistra, presieduta dal sindaco Aniasi, con la partecipazione diretta dei comunisti non accadeva dall’immediato dopoguerra. È una svolta importante nella storia della città, ed essa è accompagnata da tutta una serie di polemiche, di vario segno. Sono in molti a considerarla come una inopportuna forzatura, uno strappo avventuroso e velleitario, privo di una base sufficiente di consenso, in una città di tradizioni moderate, e in presenza di una forte corrente popolare nella DC e nella Chiesa ambrosiana, con cui si trattava di trovare un realistico punto di equilibrio. Non dimentichiamoci del contesto politico di quegli anni, in cui comincia a prendere forma la strategia del “compromesso storico”, la quale condizionerà tutto il corso successivo della politica nazionale; Accade così un fatto del tutto singolare, che la formazione di una giunta di sinistra, nel centro nevralgico della città di Milano, viene apertamente osteggiata dai gruppi dirigenti nazionali sia del PCI che del PSI, che cercavano in ogni modo, attraverso i responsabili degli Enti locali Cossutta e Labriola, di tenere la situazione di Milano nel quadro della “solidarietà nazionale”, il che voleva dire, nel concreto, che il PCI avrebbe dovuto, tutt’al più, accontentarsi di un appoggio esterno. E accade un altro fatto singolare, che i dirigenti locali non obbediscono, singolare soprattutto per il PCI, da sempre strutturato secondo una rigida disciplina centralizzata.

Io ero allora il Segretario della federazione milanese, e continuo a pensare, nonostante tutto, che quella scelta fosse giusta, perché poteva aprire una nuova stagione politica e un nuovo rapporto con la società milanese. Nel PSI è stata decisiva la forte determinazione del gruppo autonomista di Martelli e Tognoli, il quale puntava, evidentemente, a rafforzare la funzione egemone dei socialisti, scalzando la DC dalle sue tradizionali posizioni di potere. L’intesa si costruisce quindi su due premesse: l’autonomia di Milano, il rifiuto di adattarsi al gioco politico nazionale, e in secondo luogo l’idea che la società civile milanese sia ormai matura per un processo di compiuta laicizzazione, che qui sia possibile dar vita ad un nuovo laboratorio, per una politica che si apre alle nuove domande di libertà, di modernizzazione, di efficienza, andando oltre le tradizionali appartenenze ideologiche. Questo è il terreno che cementa la nuova alleanza tra socialisti e comunisti, e che nello stesso tempo apre tra di loro una competizione per l’egemonia, per la conquista di un ruolo centrale nel tessuto della società milanese.

Era dunque una scommessa su un possibile processo di innovazione della politica, puntando tutte le carte sulle risorse di una società civile che si stava profondamente trasformando, negli stili di vita, nei riferimenti culturali, nell’affermazione della propria autonomia e nella difesa delle libertà individuali. Si trattava di una operazione complessa, difficile, ma non velleitaria, non priva di un fondamento nella realtà. Ma sono mancate, nei protagonisti che avrebbero dovuto realizzare questo disegno politico, la lucidità e la perseveranza necessarie per portare a termine il processo, e la scommessa è andata perduta. Le ragioni sono molteplici, e proverò ora ad analizzarle.

Anzitutto, Milano si è lasciata schiacciare nella morsa della politica nazionale, e la sua vocazione di autonomia non ha retto l’urto di una politica che stava andando in tutt’altra direzione. Questo riflusso avviene, con modalità diverse, in tutti i principali partiti politici. Nel PSI il quadro cambia radicalmente nel momento in cui Craxi assume la guida del partito, e soprattutto quando ne diviene il leader assoluto e indiscusso. A quel punto, Milano non è più per i socialisti un laboratorio autonomo, ma è solo una pedina del gioco politico nazionale. È tutta la tradizione dell’autonomia municipale che viene rovesciata, e ciò fa vacillare uno dei fondamenti dell’alleanza. Si accentuano inoltre tra i socialisti, convinti di essere avviati ad un ribaltamento dei rapporti di forza nella sinistra, posizioni di arroganza, di intolleranza, e anche di spregiudicatezza nella gestione del potere. Tutto ciò determina un preciso contraccolpo all’interno del PCI, dove già erano molto diffuse le posizioni di critica e di diffidenza verso la nuova esperienza di governo. D’altra parte, anche nel PCI ci si avvia verso una direzione personalizzata, carismatica ed accentratrice, e gli spazi per il pluralismo interno si fanno sempre più stretti. La partita politica di Milano aveva, agli inizi, una potenzialità strategica, in quanto poteva tenere aperta una linea di sviluppo diversa da quella del compromesso storico. Ma questa è rimasta una potenzialità inespressa, e alla fine tutto è stato ricomposto, e la giunta di sinistra è sopravvissuta solo come una anomalia tollerata, circondata da un clima di sospetto.

Si arriva più volte sull’orlo della crisi, non per l’esplodere di diverse posizioni programmatiche sul destino della città, ma per un effetto di rimbalzo che si scarica su Milano dai sempre più tesi e conflittuali rapporti politici nazionali. Il mio ultimo intervento in Consiglio comunale, lo ricordo assai bene, si tenne nel momento della rottura sul decreto per la scala mobile, e servì, momentaneamente, a scongiurare una crisi, tenendo distinto il quadro milanese da quello nazionale. Ma era solo l’epilogo di una storia che si andava concludendo. L’esperienza milanese aveva bisogno, per potersi sviluppare, di un suo autonomo spazio vitale, ma è proprio questo spazio che è stato rapidamente prosciugato, sacrificato alle strategie nazionali.

Nella DC, d’altra parte, non si apre nessuno spiraglio, ma al contrario c’è un’affermazione vistosa delle correnti più conservatrici, con l’exploit personale di De Carolis, con le iniziative della “maggioranza silenziosa”, con il ritorno ad un clima di scontro frontale. Non c’è quindi nessun margine per una politica di solidarietà nazionale, non c’è dunque nessuna strategia alternativa praticabile. Per il PCI, si tratta solo di decidere se continuare a scommettere sull’esperienza di sinistra, cercando di rivitalizzala, o se dichiarare la resa. Alla fine, dopo un lungo travaglio, sembra a tutti imporsi come inevitabile il riallineamento di Milano al quadro politico nazionale, e questa conclusione è avvertita dal PCI più come una liberazione che come una sconfitta, come la riconquista di una autonomia di movimento e come il recupero di una identità troppo a lungo offuscata.

Il PCI milanese era, in quegli anni, uno strano impasto di moderatismo e di ideologismo, spesso tra loro intrecciati e convergenti. Entrambi questi elementi concorrevano a determinare un approccio del tutto strumentale alla nuova esperienza di governo, vista da un lato solo come un’occasione di legittimazione del partito, e dall’altro come una parentesi, come un passaggio tattico provvisorio, in attesa di un definitivo rovesciamento dei rapporti di potere. È mancato quello slancio riformatore che era necessario per dare un senso e una prospettiva alla nuova esperienza. La destra e la sinistra del partito, per quanto può valere questa sommaria semplificazione, erano infine concordi su un punto: che l’esperienza amministrativa non poteva essere il centro di una scommessa strategica, che restava quindi in qualche modo periferica, secondaria, un momento della tattica, e non l’occasione per mettere alla prova, fino in fondo, la propria identità.

Valutando oggi, a distanza, tutta questa vicenda politica, ne traggo la conclusione che il PCI era già, nonostante la sua forza apparente, in una condizione di crisi, perché immobilizzato dalla sua interna forza di inerzia, e incapace di una iniziativa di movimento. Non è il crollo del muro di Berlino che ci mette fuori gioco, né la tempesta di Tangentopoli: la crisi era già virtualmente aperta, solo in apparenza compensata dal prestigio personale di Berlinguer. Si può azzardare l’ipotesi che è proprio quel carisma, quella personalizzazione, l’effetto indiretto di una involuzione: spicca la figura del leader, perché dietro quella figura non c’è più un corpo vitale. In questo, il destino di Berlinguer e quello di Craxi non sono tra loro così dissonanti, come comunemente si crede. Rappresentano entrambi il momento conclusivo e declinante di una storia politica. E rappresentano anche, su opposte sponde, l’illusione di un comando della politica sulla società, nel momento in cui tutta l’evoluzione sociale spinge nella direzione opposta, verso una autonomia del sociale, producendo anche tutto un massiccio spostamento dalla dimensione collettiva a quella individuale.

A questo proposito, torna il discorso su Milano, perché è proprio qui, nel punto più alto dello sviluppo, che si manifesta con più forza questo mutamento dello spirito pubblico, questo emergere di un nuova soggettività. L’operazione da tentare era quella di mettersi in comunicazione con le nuove forme della soggettività, e di elaborare un nuovo tipo di politica, meno invasivo e meno decisionista, capace di suscitare una mobilitazione delle energie della società civile. Ma è proprio questa saldatura del sociale e del politico che viene fallita, o per meglio dire non viene neppure seriamente esplorata. La politica si avvita su se stessa, e si costituisce come una sfera del tutto separata, con le sue regole, con le sue rigide gerarchie, e anche con un suo sistema ormai collaudato di illegalità. È contro questa separatezza irresponsabile che si indirizza tutto un movimento di opinione pubblica, del tutto informe e indeterminato nei suoi possibili sbocchi politici, ma estremamente radicale nella denuncia di un sistema politico non più legittimato dal consenso popolare.

Perché c’è questa esplosione, e perché è proprio Milano a pilotare questo sommovimento? La spiegazione sta in parte nelle cose fin qui dette: nella vocazione impolitica di Milano, da un lato, e inoltre nei limiti che hanno condizionato tutta l’esperienza dei governi locali. Ma c’è qualcosa di più profondo, c’è una rottura che scardina le basi della convivenza civile e che mette a rischio la tenuta unitaria della comunità. Il fatto è che non si sono visti per tempo gli effetti del movimento di secolarizzazione che ha investito l’intera società e che ha dato luogo ad una nuova forma antropologica, ad una nuova percezione di sé, ad una nuova relazione del soggetto con i valori e con le regole della vita collettiva. La sinistra ha visto solo i lati progressivi di questo movimento, non i suoi contraccolpi, non i suoi possibili esiti distruttivi. Forse è solo Pasolini, in quegli anni, a vedere, con uno sguardo profetico, il sottofondo minaccioso in cui rischiano di impantanarsi le battaglie per le libertà civili, che hanno in sé un doppio significato, come rifiuto del dominio autoritario, ma anche come possibile rifiuto di ogni regola e di ogni forma di eticità.

Il paradosso degli anni ‘80 è che la politica incoraggia la secolarizzazione e apre alla società civile nuovi spazi di libertà, e che alla fine tutto questo processo gli si ritorce contro e la travolge. Ed è in particolare il PSI al centro di questo paradosso, perché ha cercato di dare rappresentanza politica al nuovo individualismo e più di altri ha pagato il prezzo della rivolta della società civile. In realtà, più che di un paradosso si tratta di una contraddizione, di una incoerenza, perché alle inquietudini di una società che cerca un nuovo ancoraggio, in se stessa, nella sua autonomia, non si è offerto nessun percorso reale di crescita, di partecipazione, di maturazione democratica, per cui era inevitabile, alla fine, l’esplosione di un conflitto. Il PSI di quegli anni, nel momento in cui conquista una posizione centrale nel sistema politico, è liberale e libertario solo nel suo messaggio, nella sua ideologia, ma nella realtà realizza un sovrappiù di centralizzazione politica e di gestione autoritaria del potere. Ma nessuno sa mettere in campo un modello davvero alternativo. È la politica nel suo complesso che utilizza solo le risorse della retorica, senza però cambiare in nulla meccanismi sostanziali del proprio funzionamento. Ed è in questo scarto tra ciò che si dice e ciò che si fa, tra la rappresentazione e la pratica reale, che irrompe la forza negativa di una critica a tutto campo al sistema politico, preso nel suo complesso, senza distinzioni, e senza riuscire ad opporre la forza di un progetto democratico alternativo.

Il risultato è solo la corporativizzazione del corpo sociale, la sua segmentazione, il venir meno di qualsiasi principio di regolazione, il venir meno non solo dei partiti, in gran parte responsabili della loro crisi, ma della dimensione politica in quanto tale, aprendo così tutta una serie di falle nel tessuto della convivenza civile.

Milano è il luogo esemplare di questo mutamento e di questa crisi. E tutti questi processi hanno la loro accelerazione negli anni ‘80, senza attendere la grande cesura storica dell’89. Sono anni di intensa trasformazione sociale, che vanno valutati nella loro complessa e contraddittoria dinamica. Non è possibile una lettura unilaterale. A me pare che il senso complessivo è in questa incapacità di costruire una relazione virtuosa tra la società e la politica, in questa crescente divaricazione delle due sfere. C’è quindi un fallimento su entrambi i lati, sul lato della politica, che non riesce a produrre una vera innovazione, e sul lato della società, che si rinchiude in una posizione puramente negativa, senza produrre una nuova progettualità. Ma questo giudizio, così fortemente critico, non vuole essere un giudizio liquidatorio, ma vuole solo segnalare i limiti e le contraddizioni di una modernizzazione incompiuta, che non ha saputo trovare le forme e gli strumenti di una sua regolazione democratica. Anche l’esperienza del governo cittadino della sinistra va valutata con questo metro, come un’operazione che è rimasta a metà strada, ma che ha comunque rappresentato un momento dinamico nella storia politica di Milano. Il mio giudizio è largamente critico e autocritico, ma non condivido affatto una posizione di semplice liquidazione. C’è stata in quegli anni una crescita, democratica e civile, c’è stata un’azione amministrativa efficace, ma è mancato un progetto che sapesse incanalare le energie della società civile verso un traguardo condiviso, verso una nuova identità collettiva.

Il problema resta aperto. Milano non ha avuto, negli anni successivi, una risposta ai suoi problemi, non ha ritrovato un’identità. Continua ad essere una realtà incerta, problematica, incapace di riconoscersi in un comune tessuto connettivo, in un progetto, in una rappresentazione del suo futuro. La forbice tra politica e società non è stata superata, se non in apparenza. Berlusconi non è il portatore di una nuova sintesi politica, ma è solo l’espressione di un processo di spoliticizzazione e di una crescente frammentazione sociale. C’è un vuoto, e ci si illude che esso possa essere riempito da una figura carismatica, ma dietro questa figura c’è solo il deserto, popolato da individualismi e da strategie di corto respiro, da calcoli di convenienza e da un meccanismo di competizione in cui tutti sono contro tutti, riproducendo così il «bellum omnium contra omnes» di cui ci ha parlato Hobbes, senza che vi sia un’autorità politica capace di tenere sotto controllo questa logica distruttiva. Berlusconi rappresenta, in questo senso, il definitivo decadimento del ruolo di Milano, la sua incapacità di essere un punto di riferimento e di guida per la comunità nazionale. La forza di Berlusconi è solo il riflesso della debolezza di Milano. Sono le società deboli, malate, non strutturate, che si affidano al deus ex machina, e che si lasciano penetrare dalle ideologie populiste. Per questo, non penso che siamo alla conclusione di un ciclo, ad una stabilizzazione, ad un equilibrio conservatore ormai consolidato, ma che tutto è ancora aperto, e che il conflitto tra politica e società può nuovamente esplodere, in forme nuove e imprevedibili.

Il problema è ancora quello che abbiamo cercato di affrontare, con scarsi risultati, negli anni Ottanta; il rapporto con la società, la mobilitazione democratica delle risorse sociali, la riforma della politica in un nuovo quadro di responsabilizzazione e di coesione sociale. Il problema di Milano è la mancanza di un centro ordinatore. Ci sono dei sottosistemi, ma non un sistema unitario e coordinato. La Chiesa ambrosiana è uno di questi sottosistemi, e dà luogo ad una rete di solidarietà e di accoglienza, importante ma parziale, un punto di riferimento etico che non riesce a superare la sua parzialità. La stessa parzialità caratterizza le istituzioni del movimento operaio, a partire dal sindacalismo confederale, che è una presenza attiva nella città, ma non può essere, in un tessuto sociale così composito, il centro regolatore dell’intero sistema. Più in generale, osserviamo in tutti i diversi campi un processo di specializzazione e di separazione, nella cultura, nell’attività produttiva, nella rete associativa, per cui convivono tante parzialità che non entrano tra loro in relazione. Questa pluralità delle forme non è per se stessa una ragione di debolezza, può essere al contrario una risorsa, ma alla condizione che si risolva il problema della regolazione dei sistemi sociali complessi. Regolazione vuoi dire politica. L’antipolitica è quindi la palla al piede di cui Milano deve riuscire a liberarsi. Ma la politica può assumere diverse forme. Può essere il decisionismo, il comando, la verticalizzazione del potere, ma può essere anche un nuovo sistema di governo, che tiene uniti i diversi soggetti in un lavoro comune di progettazione sociale, facendoli uscire dalla loro parzialità. Mettere in relazione ciò che oggi è separato, diviso, questo è il compito della politica. La politica è la capacità di “fare sistema”, di intrecciare le competenze, gli interessi, le particolarità, mettendole tutte all’opera nella costruzione di un disegno comune.

Si può ripartire su nuove basi, solo se si restituisce senso ad un progetto di democratizzazione del sistema politico. E Milano resta comunque il luogo in cui tutte le ipotesi politiche e strategiche devono essere verificate, perché è qui che tutti i nodi si sono aggrovigliati, ed è qui che dobbiamo cercare di scioglierli. La riflessione sugli anni ‘80, sui limiti e sui fallimenti di quella stagione politica, ci può aiutare, per impostare tutto il problema in termini davvero innovativi, per riaprire gli spazi della politica, e per scongelare le risorse sociali, il loro dinamismo, e anche il loro conflitto, in un nuovo sforzo progettuale.



Numero progressivo: H25
Busta: 8
Estremi cronologici: 2010
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza dell’articolo
Pubblicazione: “Le ragioni del Socialismo”, 2010. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 281-293