UNA SCELTA DI CLASSE

di Riccardo Terzi

Non esiste sinistra politica senza sinistra sociale: questa è la radice della crisi comunista. Il futuro del PCI sta nel ripudio della visione arcaica del conflitto sociale che ha portato alle sconfitte degli anni Settanta e Ottanta, per costruire invece un moderno partito del lavoro.

 

1) Partito e sinistra sono due concetti storicamente e teoreticamente connessi. Se manca un’idea adeguata di partito, manca lo strumento per una politica di trasformazione sociale. Nella storia multiforme della sinistra c’è tutta una vasta gamma di modelli possibili, ma sempre, nelle diverse situazioni, la discussione sul partito ha avuto un rilievo strategico, si è intrecciata organicamente con la messa a punto di una strategia politica.

Per questo la crisi dei partiti ha un segno conservatore. Quando il conflitto sociale non trova i canali politici per esprimersi e per trascendere l’immediata dimensione corporativa, allora significa che le leve del potere e l’egemonia culturale sono saldamente nelle mani della classe dominante. Oggi ci trovino vicini a questo tipo di situazione. È bene analizzare freddamente, senza false retoriche consolatorie, lo stato di cose attuale, e vedere nella sua oggettività il rischio di una disfatta politica della sinistra.

I partiti della sinistra sembrano vedere solo la loro situazione contingente e gli sviluppi possibili della loro competizione all’interno del sistema politico. Ma intanto si stanno producendo cambiamenti sociali profondi che tendono a sradicare la sinistra dalle sue tradizioni, dalle sue acquisizioni teoriche più consolidate, dalla sua base sociale. Se questo processo profondo di delegittimazione delle ragioni della sinistra non viene bloccato, se manca un’iniziativa strategica capace di rovesciare la tendenza, finisce per essere tutto sommato irrilevante l’esito elettorale dei singoli partiti, in quanto inscritto comunque in un processo di normalizzazione moderata.

La crisi dell’idea di partito è un segno visibile della crisi della sinistra. È ormai convinzione comune che il ruolo dei partiti debba essere drasticamente ridimensionato. Anche a sinistra non si fa nulla per contrastare e modificare questa tendenza. Non si fa nulla per ricostruire un’idea nuova di partito. In queste condizioni, i partiti politici non possono che essere interpreti, più o meno intelligenti, delle tendenze che si affermano spontaneamente nella società. Non guidano i processi, non governano. La competizione politica si gioca sull’immagine, sugli umori del momento, sulla capacità di essere in sintonia con ciò che emerge come vincente nella competizione sociale.

In questa situazione di latitanza della politica, i centri di decisione si spostano, le sedi del potere stanno sempre più al di fuori dell’ordinamento democratico dello Stato. Mentre si disputa sul decisionismo, in realtà non c’è nessun decisionismo se non in quanto espressione retorica di una velleità. In questo senso è davvero aperta una questione democratica, perché il sistema politico nel suo complesso appare svuotato, e ha perso ormai il controllo dei processi reali.

 

2) La funzione storica del partito politico in quanto soggetto di trasformazione è una funzione democratica. Esso infatti organizza, dà voce politica e forza di rappresentanza ai gruppi sociali subalterni, i quali per questa via si costituiscono come classe. Un partito può legittimamente dirsi di sinistra solo in quanto svolge questa funzione di promozione e di mobilitazione sociale. Il pericolo incombente – e tutta la storia del movimento operaio mostra come esso sia drammaticamente reale -è quello dell’involuzione burocratica, in virtù della quale la macchina organizzativa agisce solo per la propria sopravvivenza, e il partito quindi si costituisce come fine in sé, come depositario di valori assoluti. È quindi essenziale indagare il rapporto del partito con le forze sociali che intende rappresentare, la natura e le modalità di questo rapporto. La trasfigurazione burocratica del partito e della sua funzione avviene immancabilmente là dove questo rapporto si inceppa, dove si interrompe il ricambio organico tra la struttura politica e il suo retroterra sociale, e il partito viene meno alla sua funzione di rappresentanza.

Vorrei tentare di capire se la crisi attuale della sinistra non abbia qui le sue radici, se abbia ancora un senso leggere la vicenda politica con un’analisi di classe. Mi riferisco più particolarmente al PCI, che per il suo peso condiziona tutta la storia della sinistra italiana. In che relazione sta la storia politica del PCI con la storia delle classi? E la sua crisi attuale è una crisi di linea politica, o non è forse, più in profondità, una crisi del suo carattere di classe?

 

3) Nella tradizione del PCI, nel suo modello “classico” di impronta togliattiana, la funzione democratica, in quanto funzione di mobilitazione sociale, ha un rilievo centrale. L’accento è sulla democrazia sostanziale, mentre passano in secondo piano le regole formali della democrazia. Il regime interno del partito non si discosta dal modello terzinternazionalista se non per una maggiore elasticità nell’applicazione dei princìpi del centralismo democratico. L’intelligenza politica e l’abilità di Togliatti evitano al PCI le degenerazioni autoritarie di altri partiti comunisti, ma non esistono garanzie democratiche formalizzate. Ciò non impedisce al “partito nuovo” togliattiano, nonostante la sua struttura intimamente illiberale, di svolgere nell’Italia del dopoguerra una straordinaria funzione democratica, la quale consiste essenzialmente nella mobilitazione politica di grandi masse, nell’ eccezionale ampliamento delle dimensioni della politica, spezzando gli argini ristretti della vecchia democrazia liberale, che era una democrazia di notabili e di clientele.

Ora questa scissione tra aspetto sostanziale e aspetto formale della democrazia non è più praticabile. Ed è una contraddizione tuttora aperta e non risolta nella realtà attuale del PCI. Nelle condizioni presenti, di fronte ad una accresciuta maturità politica e sensibilità democratica a livello di massa non può più funzionare un modello politico basato sull’iniziativa dall’alto, sulla funzione pedagogica di un gruppo dirigente illuminato, ma si richiede la costruzione di un nuovo tipo di rapporto, conseguentemente democratico, tra rappresentanti e rappresentati, tra gruppi dirigenti e base sociale.

Il modello togliattiano è obiettivamente esaurito. Ma, in realtà, proprio su questa questione cruciale della democrazia di partito, ovvero del rinnovamento del regime interno, l’evoluzione è stata lentissima e prevalgono di gran lunga le ragioni della continuità e i richiami alla tradizione. Di fronte alla nuova domanda di partecipazione attiva, che si è espressa in varie forme nella vita della società civile a partire dalla fine degli anni Sessanta, i partiti politici hanno risposto con una linea difensiva, volta a salvaguardare le prerogative del ceto politico professionale e a neutralizzare i possibili effetti dirompenti di questa nuova domanda.

Si accentuano le tendenze alla centralizzazione e alla burocratizzazione. In altri partiti la scelta è esplicita e dichiarata, con l’adozione di un modello presidenzialista. Nel PCI, invece, il processo è più contrastato, si combinano e si giustappongono spinte democratiche e tentativi di restaurazione, determinando un andamento incerto e oscillatorio. Ma un vero e deciso atto di rottura con il passato non è mai stato compiuto, e tutto il gruppo dirigente, quando si affronta questo nodo, si muove con estrema prudenza e non va oltre una linea di gradualismo moderato, nel timore di rotture traumatiche e di processi incontrollabili.

 

4) Oggi sembra mancare una qualsiasi spinta dal basso. E le questioni qui poste possono quindi apparire astratte, inattuali. In realtà, la mancata soluzione del problema della democrazia di partito ha già determinato guasti profondi, perché, in assenza di un’idea rinnovata del partito politico della sinistra, molte energie attive e vitali tendono ad indirizzarsi in ambiti diversi dalla politica. È in questo contesto che torna ad affermarsi con forza la convinzione antica, di estrazione liberale, che esalta i valori e la vitalità della “società civile” in opposizione al sistema politico, sede inevitabile di corruzione e di intrigo.

Anche a sinistra si celebra un’esaltazione acritica della società civile, mettendo in ombra il fatto che i processi “oligarchici” non sono un requisito esclusivo della sfera politica, ma attraversano tutto il corpo, sociale, il quale si configura come un insieme di “poteri”, concentrati in ambiti sempre più ristretti, basati sulla forza più che sul consenso. Ecco, allora, che la denuncia dei guasti del sistema politico e l’invocazione della “questione morale” assumono un carattere ambiguo escono spesso per arenarsi in una logica di conservazione: la società civile, che nella sua sostanza è la società degli interessi privati regolati dal mercato, va lasciata libera nella sua dinamica spontanea, e la politica si giustifica solo in quanto definizione di una cornice di garanzie. Se è così, importa poco l’organizzazione interna dei partiti politici e non ha nessun rilievo il tema critico del rapporto tra politica e democrazia. La sfera della democrazia, dei diritti e delle libertà individuali e collettive è infatti tutta esterna ai partiti, i quali possono contribuire all’allargamento delle libertà solo restringendo il proprio ambito di intervento, ritirandosi dai territori che hanno abusivamente occupato. Per questa via la politica si specializza come tecnica di governo, come strumento di regolazione del conflitto e di mediazione degli interessi. Non c’è più bisogno di una fondazione democratica, di un processo che lega organicamente partiti e forze sociali. Questo processo, che cambia i connotati e i fini della politica, è in atto, e anche la sinistra ne è investita, al punto che stenta ormai a ritrovare le proprie ragioni. La tecnicizzazione della politica toglie, infatti, significatività agli stessi concetti di destra e sinistra, i quali si relativizzano e si stemperano all’interno di un conflitto politico che non mette in causa la trasformazione dei rapporti sociali, il destino storico delle classi, ma solo la loro convenienza immediata, l’equilibrio dei loro interessi corporativi.

 

5) La crisi della sinistra può essere intesa come crisi di quel sistema complesso e articolato che va sotto il nome di “movimento operaio”. Nella formazione storica del movimento operaio si intrecciano gli aspetti sociali, politici e ideologici in una totalità differenziata ma coesa. Sul piano sociale si opera una progressiva unificazione dei differenti interessi interni al mondo del lavoro costruendo una coscienza unitaria di classe, la quale è possibile proprio per il legame che si istituisce tra azione economica, azione politica e identità culturale. La politica è la proiezione e sublimazione degli interessi di classe, è l’espressione del conflitto sociale al livello alto dell’istituzione statale. In questo contesto prende senso la concezione del partito politico come avanguardia, come depositario degli interessi storici della classe. C’è un preciso filo conduttore che unisce i diversi piani: classe, unità di classe, organizzazione di massa, avanguardia politica, teoria rivoluzionaria. Questa totalità è possibile per la forza unificatrice dell’ideologia, perché, oltre gli obiettivi parziali e immediati, si configura un fine storico generale che giustifica e illumina ogni singolo passo, che guida le oscillazioni della tattica.

L’ideologia è coscienza mistificata, ma è insieme forza reale. La mistificazione consiste nell’astrazione idealistica dei fini, i quali non risultano da una effettiva e rigorosa analisi storica delle forze in campo e della loro dinamica; e, tuttavia, essa suscita e mette in moto passioni reali, speranze, motivazioni all’azione.

In questo contesto, il carattere di classe del partito politico è mediato dall’ideologia, e in ciò stanno i germi di possibili degenerazioni burocratiche. Quanto più i fini dell’azione rivoluzionaria perdono concretezza e diventano una sovrastruttura ideologica senza un rapporto con la pratica reale, tanto più la funzione d’avanguardia del partito diventa esercizio di un ruolo di dominio che si sovrappone agli interessi reali dei lavoratori.

La configurazione storica del movimento operaio deve quindi necessariamente evolvere in due possibili direzioni: o verso un esito burocratico che assolutizza il ruolo del partito, o verso la ricostruzione di un rapporto reale, non più mediato dall’ideologia, tra il partito e la sua base sociale.

 

6) Gli elementi portanti su cui si è retta la forma classica del movimento operaio sono oggi evidentemente soggetti ad un processo di sgretolamento. Ciò riguarda in primo luogo il fattore ideologico, ovvero la forza di unificazione in vista di un fine storico universale. Il venir meno della forza d’attrazione del modello dei paesi socialisti, la problematizzazione crescente dell’idea stessa di socialismo, il carattere di incertezza che contraddistingue tutti i possibili scenari futuri, tutto ciò determina, in modo probabilmente non reversibile, una situazione nuova, nella quale i singoli obiettivi non si combinano in un tutto armonico ed esprimono, quindi, i bisogni non mediati, radicali, che chiedono ora di essere soddisfatti. Non ci può più essere un rinvio ad un evento rivoluzionario futuro. Ed è appunto questo radicalismo che ha caratterizzato i movimenti sociali degli anni Settanta e Ottanta: questione femminile, questione ambientale, questione dei diritti civili e delle libertà personali. Il tratto comune è il loro sganciarsi da ogni ideologia storicistica e, di conseguenza, anche il loro entrare in conflitto con le forme storiche del movimento operaio.

Il conflitto inoltre, si sposta significativamente oltre la sfera economica e distributiva, per investire i modelli di vita, la qualità dell’organizzazione sociale, l’autoaffermazione dell’individuo. C’è dunque, un allargamento del conflitto e una domanda di progettualità più ravvicinata, che mette in discussione la qualità dello sviluppo, non accettando la semplificazione ideologica che appiattisce ogni problema concreto nell’opposizione astratta di capitalismo e socialismo. Tutto ciò può caratterizzarsi come un riformismo radicale, come una domanda insieme più parziale e più aggressiva, che coinvolge l’individuo nella sua immediata condizione esistenziale.

È un errore ritenere, come per malto tempo si è fatto, che tendenze siano caratteristiche dei ceti piccolo-borghesi e non mettono radice anche nella classe lavoratrice. Mi sembra al contrario che proprio nel lavoro, nel processo sociale che marginalizza il lavoro e indebolisce il senso, nel disagio soggettivo in cui si vive il proprio lavoro, stia la radice delle nuove manifestazioni del conflitto. Ciò di cui parliamo ha ancora a che fare con il problema delle classi, sia pure in forme nuove, più complesse, così come più complessa è oggi la composizione di classe e più complessi i bisogni che essa manifesta.

Penso, quindi, che vada rovesciata la tesi secondo la quale la crisi della sinistra, e del PCI in particolare, è dovuta al permanere di una concezione classista in una società in cui il concetto di classe ha perso significato. Al contrario, questa crisi sta nel fatto che la politica non ha più il suo fondamento nel conflitto sociale, proprio nel momento in cui il conflitto si allarga e si arricchisce di nuovi contenuti.

 

7) Tutte le analisi sociologiche mostrano la crescente complessità della classe lavoratrice, al punto che lo stesso concetto di classe è messo in questione. Segmentazione degli interessi, frantumazione corporativa, crisi della solidarietà, insorgere degli individualismi: il mondo del lavoro può apparire come un universo intrinsecamente lacerato, come un insieme eterogeneo di interessi non più riconducibile ad unità.

Questa descrizione coglie solo l’aspetto sociologico, e non quello politico, del problema. Nella realtà storica questa differenziazione c’è sempre stata, in misura più o meno marcata, e l’unità di classe è il risultato di una costruzione politica e culturale, capace di ricomporre i diversi tasselli del mosaico. Ciò che vi è di nuovo nei cambiamenti sociali in atto è la messa in crisi della centralità della grande impresa industriale e, quindi, dell’egemonia della figura sociale dell’operaio di fabbrica.

Le tendenze sono note: terziarizzazione, spostamento dalla grande alla piccola impresa, dal lavoro manuale diretto al lavoro di controllo di impianti automatizzati, crescente precarietà e mobilità del lavoro. Non c’è più una figura centrale, che abbia in sé una forza di unificazione del movimento, ma c’è un ventaglio di figure professionali, emergenti e declinanti, e c’è il fatto che i processi di innovazione tecnica e organizzativa rivoluzionano i contenuti e le modalità del lavoro. Questa gigantesca trasformazione sociale accentua gli elementi di incertezza, di precarietà, di insicurezza: disoccupazione tecnologica, perdita di professionalità, subalternità alla macchina. Il fattore umano è una variabile che dipende sempre più da fattori esterni, tecnologici e di mercato. Diviene quindi essenziale la possibilità di controllo sulle scelte strategiche, la possibilità di una democratizzazione dei processi decisionali.

Il conflitto tende a configurarsi come un conflitto di potere: chi ha le conoscenze, chi decide, chi ha il controllo dei processi. L’innovazione tecnologica combinata con la centralizzazione del comando e con la marginalizzazione del lavoro umano, crea le condizioni di un nuovo conflitto diffuso, che si svolge nel cuore del meccanismo economico, che non riguarda più soltanto i tradizionali aspetti rivendicativi ma riguarda ormai le strategie e gli assetti di potere.

Il mondo del lavoro non è pacificato, non è integrato, ma è attraversato da un senso acuto di disagio, di perdita di identità, di emarginazione politica. Stenta a trovare le forme di lotta, gli obiettivi e, soprattutto, la fiducia nella possibilità di un cambiamento.

Si apre allora, per la sinistra, un vastissimo campo d’azione, che ha come presupposto la conoscenza della realtà, la comprensione in tutta la sua portata del cambiamento sociale in atto, la ripresa di un lavoro di ricostruzione delle potenzialità di lotta, in un rapporto diretto, democratico, con le nuove figure sociali. La sinistra politica esiste in quanto si ricostruisce una sinistra sociale.

 

8) Rispetto alla storia passata del movimento operaio vi è oggi una situazione in cui tutti i passaggi, dagli interessi sociali immediati all’unità di classe, dalla classe al partito, sono problematici e vanno ridefiniti. In ogni caso, è possibile pensare ad un sistema di relazioni molto più sciolto, con una più marcata affermazione dell’autonomia dei diversi livelli. Il partito politico può agire entro un orizzonte di classe, avendo come punto di riferimento i movimenti reali, ma non può più proporsi di essere la forma politica conclusiva in cui si racchiude l’intera esperienza del movimento sociale, cosi come, d’altra parte, le lotte sociali non possono che essere una frontiera mobile, variegata, e restano aperte a diversi esiti politici. Non sono possibili cinghie di trasmissione: il che non significa soltanto rifiutare una subordinazione dell’organizzazione di massa al partito, ma significa pensare più radicalmente alla sua autonomia, fondare l’autonomia del sociale in un rapporto con la sfera politica che è di permanente differenziazione e tensione.

È questo il problema del sindacato, la cui autonomia è ancora un progetto incompiuto. Esso si ritrova esposto al rischio di una politicizzazione subalterna, di una istituzionalizzazione dentro una logica di “scambio politico”; e contemporaneamente è esposto alle spinte disgreganti del corporativismo. Per sfuggire a questi esiti, tra loro più complementari che opposti, occorre oggi portare fino in fondo il processo di autonomia, fuori da ogni collateralismo partitico, mettendo in primo piano il ruolo di rappresentanza sociale del sindacato.

 

9) L’insieme di questi processi, alcuni già compiutamente dispiegati, altri solo tendenziali, modifica radicalmente la collocazione storica del PCI, in quanto esso si trova ormai come partito politico a farei conti con se stesso, con la sua identità, senza il supporto di tutto quel complesso di relazioni che concorrevano a formare il movimento operaio come sistema unitario. Non può essere un partito operaio per la sua ideologia, perché l’ideologia non media più il suo rapporto con la classe, non è più una forza reale di aggregazione e di mobilitazione sociale. Né può essere un partito operaio per il tramite di un rapporto privilegiato con l’organizzazione sindacale, di una delega e di una divisione di ruoli concordata, perché il processo di autonomia, per quanto contrastato e incompiuto, è per il sindacato l’unica possibilità di sopravvivenza. E, d’altra parte, non è più sufficiente il radicamento sociale nei tradizionali punti forti del movimento, nella classe operaia della grande industria, perché essi vanno perdendo la loro posizione egemone, e nuove figure sociali diventano essenziali in rapporto ai processi di informatizzazione della produzione e di sviluppo delle attività terziarie.

Per questo, non è chiaro oggi che cosa sia il PCI sotto il profilo della sua rappresentanza sociale. Per questo è incerta, nebulosa, la sua immagine, la sua identità.

Si aprono sostanzialmente due possibilità, oltre a quella, sicuramente perdente, di permanere nell’attuale indeterminatezza. Una possibilità è quella di inserirsi consapevolmente nell’evoluzione in atto del sistema politico, in quanto sistema “separato”, organizzazione tecnica e non democratica del potere; di considerare come un processo compiuto il superamento di ogni logica politica di classe, realizzando quindi un’esplicita revisione teorica e culturale. Il PCI può tendere, allora, ad essere una grande forza politica nazionale che rappresenta un equilibrio, una mediazione complessa tra i diversi interessi in campo e che non è direttamente impegnata nel conflitto sociale.

In alternativa, può riproporsi come partito di classe, sapendo che questa caratterizzazione non è più un requisito naturale che discende dalla sua tradizione, ma comporta un’operazione assai complessa di rielaborazione teorica e comporta soprattutto una radicale riforma dei modelli organizzativi, una democratizzazione coerente di tutta la sua struttura, un cambiamento profondo nella prassi e nello stile di lavoro.

La costruzione di un moderno partito operaio, radicato nel conflitto sociale, capace di costruire una linea politica che abbia un rapporto reale con il movimento, e che non sia la riedizione di vecchi modelli, la riproposizione dottrinaria di esperienze passate, è impresa di grande difficoltà e certamente rischiosa. Ma vediamo meglio se davvero si pone, in modo così netto, questa alternativa.

 

10) Il PCI ha sempre concepito la funzione della classe operaia come una funzione dirigente nazionale, negando a priori l’esistenza di una contraddizione. Questa identificazione dell’interesse di classe con l’interesse generale si basa, a mio giudizio, su una premessa ideologica non fondata.

Secondo questa premessa, le politiche conservatrici sono incapaci di fornire una risposta alle esigenze di sviluppo e hanno in ultima istanza un esito catastrofico, per cui spetta alla classe operaia e alla sinistra il compito della salvezza nazionale. La sinistra rappresenta le ragioni dello sviluppo, mentre la destra rappresenta la stagnazione e la crisi. In questo senso la classe operaia è classe “generale” in quanto è l’unica interessata al massimo sviluppo delle forze produttive. Questo schema teorico non viene più riproposto con questa chiarezza, ma continua però ad influenzare le analisi e le posizioni politiche. Se esso ha avuto una qualche validità nel passato, mi pare oggi del tutto inadatto ad interpretare correttamente la situazione dei paesi capitalistici, nei quali le forze conservatrici dimostrano un grande dinamismo, e configurano una ipotesi di sviluppo possibile e praticabile.

Ciò che qualifica e legittima la sinistra è la scelta di una diversa qualità dello sviluppo, di un diverso modello sociale, in cui hanno un posto centrale i temi del controllo democratico, dell’ambiente, della qualità del lavoro, dei diritti collettivi di cittadinanza. E sono questi temi, appunto, che caratterizzano il moderno conflitto sociale. Conflitto, non interesse generale; scelta di un’opzione, non salvezza nazionale; valutazione critica dei fini, non apologia dello sviluppo.

Per questo accade che quando il ruolo della classe operaia non viene inteso nella sua parzialità e viene immediatamente identificato con gli obiettivi generali dello sviluppo, allora la sinistra finisce per restare bloccata nella riproposizione di politiche di larga unità nazionale, le quali sono giustificate quando c’è effettivamente un’emergenza eccezionale da fronteggiare, ma diventano un impaccio se si trasformano in una strategia di lungo periodo.

 

11) La politica di unità nazionale, perseguita dal PCI dopo il 1976, è un esempio significativo. Quella politica, infatti, viene intesa non come risposta contingente ad una situazione del tutto eccezionale, ma come scelta strategica. Il compromesso diviene storico. Ciò apre una contraddizione nel rapporto del PCI con la propria base sociale. I lavoratori hanno il senso della tattica, capiscono la necessità di compromessi e anche di arretramenti, ma si trovano disarmati se viene in via di principio negata la loro funzione antagonistica. Ora, in quegli anni i quadri comunisti nei luoghi di lavoro hanno dovuto sostenere una difficilissima posizione, e lo hanno fatto per disciplina più che per convinzione, per spirito di partito, avendo però nell’animo un’incertezza profonda. Non c’è dubbio che questa situazione ha lasciato conseguenze rilevanti, indebolendo la credibilità del PCI e aprendo una breccia nella corazza di sicurezza e di certezza ideologica dei quadri comunisti. Il PCI imbocca la strada della collaborazione unitaria con la Dc e con le forze moderate con determinazione puntigliosa, pensando che tutto intero il movimento operaio debba mettersi su questo nuovo terreno, che finalmente prenda corpo per la classe operaia la possibilità di affermarsi come forza dirigente e che ogni deviazione da questa linea sia non solo un errore da combattere, ma una provocazione politica. Si perde ogni senso di duttilità e si smarrisce la necessaria distinzione di ruoli tra partito e sindacato, tra azione politica e conflitto sociale. Lo sciopero generale dei metalmeccanici è considerato come un grave errore politico, come un attacco provocatorio verso la linea del PCI, e tutta l’elaborazione della linea dell’Eur mostra quanto siano prevalenti le considerazioni di ordine politico, quanto pesi l’idea del “primato della politica”, per cui anche il movimento sindacale viene risucchiato nella logica dell’unità nazionale e viene chiamato a svolgere funzioni che travalicano il proprio ruolo di rappresentanza sociale.

È questa forzatura che determina lacerazioni, reazioni, che fa sorgere atteggiamenti di rivolta contro il rischio di un “regime”, di una unità nazionale coatta, che nega le differenze, il pluralismo, il conflitto. C’è chi soffia strumentalmente sul fuoco, come sempre, c’è la responsabilità di chi incoraggia l’esasperazione e la provocazione.

Ma tutto ciò non toglie rilievo al fatto che c’è stato un errore politico, denso di conseguenze negative. Alla prova dei fatti, tutta la costruzione teorica basata sull’idea della classe operaia come classe dirigente nazionale, come forza animatrice di un largo schieramento unitario finalizzato all’obiettivo della salvezza nazionale, ha mostrato la sua fragilità, la sua astrattezza ideologica. I lavoratori non si sono sentiti protagonisti, ma hanno avvertito il rischio di una loro marginalizzazione, di una loro perdita di identità politica.

 

12) Inizia così una stagione di tensione tra il PCI e il mondo del lavoro.

Da un lato, i tradizionali nuclei di classe operaia, che erano gli elementi di forza del PCI, si sentono sfuggire di mano la loro funzione di avanguardia, e cresce un rapporto di incomprensione e di sfiducia con il partito. La marginalizzazione della questione operaia avviene anche dentro il PCI, proteso verso una più larga politica di alleanze, e impegnato a qualificarsi come forza di governo. Dall’altro lato, le nuove figure sociali che si affermano nel quadro del processo di modernizzazione pongono problemi nuovi, che l’organizzazione tradizionale dei movimento operaio non è ancora attrezzata ad affrontare. C’è un’attenzione nuova ai problemi della professionalità, della valorizzazione concreta del proprio lavoro, e un nuovo intreccio tra il momento del conflitto e quello della partecipazione, un modo più pragmatico e duttile di valutare i problemi del lavoro e i problemi dell’impresa.

Alla Fiat, nel corso dell’ultimo grande tentativo di scontro di classe, esplode il movimento dei quadri, che dimostra come l’influenza sociale e ideale del movimento operaio si sia ristretta e non sia più in grado di rappresentare l’intero mondo del lavoro. Si affermano nuove sensibilità, nuove esigenze, non soltanto nell’area dei lavoratori di più alta professionalità, ma nelle nuove leve del lavoro, nelle donne, nel variegato panorama delle nuove figure sociali, il cui retroterra culturale è molto lontano da quello tradizionale del PCI, ed è aperto a varie influenze politiche e ideali. Questi lavoratori si confrontano col PCI non più sulla base delle grandi opzioni ideologiche, ma sulla base dei fatti, dei comportamenti concreti, dei risultati. Ed è su questo terreno, appunto, che la carta d’identità del PCI risulta più lacunosa e meno convincente. Questo rischio di un progressivo sradicamento del PCI dalla sua base sociale è scarsamente avvertito dal gruppo dirigente, che sembra essere prigioniero delle sue stesse formule ideologiche. Nella pratica il “lavoro di massa”, come si definisce nel linguaggio di partito l’attività politica verso i problemi del lavoro, è sempre più un’attività settoriale, separata, specialistica, e resta periferica rispetto alla strategia generale del partito.

 

13) L’ultimo tentativo di impostare una politica di classe viene compiuto da Berlinguer, la cui direzione assume, negli ultimi anni, elementi di forzatura, operando una serie di strappi rispetto agli orientamenti prevalenti nel gruppo dirigente e cercando di stabilire un rapporto diretto, di tipo carismatico, con la base del partito.

Berlinguer vede che esiste un problema di identità del PCI e non esita ad affrontarlo anche a costo di aprire una situazione di conflittualità con il movimento sindacale. La Fiat, la scala mobile, il referendum: in tutti questi passaggi è visibile una linea di ricerca perseguita con un fortissimo impegno personale e con una particolare durezza polemica, nel tentativo di ricostruire un rapporto diretto tra il PCI e le lotte operaie.

Ma questa politica non riesce e conduce il PCI ad alcune sconfitte brucianti. Non riesce perché si fonda su un’analisi e su una interpretazione del mondo del lavoro che non coglie i mutamenti che sono avvenuti, che pensa ancora in termini tradizionali e che finisce, pertanto, per determinare nuove divisioni e un sostanziale isolamento delle avanguardie storiche della classe operaia.

È una politica arcaica, modellata su esperienze passate. Alla Fiat ci si trova di fronte al fatto nuovo della mobilitazione dei quadri. Nella battaglia per la scala mobile ci si trova di fronte ad una divisione che non è solo dei vertici sindacali, ma è sociale, come dimostrano i risultati del referendum nelle aree di più forte insediamento industriale. Il terreno scelto per lo scontro di classe è troppo angusto, troppo ristretto, e il risultato finale non è il rilancio di un’ampia ed unitaria politica di classe, ma è la divisione e la sconfitta.

Berlinguer ha lasciato in eredità al partito questo problema irrisolto. Non si correggono i limiti di Berlinguer negando l’esistenza del problema, la necessità di una scelta, che riguarda la natura del partito la sua rappresentanza sociale.

 

14) La conclusione di questa analisi mi pare chiara: la necessità di un moderno partito del lavoro, che stabilisca direttamente, democraticamente, un rapporto con i lavoratori e che ridefinisca la sua linea e la sua prospettiva a partire dal conflitto sociale. Ci si sta muovendo in questa direzione? Il senso di marcia della politica attuale del PCI non è chiaro, e contiene ancora troppe ambiguità.

Si ribadisce la politica di alternativa, ma nel contempo si allargano a macchia d’olio le esperienze di collaborazione con la Dc e riprendono fiato gli argomenti a favore di una nuova “solidarietà” di tutte le forze democratiche. Si riconosce l’esistenza di un problema di democrazia nella vita interna del PCI, ma nessuna riforma sostanziale è stata fin qui prospettata. Si è organizzata una conferenza dei lavoratori comunisti, sulla base di un documento che per molti versi delinea una politica radicale e una netta scelta di campo dalla parte del lavoro dipendente, ma tutto ciò può essere ancora una volta solo un episodio, una delle tante parzialità che convivono nel PCI, e già molti si affannano per correggere e smussare queste punte di radicalismo. Si teorizza la discontinuità, ma c’è un gruppo dirigente che è la prova vivente della continuità. Francamente, nonostante una discreta conoscenza della vita interna del PCI, non so dire dove esso stia andando.

Questa ambiguità è presente anche nella scelta recente di mettere in primo piano il tema delle riforme istituzionali. Quale è l’obiettivo politico di questa iniziativa? Può essere, da un lato, la ridefinizione delle regole del gioco per assicurare maggiore stabilità ed efficienza al sistema politico; il che coincide esattamente con tutta l’impostazione del PSI in tema di governabilità. Oppure può essere la ridefinizione dei poteri democratici dello Stato, degli strumenti di governo e di controllo dell’economia, per incidere sull’organizzazione reale del potere. E allora non si tratta solo e principalmente di riforma elettorale e di funzionamento delle Camere, ma della costituzione materiale dello Stato: strumenti di programmazione, amministrazione pubblica, rapporto fra potere centrale e poteri decentrati, forme nuove di partecipazione e di democrazia economica. Solo così il tema della riforma dello Stato acquista anche un senso sociale e si traduce in un linguaggio di massa.

Nella realtà è il primo approccio quello prevalente, anche perché è l’unico a cui sono interessate le altre forze politiche. Ma si tratta solo di rientrare nel gioco o di ricostruire una piattaforma politica, sociale, ideale, che restituisca identità alla sinistra?



Numero progressivo: H90
Busta: 8
Estremi cronologici: 1988, febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Micromega”, n. 1, febbraio 1988, pp. 59-68. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 79-98