DE SENECTUTE

Risorse e bisogni dell’età matura

Relazione di Riccardo Terzi, al convegno omonimo al Circolo della Stampa a Milano il 28 maggio 2004.

Abbiamo scelto per questo nostro incontro un titolo classico, “De Senectute”, per sottolineare come il tema dell’invecchiamento sia, fin dall’antichità, un grande motivo della riflessione filosofica, della ricerca intorno al significato della vita umana.

E questo tema va oggi attualizzato, vedendo come esso si viene evolvendo nelle nuove condizioni della moderna società tecnologica e individualizzata.

Che una iniziativa come questa venga presa da una organizzazione sindacale non deve stupire, perché il sindacalismo confederale si propone di guardare alla società, alla sua dinamica, dal punto di vista delle persone, per poterle rappresentare nella concretezza dei loro bisogni e delle loro attese.

In questo senso il sindacato è una grande istituzione umanistica, che fa da contrappeso al dominio apparentemente neutro e oggettivo dell’economia e del mercato.

Già Engels definiva il movimento operaio come l’erede della grande filosofia classica. Oggi possiamo dire che la nostra funzione di rappresentanza, per essere autentica, deve rivolgersi non solo all’homo oeconomicus, ma all’integrità della persona, e quindi a tutta la complessità del rapporto tra interessi, passioni e ragione.

E questo aspetto risalta ancora di più in una organizzazione come la nostra, che rappresenta le persone non nella loro attività produttiva, ma nell’esperienza di vita che va costruita quando il ciclo del lavoro si è concluso, ed è questo il momento in cui le domande intorno alla propria identità si fanno più pressanti.

Ecco perché la discussione di oggi ci riguarda da vicino, dato che noi non vogliamo essere solo degli organizzatori di servizi, degli sportelli burocratici, ma ci occupiamo della difficile arte della “rappresentanza”.

E rappresentare vuol dire entrare in un rapporto vitale con le persone rappresentate, e mettere in moto un processo collettivo, di auto-rappresentazione, di consapevolezza, di elaborazione della propria identità.

Siamo partiti dalla classicità, dalla grande tradizione filosofica. Con ciò non si vuole affatto dire che il problema dell’invecchiamento sia un problema immutabile, sempre uguale a se stesso, e che le domande e le risposte siano oggi ancora le stesse, come se il tempo storico fosse trascorso senza lasciare tracce. Al contrario, io cercherò in questa introduzione di segnalare i punti di rottura, di discontinuità, che rendono la nostra condizione attuale radicalmente diversa e assai più difficile da interpretare.

Nelle società tradizionali l’invecchiamento è lo stadio della maturazione, del compimento della vita, della realizzazione di sé come persone che hanno raggiunto uno sguardo in profondità sulla società e sul mondo e che sono socialmente riconosciute come le depositarie della memoria collettiva.

Il De Senectute di Cicerone è la celebrazione di questa maturità, ma, rileggendolo oggi, esso ci appare come un artificio retorico di tipo consolatorio, e sentiamo la necessità di un approccio critico del tutto diverso, sentiamo cioè l’invecchiamento come una frattura e come l’inizio di un nuovo difficile itinerario esistenziale.

In che cosa consiste la rottura che si è consumata tra il mondo antico e quello moderno? Leopardi ha a lungo riflettuto su questo problema, e ha visto nella modernità la caduta delle illusioni, delle rappresentazioni mitologiche, e l’affermarsi di una razionalità cruda, la quale infine ci svela la nullità della nostra condizione. Con Leopardi bisogna fare i conti, anche se bisogna cercare di superare la negatività assoluta delle sue conclusioni. Bisogna cioè misurarsi con tutto il processo moderno che ha messo in crisi l’antico sistema dei valori, e con l’ulteriore fortissima accelerazione che questo movimento ha avuto negli ultimi anni, non per rimpiangere un passato tramontato e idealizzato, ma per individuare nel presente le risorse razionali possibili su cui costruire la nostra identità.

In primo luogo, è mutato il contesto sociale. Nella comunità patriarcale, nella famiglia allargata che ha caratterizzato la civiltà contadina, l’invecchiamento avveniva in un quadro di stabilità delle relazioni affettive, all’interno di un mondo che accoglieva in sé la persona anziana come un elemento necessario dell’equilibrio familiare, senza dimenticare però che accoglienza vuol dire anche dominio, controllo, limitazione della libertà.

Con l’industrializzazione, con l’affermazione della famiglia nucleare, con le nuove forme dell’abitare, la vecchiaia tende sempre più ad assumere la forma della solitudine. Questa è la grande novità: l’esperienza dell’invecchiamento la affrontiamo da soli, senza l’ombrello protettivo-autoritario della comunità. E nella solitudine, lo sappiamo, tutti i problemi diventano più complicati. E se non c’è una forte capacità di autonomia, sul piano culturale prima ancora che su quello delle capacità fisiche, si rischia di entrare in una spirale depressiva e autodistruttiva.

Questo fenomeno è ampliato dall’andamento demografico, con l’allungamento delle aspettative di vita e con la caduta della natalità. E, di fronte a ciò, il tradizionale richiamo alla famiglia, ai suoi valori, alla sua coesione, risulta del tutto inadeguato, e spesso solo retorico, perché è proprio la nuova configurazione della famiglia che ha generato il problema.

In secondo luogo, vanno considerati i mutamenti del contesto ideologico, in quanto tutto il complesso delle fedi, delle appartenenze, delle grandi narrazioni ideologiche, sia religiose che storico-politiche, è entrato in uno stato di sofferenza e di incertezza.

L’effetto è analogo a quello prima descritto, perché anche in questo caso c’è una comunità che si spezza, un legame collettivo che si allenta. La nostra vita non è più affidata ad una verità esterna che ci garantisce e ci assicura un orizzonte di senso, ma la verità diviene l’oggetto di una nostra ricerca individuale.

Siamo noi che dobbiamo elaborare l’universo dei significati, perché non c’è più nessuna autorità che ce lo può trasmettere dall’alto. E questa nuova condizione, questo convivere con l’incertezza, è sicuramente più difficile da affrontare per la persona anziana, che rischia di sentire tutto ciò non come una sfida positiva per una razionalità più matura, ma come il decadimento del mondo in cui è vissuta.

Il terzo aspetto è la velocità e l’intensità del cambiamento che attraversa le nostre società. Nel corso della nostra vita ci troviamo a fronteggiare, più di quanto sia mai accaduto nel passato, un processo di trasformazione che tocca in profondità tutti gli aspetti della nostra esperienza.

Nelle società statiche, che riproducono senza grandi variazioni le loro condizioni di partenza, è del tutto diverso il significato della vecchiaia, perché essa si svolge in un mondo che è già conosciuto, dove tutto ha il segno della naturalezza, dell’eterno ritorno l’uguale. Tra la giovinezza e la vecchiaia c’è evoluzione, ma non rottura, perché c’è una stabilità di fondo dell’assetto sociale.

Ora, invece, con i ritmi attuali del cambiamento, l’invecchiamento ha anche il significato di un possibile spiazzamento, di uno sradicamento, e in breve spazio di tempo diventano obsolete le nostre conoscenze, le nostre qualità professionali, ed entra in una fase critica il nostro modo di stare nel mondo. Per questo alla vecchiaia non si accompagna più il prestigio della saggezza, della memoria storica, come nelle civiltà tradizionali, perché il suo sapere è continuamente oltrepassato dalle nuove forme della vita sociale organizzata.

Tutto ciò spinge verso un’accentuazione di quel sentimento di ostilità verso il nuovo che ha sempre caratterizzato le generazioni più anziane. E questo contrasto, che è fisiologico, tra il senso della tradizione e la forza del cambiamento, può divenire traumatico, se non si acquisiscono gli strumenti per capire ed interpretare la società che cambia. In una parola, c’è un’intera generazione che fatica a tenere il passo dell’evoluzione sociale, e che per questo può essere sospinta, pericolosamente, verso una reazione conservatrice.

Nel momento in cui cambia il paesaggio delle nostre città, per l’irruzione del grande moto migratorio da paesi lontani, per l’intreccio che si stabilisce tra culture diverse, per l’affermarsi di più liberi stili di vita, e per lo straordinario impatto dell’innovazione tecnologica, il mondo degli anziani può reagire a tutto ciò lasciandosi guidare dal risentimento e dalla paura.

È questo l’oggetto di una ricerca che stiamo organizzando – ne parlerà Aldo Bonomi – per capire meglio come agiscono le paure, le incertezze, e per costruire una risposta, per mettere in campo una rete sociale che aiuti le persone ad orientarsi in questa società che cambia.

C’è un ultimo aspetto che voglio sottolineare, e che rappresenta forse il motivo maggiore di ansia e di spaesamento. Mi riferisco allo stile di vita e al modello di valori oggi dominante, che è tutto proiettato verso il successo, verso la competizione individuale, con un totale investimento emotivo in una prospettiva narcisistica, di affermazione di sé nei diversi campi della vita.

Il dio esclusivo a cui si consacra la società moderna è il successo, o più esattamente il suo apparire, il suo essere esibito: nel lavoro, nella politica, nei rapporti sociali, nella sfera della sessualità.

Una società che ha nel successo il suo metro di misura esaspera la criticità dell’invecchiamento, perché la vecchiaia è l’età in cui bisogna saper prendere congedo dal successo, in cui occorre la sapienza del distacco, del ritirarsi in una dimensione diversa da quella della competizione e del potere. Nel mondo della competizione totale e del narcisismo dominante, è difficile trovare un equilibrio, e ci troviamo costantemente in bilico tra il fallimento e il grottesco, tra l’essere i sopravvissuti di un mondo morto, o gli opportunisti che si attaccano fino all’ultimo, senza pudore, a qualsiasi parvenza di successo, fingendo un vitalismo giovanile del tutto artefatto.

Bisognerebbe riconsiderare il tema della saggezza, che oggi, dobbiamo riconoscerlo, non gode di buona salute, non è una pratica assecondata dalla moda del tempo. Ma è possibile attraversare con serenità il lungo tragitto dell’invecchiamento e dare ad esso un significato positivo senza ricorrere alle risorse della saggezza, senza coltivare cioè l’arte del distacco, della neutralizzazione degli impulsi competitivi e narcisistici? La saggezza non coincide con la sapienza, con la conoscenza, ma può essere definita come l’elasticità del pensiero e la flessibilità nell’interpretazione della vita.

C’è uno straordinario libro di Francois Jullien, filosofo e sinologo francese, con un titolo fulminante: Il saggio è senza idee, il che significa che è infinitamente aperto a tutto l’universo possibile delle idee e che non si fissa su nessuna verità parziale. Il saggio è chi resta sempre aperto alla più spregiudicata ricognizione circa il senso della vita.

Accade così che anche la vecchiaia non sia una sconfitta, un declino, ma una fase della vita in cui è possibile scoprire nuovi significati, in cui ci è sempre data una libera possibilità di scelta. Non c’è nessun destino, nessuna legge che sia imposta. L’invecchiamento sarà quello che noi lo facciamo essere.

Nella complessità delle nostre società contemporanee, questa elaborazione del proprio invecchiare, per tutte le ragioni prima ricordate, si presenta come un compito più impegnativo, ma anche più avvincente, perché chiama in causa direttamente le nostre risorse individuali, la nostra autonomia. Molto dipende dalla rete delle relazioni sociali e dalla qualità di queste relazioni.

Qui si inserisce la nostra iniziativa sindacale, che essenzialmente un lavoro sistematico di costruzione e ricostruzione della socialità.

La crisi della nostra società è crisi dello spazio pubblico, delle relazioni, della coesione sociale. Se la socialità si frantuma nell’individualismo competitivo, l’anziano è la prima vittima di questo processo e si trova destinato all’emarginazione. Questa rete sociale non può essere garantita in via esclusiva né dalla famiglia che costituisce, come abbiamo visto, uno degli elementi della crisi, né dallo Stato, i cui meccanismi hanno sempre un carattere impersonale, neutro, burocratico.

È lo spazio sociale intermedio tra la famiglia e lo Stato che deve essere attentamente coltivato. Ma non c’è nessuna soluzione se non si attiva l’autonomia delle persone. Oltre la sfera delle relazioni sociali, c’è il lavoro individuale che ciascuno di noi deve elaborare con le proprie forze. Noi dobbiamo aiutare le persone a conquistare questa autonomia, offrendo tutti gli strumenti conoscitivi e relazionali per orientarsi nella complessità sociale. Ma non abbiamo una verità da proporre, un modello di vita, una regola. Ciascuno deve scegliere il suo cammino e interpretare la sua vita. Lo potrà fare meglio se non è lasciato a se stesso. Socialità e autonomia personale sono le due leve fondamentali che dobbiamo sapere utilizzare, e su queste basi possiamo costruire un futuro di speranza.


Numero progressivo: E51
Busta: 5
Estremi cronologici: 2004, 28 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “De Senectute. Risorse e bisogni dell'età matura”, Mimosa, Milano, 2004. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 229-236, e quindi in “Riccardo Terzi, un pensiero innovatore”, pp. 105-112