DOPOELEZIONI POLITICHE

Comitato Centrale del PCI 2-5 luglio 1979

Intervento di Riccardo Terzi

È necessario, io credo, suscitare nel partito il necessario allarme per i risultati elettorali, e questo ancora non è stato fatto nella misura necessaria, e affiora, in alcuni settori del partito, un atteggiamento di giustificazionismo difensivo che mi pare essere il pericolo maggiore. Non mi sembra pertanto né opportuno e né educativo per il partito tacciare di mentalità socialdemocratica chi cerca di trarre dall’analisi del voto una riflessione che affronti anche esplicitamente le questioni di linea politica, che prenda in considerazione le ipotesi di correzione e di svolgimenti nuovi. Sarebbe, anzi, grave e pericoloso se il partito si adagiasse nella falsa tranquillità di argomentazioni consolatorie e nella riaffermazione rituale di una linea non verificata criticamente.

La nostra flessione è generale, diffusa; coinvolge, nel suo complesso, il nostro elettorato, i diversi strati sociali; e appare quindi determinata, più che da ragioni particolari, più che da singole debolezze ed errori, da motivazioni politiche più profonde e complessive. Certo, una ricerca anche puntigliosa degli errori compiuti è indubbiamente utile, ma essa è monca e insufficiente se si rimane al dettaglio, al particolare, alla singola questione.

Qual è il senso politico generale del voto è stato più volte sottolineato. Non uno spostamento generale verso destra, non un ribaltamento degli equilibri politici ma uno sbandamento, il determinarsi di una vasta area di incertezza, di sfiducia e di protesta.

Che ciò sia dovuto anche alla controffensiva che si è organizzata contro di noi, mi pare essere una verità parziale che non esaurisce il problema, non solo perché in ogni competizione elettorale si verifica sempre una sorta di attacco concentrico in forme più o meno acute (e l’ultima campagna elettorale non ha segnato, a mio giudizio, un mutamento qualitativo rispetto al passato), ma soprattutto perché si tratta di comprendere su quali terreni e per quali ragioni politiche questo attacco ha potuto strappare dei risultati.

È evidente che il vigore della polemica non è in se stesso sufficiente.

Abbiamo potuto anche noi stessi verificarlo a proposito della nostra polemica verso il Partito radicale. La ragione politica essenziale mi pare riconducibile al fatto che si è via via determinato un logoramento crescente della politica di unità democratica. Un logoramento nei fatti dovuto alla involuzione della Democrazia Cristiana e da noi stessi denunciato nel momento in cui abbiamo deciso (e la scelta è indubbiamente necessaria) di uscire dalla maggioranza.

Ora, questo ha costituito, nel corso della campagna elettorale, una difficoltà oggettiva, reale. La nostra riproposizione dell’obiettivo di un governo di unità nazionale non poteva che apparire debole, scarsamente credibile dato che le condizioni politiche per poter realizzare questo obiettivo apparivano quanto mai remote e inattuali.

Era possibile evitare questa difficoltà? Evidentemente no, ma sarebbe stato preferibile, data questa situazione oggettiva, non fare della questione del governo il tema centrale, come invece è largamente avvenuto. La parola d’ordine della nostra partecipazione al governo, scandita ripetutamente nei comizi, non aveva una presa esterna, non era in grado di spostare settori di opinione pubblica e di creare consensi.

Io comunque non intendo soffermarmi nell’analisi retrospettiva. Credo che, nonostante qualche errore e qualche tortuosità, sia stata giusta la linea generale che abbiamo seguito, sia stato giusto avviare e tentare un processo politico nuovo e originale. Ma la questione riguarda il presente e la prospettiva politica. Come si può configurare, nelle condizioni attuali, la politica di solidarietà democratica? Io credo che dobbiamo distinguere con più nettezza l’ispirazione unitaria, la necessità di mantenere tra le grandi forze democratiche un quadro di solidarietà nella difesa di un patrimonio comune e la questione del governo e della sua composizione, sia a livello nazionale, sia nelle singole realtà locali.

Non avere compiuto con sufficiente chiarezza questa distinzione ha ingenerato l’equivoco del regime e ha portato alla conseguenza di offuscare il carattere del partito come forza alternativa. Ciò è stato determinante per il voto dei giovani, anzitutto, che sono cresciuti nel clima un po’ retorico dell’unità nazionale e che hanno conosciuto il partito soltanto come parte di un sistema di governo. È stato questo solo il frutto della propaganda avversaria? No, io credo che sia anche il risultato di semplificazioni riduttive, di applicazioni della nostra linea che avevano come punto di riferimento essenziale, e talora esclusivo, il rapporto con la Democrazia Cristiana.

Credo dunque che sia necessaria una rettifica di linea, che sia necessario un elemento chiaro di innovazione. D’altra parte quando si dice, come è detto nella relazione del compagno Berlinguer, che con questa Democrazia Cristiana così come è oggi non è possibile nessuna intesa, ebbene questa affermazione, forse anche troppo drastica, non può non porre dei problemi di linea e di prospettiva. E credo che questo sia necessario per dare al partito uno slancio nuovo nella sua iniziativa e per assorbire e indirizzare il malessere che c’è tra i compagni.

L’anello fondamentale su cui far leva è, a mio avviso, la costruzione di un nuovo tessuto unitario nella sinistra, non nel senso di un ribaltamento brusco della nostra linea generale ma come condizione essenziale perché la stessa politica di unità democratica possa riprendere slancio. Lo stesso rapporto con la Democrazia Cristiana può essere reimpostato in modo nuovo sulla base di un diverso e più favorevole rapporto di forza.

Già molti interventi hanno posto il problema della nostra iniziativa all’interno della sinistra, e credo che dobbiamo procedere con coraggio in questa ricerca. Io mi domando che senso abbia continuare a trattare con fastidio, con insofferenza e con diffidenza il tema dell’alternativa e dell’unità della sinistra. Io credo che dobbiamo essere dentro questo dibattito, certamente non facile, certamente non per adottare delle formule semplicistiche ma non possiamo lasciare ad altri, non possiamo lasciare soltanto a forze come il PdUP questa tematica che è una tematica che può coinvolgere forze importanti della società italiana.

L’obiettivo di una nuova aggregazione della sinistra, e più in generale delle forze laiche e democratiche, è, a me pare, la risposta pertinente ai risultati elettorali; i quali segnalano appunto lo sbandamento della sinistra e quindi la necessità urgente di fissare alcuni punti di impegno unitario. Nei confronti del PSI dobbiamo avere sia il realismo necessario considerando i processi oggettivi che in esso si vanno realizzando, e insieme una capacità di iniziativa e di stimolo che riapra all’interno del Partito socialista un confronto fecondo che limiti i margini di manovra del gruppo dirigente craxiano.

Su questo punto c’è ancora troppa sordità, c’è un ritardo nostro. C’è stata, in tutto questo periodo, nei fatti, una linea che ha colto nel PSI e nella sua politica di autonomia solo il pericolo della destabilizzazione e della irresponsabilità. Questo tema è di importanza primaria se pensiamo alla prospettiva delle elezioni dell’Ottanta, che sono imminenti e che debbono fin d’ora essere indicate al partito come una scadenza politica decisiva. Con quale schieramento, con quale progetto politico ci prepariamo a questa scadenza elettorale? Ci andiamo rassegnati, convinti della inevitabilità di una restaurazione moderata, di un ritorno al centro-sinistra o invece con la riproposizione convinta della funzione di governo delle sinistre e della possibilità di allargare ulteriormente l’arco delle nostre convergenze verso le forze intermedie, verso (se vi sono le condizioni) gli stessi Radicali?

Il secondo aspetto che mi pare essenziale è un aspetto già trattato da molti interventi: il fatto che siano rimasti un po’ in ombra, un po’ offuscati in questa fase gli obiettivi della trasformazione. Ora a ben guardare, a me sembra, il successo radicale è anche uno degli effetti della crisi dell’idea della trasformazione, e cioè il riflesso di una coscienza diffusa per cui si tratta soltanto di dilatare il più possibile gli spazi della libertà entro la società presente.

Da qui derivano due considerazioni. La prima, già fatta da molti compagni, è che abbiamo messo l’accento in modo forse un po’ unilaterale sulla crisi generale del paese, sugli effetti catastrofici di essa e quindi sul tema del risanamento. La seconda, che non abbiamo saputo collegarci alla nuova tematica della libertà soggettiva, dello sviluppo dell’individualità, vedendo in essa soprattutto il pericolo di un ripiegamento egoistico e non cogliendone le grandi potenzialità di progresso.

A me pare che, sotto entrambi questi profili, quella che è stata un po’ l’idea-forza nostra in questo periodo, l’idea dell’austerità, appaia oggi inadeguata, non corrispondente alla coscienza di sé di una società moderna ed evoluta.

Si è determinato così uno scarto, una dissonanza tra il linguaggio del partito e la coscienza comune del paese. Il tema del linguaggio, su cui da qualche tempo si usa discutere, riguarda, a me pare, la sostanza del nostro linguaggio politico, la sua capacità comunicativa, la sua forza d’attrazione; e talora avviene che certe formulazioni, ancora confuse ma animate da uno spirito di ricerca, siano più produttive rispetto ai luoghi comuni di un linguaggio consolidato e popolare ma ormai spento e rituale.

Stiamo attenti, quindi, a non generare, nel nome della chiarezza e della semplicità, un’avversione populistica per tutto ciò che è ricerca di una via nuova e sforzo di adeguamento e di sviluppo della nostra cultura.

Il rapporto con le nuove generazioni, ad esempio, richiede una grande capacità di innovazione culturale. La generazione attuale, delusa dall’estrema politicizzazione e dai miti democraticistici e movimentistici del ‘68, si pone in un’ottica più ampia il problema della condizione umana nella civiltà moderna. Ed è allora a questo livello più generale che dobbiamo realizzare il confronto se non vogliamo essere, su questo piano, preceduti e battuti dalla stessa chiesa cattolica e da altre correnti di pensiero.

Vengo molto rapidamente all’ultimo punto, cioè agli aspetti politici immediati. Siamo tutti d’accordo, almeno così mi pare, che il passaggio all’opposizione sia un passaggio obbligato e insieme non un passaggio risolutivo, che anzi possa verificarsi un arretramento, un abbandono nella pratica della visione di governo. L’opposizione non è una linea politica e, presa in se stessa, non dà alcuna indicazione al partito.

Occorre allora lavorare su due piani: quello della politica immediata, dove non dobbiamo restare spettatori, tanto meno restare isolati, ma dobbiamo sviluppare un’iniziativa verso le altre forze, vedere quali programmi si possono realizzare, quali punti di impegno unitario della sinistra, quale iniziativa verso la Democrazia Cristiana.

Vi è poi il piano della prospettiva politica, di più lungo periodo che dobbiamo riprendere e approfondire, come far maturare le condizioni di un’alternativa politica, con quale blocco di forze sociali e politiche, per quale disegno di trasformazione.

Ecco che allora, se riusciamo a impegnare il partito su questi due terreni e a sviluppare su questi due terreni un’iniziativa, allora evitiamo che il partito sia risospinto indietro, facciamo sì che il partito mantenga una funzione di primo piano, che sia spinto all’iniziativa e al confronto, che sia consapevole del proprio ruolo di governo non come slogan elettorale ma come impegno di lavoro, di lotta e di ricerca.


Numero progressivo: F6
Busta: 6
Estremi cronologici: 1979, 2-5 luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: Pubblicato in “La pazienza e l’ironia”, col titolo “Dopo le elezioni politiche”, pp. 295-301