VIVERE NELLA SOCIETÀ DELL’INCERTEZZA. QUALE RUOLO PER IL SINDACATO?

Ricerca sui pensionati condotta da CGIL SPI e AASTER

di Riccardo Terzi, Segretario generale SPI CGIL Lombardia

Nel panorama sindacale italiano, l’organizzazione dei pensionati ha dimostrato una straordinaria vitalità, raggiungendo altissimi livelli di adesione, fino a superare, sia nella CGIL che nella CISL, il numero complessivo dei lavoratori attivi sindacalizzati.

È un fenomeno relativamente recente, il quale riflette il nuovo ciclo demografico del Paese. Gli equilibri interni del sindacalismo confederale ne vengono profondamente modificati, e ciò è visto talora con preoccupazione, per il rischio che si perda la centralità del lavoro produttivo.

E dall’esterno, da quell’insieme di forze che vorrebbero indebolire il sindacato nella sua funzione politica, si sostiene polemicamente che ormai le confederazioni rappresentano soltanto il passato. In tutti questi casi, non si cerca di capire il fenomeno, di vederlo nella sua oggettività e nelle sue potenzialità, ma lo si interpreta solo “in negativo”, come un indice di declino. È un approccio che va radicalmente rifiutato.

Di fronte ad un fenomeno sociale che ha dimensioni di massa, è necessario uno sforzo di analisi per afferrarne le motivazioni profonde, la dinamica, le prospettive. I dati quantitativi danno in modo eloquente la misura del problema: in Lombardia oltre 450 mila iscritti allo SPI CGIL, al livello nazionale quasi 3 milioni, e se consideriamo nel loro insieme le tre confederazioni questi dati si raddoppiano.

È solo l’effetto della rete dei servizi, del lavoro dei patronati, della consulenza fiscale? È difficile accettare una lettura così semplificata. In una organizzazione di massa c’è sempre un insieme complesso di motivazioni, c’è un incrocio di interessi e di passioni, c’è la dimensione materiale dei bisogni immediati di tutela, e c’è la ricerca di identità e di senso.

Per questo abbiamo deciso di promuovere una ricerca, per capire meglio chi sono e che cosa chiedono i nostri iscritti, per capire come funziona il meccanismo della rappresentanza, quali ne sono i punti critici e quali le possibilità evolutive. Il rapporto tra rappresentanti e rappresentati è sempre un rapporto difficile, attraversato da tensioni e conflitti. E la società contemporanea rende questo rapporto ancora più complesso, per il declino delle grandi appartenenze collettive, delle fedi, per il prevalere di una linea di condotta più mobile e più soggettiva, di una identità non più compatta, ma fluida e differenziata. Il dato emergente non è tanto il comportamento opportunistico, guidato solo dal calcolo delle convenienze, quanto piuttosto l’esistenza di una pluralità di interessi, di sfere di vita, il passaggio quindi ad una personalità a struttura politeista, che non si concentra tutta nel culto di un solo dio.

Per questo spesso si teorizza la crisi della rappresentanza. A me sembra più corretto parlare di una trasformazione, di un rapporto che si fa più esigente. Ciò che non funziona più è il meccanismo della delega fiduciaria, è l’automatismo dell’appartenenza. La rappresentanza si può sviluppare solo se c’è un reale rapporto di comunicazione tra l’alto e il basso, tra chi decide e chi è il destinatario delle decisioni. Si tratta allora di vedere come stanno le cose nel rapporto dello SPI con i suoi iscritti. Dietro il grande successo organizzativo, quale processo politico si è determinato, con quali motivazioni, con quali aspettative? Come interpretare, quindi, la funzione del sindacato dei pensionati? Per rispondere a queste domande, occorre uscire dalla routine burocratica e far emergere tutto ciò che resta spesso nascosto e che costituisce il vero tessuto connettivo di una grande organizzazione: la soggettività delle persone, il loro modo di intendere se stessi e la loro vita, e quindi le motivazioni con le quali decidono di stare dentro una struttura organizzata.

Se questo vissuto soggettivo, che tende ad essere occultato dai rituali ripetitivi della burocrazia, riesce a venire alla luce, se l’organizzazione ne prende coscienza, allora può acquistare tutto il suo valore la funzione della rappresentanza. La ricerca, quindi, è una ricerca su noi stessi, sul nostro lavoro, su ciò che possiamo essere e fare.

La metodologia del consorzio Aaster, diretto da Aldo Bonomi, ci è sembrata corrispondere esattamente a questa nostra esigenza, in quanto è finalizzata non solo a rappresentare la realtà, ma a metterla in movimento, a innescare un percorso che è insieme di ricerca e di azione. Ricordo un precedente: la ricerca del 1990, promossa dalla CGIL della Lombardia, sul nascente fenomeno leghista, allora largamente sottovalutato e travisato. Con questo lavoro le strutture della CGIL hanno cominciato seriamente a misurarsi con il grande mutamento di scenario politico che stava attraversando la nostra realtà regionale. Con Bonomi, quindi, riprendiamo oggi un discorso che ha radici lontane: un discorso sulla società che cambia, sulle sue mutazioni culturali, sui percorsi spesso imprevisti lungo i quali si snoda la storia della soggettività sociale.

Il particolare osservatorio dei pensionati e degli anziani, che ci ha guidato in questo ultimo lavoro, non ha affatto un carattere settoriale, ma getta una luce sullo stato generale della società italiana, se non altro per il crescente peso quantitativo che gli anziani hanno nella nostra realtà, per il fatto quindi che il processo di invecchiamento sociale è un dato di fondo, strutturale, che influenza e condiziona l’intera organizzazione sociale. L’invecchiamento, in altri termini, è il problema centrale su cui ricalibrare l’insieme delle politiche sociali, e qualunque scelta politica in questo campo deve fare i conti con le percezioni soggettive e con i comportamenti delle persone. È per questo molto importante, nel lavoro della ricerca, l’elemento attivo, il fatto cioè che le persone coinvolte sono chiamate a interrogarsi sulla loro situazione e su ciò che è possibile fare per affrontarla. Quasi 10 mila pensionati hanno risposto al questionario.

Al di là del valore conoscitivo che viene da queste risposte, c’è il fatto che queste persone hanno cercato di analizzare e di interpretare le loro condizioni di vita. Non è un dato secondario. E ancora di più questo processo attivo di riflessione e di intervento sulla realtà emerge dai 15 focus group che si sono tenuti nei diversi territori della Lombardia, con una larga partecipazione di operatori sociali e istituzionali. Il prodotto che ci viene consegnato, alla fine di questo percorso, ha quindi il significato di un materiale di lavoro, dal quale estrarre nuove indicazioni di intervento, nuove proposte operative. La ricerca raggiunge il suo scopo solo nel momento in cui cerchiamo di tradurla in un piano di azione.

C’è una premessa importante, che è messa bene in evidenza nel rapporto di ricerca: “la condizione degli anziani come evidenziatore dei fenomeni, come lente di ingrandimento di una condizione esistenziale che riguarda tutti.” Non c’è solo il dato quantitativo, il peso crescente degli anziani negli equilibri complessivi della società, ma c’è, ed è l’aspetto più importante, il rilievo qualitativo del problema, in quanto la condizione degli anziani ci svela il meccanismo sociale nelle sue contraddizioni e nei suoi punti critici. Se la società non riesce ad accogliere in sé l’invecchiamento, se crea per gli anziani una condizione di emarginazione e di solitudine, ciò significa che la complessiva qualità della vita si trova ad essere, per tutti, in uno stato di sofferenza. La persona anziana, proprio in quanto non è più dominata dai meccanismi della competizione e del successo, sviluppa una più acuta sensibilità per tutti gli aspetti qualitativi e relazionali, e il suo punto di osservazione diviene un efficace metro di misura su cui valutare la qualità della convivenza civile. Ora, sta proprio qui, nel sistema delle relazioni umane, il principale deficit delle nostre società attuali. Ripensare la città, riprogettarne le forme e gli spazi, tenendo conto della popolazione anziana, dei suoi ritmi di vita e della sua domanda di socializzazione, significa semplicemente riorganizzare la città mettendo al centro la persona umana. Una società accogliente per i vecchi è una società accogliente per tutti.

Una città che si possa vivere, e che non sia solo una rete impersonale che fa da supporto alle attività economiche: è questa la domanda. Nelle risposte al questionario i tre aspetti maggiormente avvertiti come fattori che incidono in negativo sulla qualità della vita hanno tutti a che fare con il problema degli spazi urbani: l’aumento del traffico, il degrado urbano, la riduzione del verde. II meccanismo che regola lo sviluppo delle nostre città ha questo effetto perverso, di ridurre gli spazi vitali, dell’incontro, della socializzazione, del gioco, del camminare senza meta. È la sfera dell’utile che schiaccia quella del superfluo. Ma si potrebbe obiettare, con Oscar Wilde: toglieteci tutto, ma non il superfluo.

Da questo punto di vista, c’è un’alleanza tra i vecchi e i giovanissimi, perché per entrambi l’utile non può essere l’unico criterio, e la vita deve essere anche attività disinteressata, gioco, tempo perso.

Partendo da questo spunto, dal rapporto dell’utile e del superfluo, potremmo affrontare un discorso molto più complesso sulla società moderna, sulla sua organizzazione, sulla gerarchia dei valori da cui è regolata. Ciò che, per ora, mi sembra importante sottolineare è che l’analisi della società dal punto di vista degli anziani ha un valore di carattere generale. Il sindacato dei pensionati, quindi, ha una grande forza potenziale, perché ciò di cui si occupa non è un segmento particolare, ma è la qualità complessiva dell’organizzazione sociale.

Trova qui un fondamento quello che chiamiamo, nel linguaggio sindacale, il carattere “confederale” della nostra organizzazione, il suo essere cioè proiettata su una dimensione generale, orizzontale, che va oltre il particolarismo dei singoli segmenti produttivi. L’universo sociale degli anziani contiene in sé tutti i problemi della società: non è un settore, ma è un orizzonte che riguarda tutti, una dimensione della vita nella quale siamo inevitabilmente implicati, perché ciascuno di noi deve pur fare i conti con il processo di invecchiamento che accompagna la sua esperienza. Alla base della forza organizzata del sindacato dei pensionati c’è dunque una ragione di fondo, perché esso si presenta, almeno potenzialmente, come un’organizzazione a forte densità culturale, che mette in gioco non solo l’aspetto strettamente economico, ma quello che si riferisce all’identità sociale, nella sua accezione più larga.

Credo che questa “confederalità” debba essere pienamente assunta e dichiarata, perché sta qui il fondamento della nostra forza espansiva. In questo senso ho parlato, in alcune occasioni, della nostra organizzazione come di un “sindacato di popolo”, cercando di esprimere, con questa formula, non tanto il suo carattere di massa, ma piuttosto il fatto che essa è investita da una domanda sociale che non è soltanto economica, ma è una domanda di identità, di senso, di partecipazione popolare, di socializzazione. È un’esperienza nuova, che supera i confini tradizionali del sindacalismo di classe.

Già oggi, nell’esperienza concreta, vediamo che la rete sociale che presidia il territorio, che contratta le politiche sociali, che dà forma ai diritti di cittadinanza, si regge in misura prevalente sull’organizzazione dei pensionati. In questo c’è anche un elemento di distorsione, perché ci sono aspetti politici essenziali, di carattere strategico, che le confederazioni dovrebbero saper tenere nelle proprie mani. Ma questa distorsione, questo sbilanciamento, da cui risulta un sovraccarico di responsabilità politiche affidate, per delega non dichiarata, all’organizzazione dei pensionati, non si supera con misure burocratiche, fissando in astratto i confini delle rispettive competenze, ma affrontando di petto il problema di una strategia complessiva del sindacato, che ci metta davvero nelle condizioni di svolgere nel territorio una funzione negoziale e di costruire, in autonomia, una pratica di concertazione sociale. Questo richiederà una profonda innovazione, delle strategie e dei modelli organizzativi, di cui per ora non si vedono le tracce. Assistiamo a questo paradosso: che l’organizzazione dei pensionati ha saputo essere più innovativa e più moderna, più attenta al territorio, più aderente ai processi reali, senza restare invischiata in una vecchia cultura centralistica. La nostra forza organizzata trova qui il suo alimento principale: non è solo l’effetto di una identificazione politica e ideologica, trainata dalle confederazioni, ma è il risultato di una presenza reale nel territorio.

C’è un dato molto interessante: oltre un quarto di quanti hanno risposto al questionario non erano precedentemente iscritti al sindacato, e questa percentuale diviene particolarmente elevata (oltre il 40%) per le donne. II sindacato dei pensionati ha quindi intercettato e rappresentato domande nuove. Ha conquistato un suo nuovo spazio di rappresentanza, superando i confini della vecchia sindacalizzazione. Dove i pensionati restano legati alla loro categoria di provenienza, come in Germania e in molti altri paesi europei, si perde questa potenzialità. Il pensionato, in questo caso, è solo un ex-lavoratore, legato per forza di inerzia alla sua storia passata, inserito a forza in un organizzazione che lo esclude da tutte le decisioni più impegnative. La scelta fatta in Italia ha ribaltato la situazione: ha consegnato ai pensionati e agli anziani un protagonismo sociale, per ciò che sono oggi e non per la loro storia lavorativa passata, e ciò ha determinato una grande forza di attrazione anche in direzioni nuove, verso strati non tradizionalmente sindacalizzati, che si riconoscono non in una ideologia, ma in un progetto di lavoro.

Ma come si presenta, in termini più analitici, questo universo sociale, come si configurano concretamente i bisogni, le paure, le aspettative? L’ipotesi da cui siamo partiti è che nell’attuale società, attraversata da un tumultuoso processo di trasformazione e regolata secondo il ritmo di una sempre più spinta competizione individuale, il mondo degli anziani sia esposto al rischio di uno spiazzamento, e sia perciò portato a chiudersi, a reagire con una strategia di arroccamento difensivo, cogliendo del cambiamento sociale soltanto gli elementi di minaccia, di rottura degli equilibri conosciuti. Per questo abbiamo deciso di mettere sotto osservazione le paure, ovvero gli elementi di rifiuto, di incomprensione, di disagio, i quali finiscono per determinare una situazione di isolamento. Analizzare le paure, le fragilità dell’anziano di fronte al cambiamento, i suoi riflessi condizionati di tipo conservatore, e cercare di approntare una strategia che sia in grado di rovesciare questa tendenza: questo era il tema che ci siamo proposti di mettere a fuoco. La ricerca conferma questa rappresentazione? A mio giudizio, solo parzialmente, e per alcuni aspetti dobbiamo cercare di affinare le nostre valutazioni.

Certo, lo scenario di fondo resta contrassegnato da una forte criticità. La società moderna allunga la vita, ma nello stesso tempo la rende più problematica, perché l’invecchiamento è sempre più una esperienza individuale, senza l’ombrello protettivo-autoritario della comunità. Ne abbiamo parlato recentemente, in un convegno che esplicitamente cercava di analizzare le nuove forme, sociali ed esistenziali, dell’invecchiamento, con l’ambizione di riscrivere un “de senectute” per il nostro tempo. Lo stesso tema è affrontato nel rapporto di ricerca, facendo ricorso alla dialettica di sicurezza e libertà. Nelle società tradizionali l’individuo non aveva grandi margini di autonomia, ma si trovava garantito nel suo essere sociale da una stabilità dei rapporti. In altri termini, era la comunità, con le sue regole, a prevalere sulla soggettività individuale. Ora, questa relazione si è rovesciata: la sfera della libertà si è ampliata, offrendo un largo ventaglio di possibili opzioni, di possibili scelte di vita, ma in questo cammino il singolo deve avventurarsi da solo, senza una rete protettiva, senza garanzie. Alla crescita della libertà si accompagna perciò un senso profondo di insicurezza e di inquietudine.

Siamo entrati nella società dell’incertezza. E allora, in questa nuova situazione, il vero discrimine è tra chi possiede gli strumenti per tenere l’incertezza sotto controllo e chi non li possiede. Per il primo si aprono spazi di creatività, mentre il secondo finisce per essere irretito in una trama esistenziale in cui domina il sentimento della paura. Che questo tipo di dialettica sia vissuto con maggiore sofferenza dagli anziani è abbastanza facilmente intuibile. In un mondo di incertezza, di indeterminatezza, nel quale ci si deve orientare con le proprie forze e nel quale si convive con il rischio di essere messi fuori gioco, la persona anziana rappresenta il punto più debole, perché le sue categorie interpretative, i suoi modelli, il suo bagaglio di esperienze, risultano spesso inutilizzabili. Ed è assai difficile, ad un certo stadio della propria vita, avere la elasticità necessaria per cambiare la propria forma mentis.

Con la ricerca, ci siamo proposti di analizzare questo problema e di vederlo più a fondo in tutte le sue connessioni. Il quadro che ne esce modifica in parte lo schema di partenza, perché ciò che appare prevalente non è l’intreccio di paura e solitudine, ma è piuttosto l’elemento della “passività”, il fatto cioè di subire i processi, di seguire una strategia più di adattamento che di rifiuto. Insomma, se la società è complessa e difficile, ci si ritira in quella ristretta cerchia relazionale che è più immediatamente alla nostra portata. Di fronte al rischio, ci si ritrae.

Prendiamo alcuni dati: 1’88% non svolge nessun lavoro remunerato dopo la pensione, il 69% non svolge nessuna attività sociale, l’interesse per la politica riguarda solo una modesta minoranza, le relazioni sembrano essere limitate alla cerchia familiare o a qualche gruppo ristretto di amici. In una condizione di passività è naturale che la televisione, che istituisce un rapporto di dipendenza passiva, occupi un largo spazio nella vita quotidiana delle persone; mentre solo il 15% ha un minimo di familiarità con la rete internet, la quale implica una autonoma capacità di iniziativa. Teniamo conto che qui si tratta di iscritti allo SPI, e si può quindi presumere che il dato generale, misurato sull’intero universo dei pensionati, ci presenti un quadro di passività ancora più accentuato.

In ogni caso, c’è una maggioranza assoluta di persone che non hanno saputo o voluto costruire nessuna rete sociale che le faccia uscire dalla sfera della loro vita privata. Fa eccezione il rapporto con il sindacato, ma trattandosi di una ricerca condotta tra gli iscritti allo SPI questo è un dato abbastanza fisiologico.

L’altro aspetto notevole è che la percezione della propria condizione non ha, in generale, tinte particolarmente drammatiche. L’anzianità viene considerata dai più come una fase della vita che non ha segnato una rottura, più come un momento di continuità che di cambiamento. Colpisce, in particolare, lo scarso rilievo che viene assegnato ai problemi di carattere economico: solo il 13% segnala una situazione di seria difficoltà. E le percentuali sono le stesse anche per quanto riguarda lo stato di salute.

Ciò che prevale quindi è un atteggiamento di relativa serenità: l’invecchiamento è lo snodarsi della propria vita senza rotture e senza angosce. Anche questo dato, naturalmente, va relativizzato, tenendo conto della composizione del campione. È evidente infatti che l’area di più acuto disagio e sofferenza, per ragioni economiche o di salute, è stata solo debolmente intercettata. Chi si trova ormai messo alle corde nella dura competizione della vita trova probabilmente che sia inutile occuparsi di questionari e di ricerche sociologiche. E, sul versante opposto, c’è una fascia di benessere e di vita agiata, che si tiene alla larga da qualsiasi iniziativa sindacale. Noi qui ci occupiamo quindi di una situazione media, e dobbiamo aver sempre presente questa parzialità della ricerca e sapere che c’è un pezzo di realtà che essa non è in grado di rappresentare.

Passività e serenità, sono i due elementi fin qui emersi, i quali configurano un processo di adattamento. L’invecchiamento appare così come un ritrarsi entro il perimetro ristretto delle cose conosciute e delle relazioni consolidate, seguendo il ritmo lento della consuetudine. Nella dialettica di communitas e immunitas, che è l’oggetto della ricerca filosofica di Roberto Esposito, prevale l’immunizzazione, il mettersi al riparo, il tenersi lontano dalle turbolenze della comunità. C’è qui una sottile linea di confine, che non è facile afferrare, tra la saggezza del distacco, del prendere congedo dagli impulsi competitivi, e la stanchezza di chi vive con rassegnazione il proprio declino, lasciandosi guidare dalla forza di inerzia. La saggezza è il distacco di chi sperimenta una nuova identità e si rimette in gioco, riattivando, in una nuova prospettiva, le sue energie vitali. Nella passività, invece, c’è ripetizione, routine, opacità del vissuto quotidiano. E questo mi sembra essere il pericolo principale che incombe sulla nostra vita.

Penso però che questa tendenza passiva sia l’effetto di un condizionamento sociale esterno, di una situazione bloccata, nella quale mancano gli stimoli e le occasioni per un investimento sul proprio futuro. Tutta la nostra esperienza ci dimostra che quando queste occasioni vengono create la passività viene rotta e viene alla luce una grande disponibilità a rimettersi in movimento e a percorrere nuove strade. La passività non è un destino, ma è la reazione difensiva di fronte a una società che tende a confinare il mondo degli anziani nel capitolo dell’assistenza, ovvero della sopravvivenza.

Ne viene una indicazione importante per il sindacato dei pensionati, che può mettere in campo una strategia di azione per ribaltare questa condizione di passività. È il tema della socializzazione, della costruzione cioè di una rete sociale allargata nella quale sia possibile per gli anziani costruire un proprio progetto di vita più ricco e più creativo. In questo capitolo rientrano molti possibili filoni di lavoro: l’iniziativa culturale, lo svago, i viaggi, la formazione, la comunicazione. Si tratta di promuovere tutte quelle attività che siano capaci di aumentare il “capitale sociale”, di allargare le relazioni, le conoscenze, di fornire gli strumenti necessari per sapersi muovere con autonomia nella società che cambia.

Accanto ai due settori già consolidati, dell’attività di servizio e della negoziazione sociale, questa attività di socializzazione può essere, in prospettiva, uno dei punti di forza del nostro lavoro, in quanto si risponde non solo al bisogno economico e di tutela, ma ad una domanda più generale che riguarda la struttura e il senso della vita. Se i dati della ricerca sono attendibili, sta proprio qui il vuoto da colmare, il vuoto di una condizione di vita che rischia di spegnersi in una stanca quotidianità ripetitiva.

Prendiamo in esame alcuni esempi. II primo riguarda l’accesso alle nuove tecnologie informatiche, che stanno diventando il mezzo principale che regola il flusso delle relazioni, delle informazioni, delle conoscenze. Essere esclusi da questa rete vuoi dire trovarsi in una condizione di semi-analfabetismo, non possedere il linguaggio nel quale si esprime oggi l’evoluzione sociale. E abbiamo visto che è questa la situazione per la grande maggioranza dei pensionati. È possibile organizzare una grande campagna di alfabetizzazione, per rovesciare questa situazione di esclusione? È possibile lavorare ad una rete che via via includa e metta tra loro in comunicazione sedi sindacali, associazioni, singoli pensionati, che vogliono essere messi in grado di conoscere e di partecipare? La rete informatica può così divenire uno strumento attivo di socializzazione.

Secondo esempio: i rapporti intergenerazionali, di cui si è molto parlato anche nei focus group. La possibilità di entrare in comunicazione con i giovani, con il loro mondo di rappresentazioni e di sentimenti, è di straordinaria importanza, per evitare che l’invecchiamento sia la chiusura in un ghetto, nel quale gli anziani si ritrovano in un comune atteggiamento di incomprensione e di ostilità verso il nuovo. II rapporto con i giovani fallisce se è impostato in termini paternalistici, retorici, come la trasmissione gerarchica di un patrimonio di verità e di saggezza. Può funzionare solo se in questo rapporto ciascuno si mette in gioco e ciascuno impara dall’altro. Abbiamo visto, parlando della città e dei suoi spazi, che giovani e anziani si possono incontrare, perché hanno in comune un senso non utilitario della vita. Ma, per ora, si tratta di un campo assai poco esplorato, e i luoghi di incontro tra le generazioni sono quasi inesistenti.

Potremmo cominciare dall’interno del sindacato, affrontando il nodo cruciale della rappresentanza del lavoro giovanile, impegnandoci cioè in un grande progetto politico-organizzativo che investa sui giovani, e chiedendo al sindacato dei pensionati di mettere a disposizione la sua esperienza e le sue risorse. Si può creare così un terreno fecondo di collaborazione. Mi piacerebbe vedere nella CGIL una forza giovanile organizzata, con la quale poter discutere, alla pari, di pensioni, di welfare, di concertazione sociale, di mercato del lavoro. E mi piacerebbe che i giovani trovassero nello SPI l’interlocutore più sensibile alle loro esigenze. Perché non provarci?

Credo che potremmo trovare tra i nostri iscritti una grande disponibilità. L’ultima domanda del questionario, che riguarda proprio il rapporto con i giovani, ci offre un’indicazione un po’ ambigua, perché la maggioranza se la cava dicendo che non c’è contraddizione tra difesa degli anziani e promozione del futuro dei giovani. Ma non c’è indifferenza, o chiusura, e solo un’infima minoranza ritiene che il sindacato dei pensionati non si debba occupare della questione giovanile.

C’è un altro possibile modello: quello suggerito dalla giunta regionale di Formigoni con la celebrazione della figura del “nonno”, a cui è dedicata la giornata del 2 ottobre. Il rischio, in questo caso, è quello di ridurre il rapporto giovani-anziani nella sola sfera familiare, e ciò proprio nel momento in cui la famiglia è una istituzione incerta, e non è più un microcosmo, una cellula nella quale si rispecchia tutta la complessità sociale. Ovviamente, nessuno può avere nulla da obiettare se si organizzano iniziative utili per i nonni. Ma l’obiezione politica c’è, ed è di sostanza, se si vuol dire che il luogo primario della socializzazione è la famiglia, che valorizzare la famiglia significa di per sé garantire la stabilizzazione e la coesione sociale, perché i fattori di crisi, di conflitto, e anche di violenza, sono in larga misura fattori interni alla sfera familiare. E soprattutto l’anziano non è solo l’assistente domestico, la figura bonaria che supplisce i genitori nella cura dei figli (si è scelto il 2 ottobre perché è la festa dell’angelo custode!), ma è una persona che deve poter intervenire nella vita sociale, che ha la sua parola da dire nella polis, in un confronto aperto con le altre generazioni. A Formigoni possiamo quindi rispondere con un progetto più ambizioso: quello dell’incontro e del dialogo tra giovani e anziani, come elemento costitutivo della comunità democratica.

Si può aggiungere un terzo tema: l’esperienza dei centri o dei circoli degli anziani. Come sono impostati? Come una sorta di ghetto, in cui ci si intristisce cercando in qualche modo di ammazzare il tempo, o come centri di iniziativa in cui gli anziani possono davvero fare delle nuove esperienze? Sarebbe utile fare un censimento, ma temo che la situazione attuale presenti più ombre che luci. Anche in questo campo sarebbe dunque bene fare proposte e avviare qualche sperimentazione, seguendo il criterio che abbiamo già indicato: l’anziano come soggetto attivo della vita sociale, in tutti i suoi aspetti.

Dialogo con i giovani e cittadinanza attiva: da qui passa l’incontro con la modernità, con il cambiamento. E questo è il passaggio critico decisivo nella fase dell’invecchiamento, per non essere sospinti all’indietro, per non arroccarsi in una posizione solo difensiva. È decisivo, cioè, saper regolare la dialettica tra passato e futuro, tra memoria e progetto. La vecchiaia, è vero, è il luogo della memoria, è il deposito di una storia, di una tradizione, e di questo archivio della memoria abbiamo tutti bisogno, sia individualmente che socialmente, per saper misurare il cammino compiuto, per capire di quali risorse disponiamo per progettare il nostro futuro. La memoria è una funzione necessaria, ma dobbiamo evitare di essere schiacciati dal suo peso. L’anziano, che è il tramite della memoria sociale, deve saperla coltivare, ma deve anche saperla oltrepassare. Quando il passato, con il suo peso, impedisce di capire il nuovo e di agire nel cambiamento sociale, allora la vecchiaia si configura come una disfatta. Non c’è più vita, ma c’è solo nostalgia e risentimento.

Ora, che cosa ci rivela, sotto questo profilo, la ricerca? Come si configura questo rapporto tra passato e futuro? È questa una domanda di difficile soluzione, e i dati della ricerca non ci forniscono una chiave interpretativa evidente. La maggiore preoccupazione per il futuro riguarda la propria autonomia fisica, e ciò è del tutto comprensibile, perché questo rischio sta nell’ordine della natura. Ma non mi sembra di poter rintracciare, in generale, un atteggiamento proiettato solo sul passato, di tipo nostalgico.

Ad esempio, nella domanda sui fattori di insicurezza e di paura, si poteva temere una più forte insofferenza verso il fenomeno dell’immigrazione, che da più parti è stato indicato come la fonte primaria del deterioramento del tessuto civile delle nostre comunità. Nella gerarchia delle paure, l’immigrazione è solo al 4° posto, con una percentuale inferiore al 20%. In generale c’è una relazione stretta tra xenofobia e conservatorismo, tra rifiuto del diverso e culto della tradizione. Ora, questo tipo di relazione si manifesta, ma in una misura relativamente contenuta; e siamo in Lombardia, nell’epicentro dell’offensiva ideologica leghista. Forse, l’interpretazione più attendibile è che il futuro sia vissuto come una fonte di incertezza e di inquietudine, ma anche con l’attesa di qualcosa di nuovo che possa migliorare le nostre condizioni di vita.

Al sindacato, ad esempio, si chiede fedeltà ai suoi valori tradizionali, ma anche, nella stessa misura, capacità di innovazione, di miglioramento dei servizi, di contrattazione locale, di socializzazione. Non c’è solo il rispecchiarsi nel passato, ma c’è una interrogazione aperta sulla possibilità di nuovi strumenti, di nuove iniziative. Su questo atteggiamento di incerta attesa e di speranza possiamo far leva, per impostare una linea innovativa, la quale avrà però bisogno, per potersi davvero realizzare, di un consenso attivo, di una partecipazione consapevole. In ultima istanza, la forza del sindacato è solo quella che può essere prodotta dall’azione collettiva dei suoi associati. E torniamo così al punto centrale: superare la passività, e mettere in moto un processo sociale. La ricerca ci dice che è un compito difficile, ma possibile.

Con quali mezzi, con quale strumentazione politica?

Nei focus group c’è stata una discussione assai interessante, che si è concentrata intorno alla necessità di “fare sistema”, di far interagire, lungo determinati obiettivi condivisi, le diverse competenze, con una pratica di concertazione e di collaborazione tra i diversi soggetti: sindacato, terzo settore, istituzioni locali, centri di ricerca. Mi sembra un’indicazione del tutto giusta. II metodo della ricerca-azione ha già dato qui i suoi primi frutti, perché si sono costruite nuove relazioni e si è verificata una larga disponibilità per un lavoro in comune. Nelle diverse aree della Lombardia organizzeremo, a ricerca conclusa, una seconda tornata di incontri, con tutti i protagonisti dei focus group, per consolidare questo primo risultato e per cominciare a definire alcune ipotesi di lavoro. Il sindacato è forte se sono forti le sue relazioni, le sue alleanze. E naturalmente è decisivo consolidare l’unità sindacale. Non sono concetti nuovi. È stata questa la fondamentale linea ispiratrice dello SPI, in tutti questi anni, e questo ci ha consentito di sperimentare largamente nel territorio una politica di concertazione sociale.

Rispetto a questa nostra esperienza già consolidata, mi sembra che si possano indicare due possibili linee di sviluppo. In primo luogo, il sindacato dei pensionati può stabilire direttamente dei rapporti di collaborazione con tutta la realtà del volontariato, dell’associazionismo, della cooperazione sociale, del movimento dei consumatori, e non delegare solo all’Auser questo tipo di impegno. Tutta la nuova architettura delle politiche di welfare richiede infatti una pluralità di soggetti e di interventi, superando l’unilateralità di un approccio solo amministrativo, o solo assistenziale.

Come mette in evidenza il rapporto di ricerca, “i servizi di relazione, cioè i servizi orientati a produrre socialità, sono i servizi che si qualificano per la loro capacità di innovare il sistema di welfare”. E in questo lavoro di riprogettazione del welfare si sposta la frontiera tra il pubblico e il privato, in quanto al pubblico competono funzioni di regolazione complessiva del sistema, mentre c’è tutta una rete associativa privata che si può far carico della realizzazione concreta dei progetti, di quel “lavoro di relazione” al quale difficilmente si adattano le tradizionali strutture amministrative.

È questo, appunto, il significato del principio di sussidiarietà. Il sindacato, in altri termini, deve muoversi all’interno di una strategia istituzionale che prenda sul serio l’opzione del federalismo, dell’autogoverno locale, della partecipazione dal basso.

Il modello istituzionale vincente sarà infine quello che risulterà dai comportamenti concreti dei soggetti sociali. Non ci possiamo attendere nessuna riforma significativa che sia calata dall’alto. E infatti quello che il sistema politico sta producendo, nonostante tutta la retorica federalista, è solo un progetto di concentrazione del potere, di verticalizzazione, di svuotamento delle autonomie sociali. Federalismo, sussidiarietà, concertazione, possono camminare solo se ci sono le forze sociali che nel territorio lavorano per costruire un nuovo tessuto di relazioni, se queste stesse forze si appropriano di una funzione di governo. Ed è in questo quadro che il sindacato può conquistare un nuovo spazio negoziale e può costruire una più forte capacità rappresentativa. Qui sta il fondamento dell’alleanza, della collaborazione con altri soggetti, della “coalizione” territoriale che si può costruire.

Il secondo spunto di riflessione riguarda l’articolazione del potere, la configurazione concreta che assume oggi il processo decisionale. Nella nostra rappresentazione prevale ancora l’idea che sia la struttura politica la depositaria del potere, e di conseguenza tutta la nostra attività contrattuale si rivolge quasi esclusivamente agli interlocutori istituzionali, dal governo nazionale all’ente locale. Ma nella realtà i processi reali stanno seguendo dei percorsi assai più tortuosi, e il modello classico della democrazia politica è spesso solo uno schema astratto che non riesce più ad includere in sé la concretezza della realtà, dei rapporti di potere, della dinamica delle forze in campo. Gli stessi governi nazionali agiscono in un quadro di sovranità limitata, dentro i vincoli che sono imposti dalle grandi agenzie internazionali che regolano il mercato globale. E nei sistemi locali, accanto alle assemblee elettive, agiscono molteplici centri di decisione: fondazioni bancarie, istituti di credito, camere di commercio, università, autonomie funzionali di vario tipo, senza dimenticare il peso che hanno i grandi mezzi di informazione.

È il fenomeno che Mauro Calise ha definito come la “costituzione silenziosa”, intendendo con ciò una mutazione non dichiarata delle forme della democrazia politica e un processo di progressiva espropriazione dei poteri politici tradizionali. Ciò solleva un problema di fondo circa il destino delle nostre democrazie. Ma non è di questo che possiamo qui discutere. Resta il fatto che l’azione sindacale deve rapportarsi ai poteri reali, e deve quindi tener conto della nuova morfologia del potere, senza restare inchiodata ad un modello di democrazia politica che è stato largamente surclassato dalla realtà in movimento.

Ora, la nostra attività negoziale non riesce ad incrociare, in generale, i nuovi poteri. È un nodo da affrontare. Ad esempio, come posiamo occuparci del risparmio, dei mutui per la casa, senza un tavolo di confronto con gli istituti di credito? O come ignorare il ruolo che hanno le fondazioni bancarie nelle politiche di sviluppo e anche nella progettazione del welfare locale? È così, analogamente, occuparsi di sanità, o di istruzione e politiche educative, non vuoi dire solo occuparsi delle leggi, nazionali e regionali, ma di come esse vengono concretamente tradotte ed implementate nelle grandi strutture, nel quadro di una loro crescente autonomia gestionale. Se, ad esempio, ci proponiamo di abbattere i tempi di attesa per le visite ospedaliere, è assai probabile che l’interlocutore più appropriato non sia l’assessorato regionale. A questo proposito, si parla nel rapporto di ricerca di “meta-organizzazione”, ovvero di un’azione che cerca di creare le condizioni di contesto più favorevoli per il raggiungimento di determinati obbiettivi, interagendo con altri soggetti o istituzioni e cercando di influenzarne i comportamenti. Si può anche dire, ricorrendo al linguaggio più tradizionale della teoria politica, che il sindacato dei pensionati può svolgere una funzione di mediazione sociale, cercando di mettere tra loro in una comunicazione positiva gli interessi che il sindacato rappresenta e le strategie operative di enti e istituzioni che operano in diversi campi. Trattandosi di una grande organizzazione di massa, con un suo insediamento capillare nel territorio, si possono determinare in molti casi convenienze reciproche, in una logica non conflittuale ma cooperativa.

Abbiamo indicato diverse piste possibili per il nostro lavoro, tutte da discutere e approfondire. In tutti questi casi il sindacato cerca di rispondere ad una domanda sociale reale e di trovare il varco per conseguire dei risultati. È questo un lavoro che si può fare proficuamente solo sulla base di un’acquisizione forte dell’autonomia del sindacato rispetto al sistema politico. La politica ha altre modalità, altri tempi, altre logiche. Un sindacato politicizzato è destinato a fallire nella sua missione essenziale. Noi dobbiamo cercare, in tutte le situazioni, in tutti i contesti politici, le vie praticabili per migliorare la qualità sociale della vita di quelli che vogliamo rappresentare, prescindendo dalle loro appartenenze o fedi politiche. In una società che tende a bipolarizzarsi, a schierarsi in due campi contrapposti, il sindacato deve evitare di diventare il braccio armato al servizio di un progetto politico, perché ne va della sua credibilità come istituzione sociale che opera esclusivamente al servizio delle persone, dei loro bisogni e delle loro domande.

La politica, abbiamo visto, non è la dimensione principale in cui i pensionati inquadrano la loro vita, e non sono prevalentemente politiche le motivazioni dell’adesione al sindacato. In questa tendenziale spoliticizzazione ci sono, è evidente, alcune insidie molto gravi. Ciò che possiamo fare è creare un tessuto partecipativo nel quale maturino le condizioni per l’esercizio autonomo della responsabilità da parte di ciascuno. L’esistenza di un sindacato forte e rappresentativo aiuta la democrazia, aiuta la politica, aiuta cioè le persone a prendere coscienza della loro situazione reale. Ma il nostro compito non va oltre, non deve andare oltre. A queste persone, rese attive e coscienti, sta alla politica fornire un progetto, un orizzonte, una motivazione di impegno. Noi auspichiamo che questo avvenga. Ma il piano della rappresentanza sociale non si identifica mai con quello della scelta politica. La ricerca ci consegna un quadro sociale ed esistenziale assai complesso, fatto di persone concrete, con le loro paure e le loro attese, che vanno accompagnate e tutelate nella loro esperienza. C’è qui un grande lavoro di scavo, per far venire alla luce questa realtà sociale e per riuscire a rappresentarla. L’azione sindacale è questo lavoro sistematico di ricognizione e di organizzazione, dall’interno dei flussi sociali, in un processo che segue sempre da vicino il ritmo reale dell’esperienza delle persone. L’autonomia, quindi, per il sindacato fa tutt’uno con la capacità di non perdere mai di vista la peculiarità insostituibile della sua funzione di rappresentanza.



Numero progressivo: E47
Busta: 5
Estremi cronologici: 2004, 8 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza pressoché identica al testo a stampa (V47)
Pubblicazione: “Tenersi per mano nella società dell'incertezza”, “Nuovi Argomenti SPI”, n.8, 2004