PAURE E ASPETTATIVE DEGLI ANZIANI NELLA SOCIETÀ DELL’INCERTEZZA

Presentazione della ricerca SPI CGIL Lombardia e Consorzio Aaster
Atti del convegno - Milano, Camera del Lavoro, 1 dicembre 2004

Indice
Nota introduttiva
Il mondo degli anziani specchio della nostra società di Aldo Bonomi
Una rivoluzione culturale per superare il paradigma tecnico-scientifico di Massimo Cacciari
“Specializziamo” le politiche sociali generali di Gian Primo Cella
Per un nuovo welfare locale di Bruno Trentin
Gli anziani: leva per saggiare la giustizia delle nostre società di Marco Revelli
Non una politica “per gli anziani”, ma una politica dell’inclusione sociale di Riccardo Terzi

Non una politica “per gli anziani”, ma una politica dell’inclusione sociale
di Riccardo Terzi – Segretario generale SPI CGIL Lombardia

Una ricerca sociale, come quella che è stata realizzata sulle paure e sulle aspettative degli anziani, raggiunge il suo obiettivo se riesce a stimolare una discussione, un approfondimento, se apre la strada ad indagini ulteriori. Il suo valore non sta tanto nelle risposte che essa fornisce quanto nelle nuove domande che sa suscitare.

Da questo punto di vista, possiamo dire di aver centrato il bersaglio, perché a partire dalla ricerca sono venuti emergendo molti nodi problematici e la discussione si è via via allargata, investendo il nostro giudizio complessivo sulla società attuale, sulla sua interna dinamica e sulla sua possibile evoluzione. Se vogliamo analizzare in profondità la condizione sociale degli anziani ci troviamo necessariamente a parlare dell’intera società, del suo funzionamento, del suo destino.

Questo mi sembra essere il primo approdo teorico importante: la convinzione che tutti i problemi dell’invecchiamento affondano nella struttura profonda della società e possono essere affrontati solo con un approccio di carattere globale. Tutti i contributi che sono stati offerti alla nostra riflessione, con i loro diversi angoli di osservazione, avevano ben chiara questa premessa. Non stiamo discutendo di un segmento sociale periferico, marginale, ma di un nodo nevralgico sul quale si devono misurare le strategie politiche e le progettazioni circa il nostro futuro.

In discussione è il modello sociale, la possibilità o meno di rimodellare un sistema moderno di welfare, che sia capace di rappresentare la nuova composizione sociale e le nuove domande, i nuovi bisogni soggettivi delle persone. Ciò che rifiutiamo è un approccio al problema dell’invecchiamento che lo tratta come un capitolo particolare, settoriale, e che per questo finisce per produrre solo soluzioni di segregazione. Non serve una politica “per gli anziani”, ma una politica dell’inclusione sociale e della socializzazione, all‘interno della quale anche tutti i problemi dell’età matura potranno trovare una risposta, perché è la società intera che si organizza su una base di solidarietà e di rispetto per la dignità e per i diritti delle persone.

Gian Primo Cella ha ben chiarito questo punto, che è per noi alla base di tutta l’elaborazione del sindacato. È in questo senso che intendiamo il nostro lavoro, come sindacato dei pensionati, come un lavoro “confederale”, in quanto si occupa delle scelte politiche generali, dalle quali dipende la “forma” della struttura sociale. La grande intuizione che ha dato luogo a questa nostra straordinaria esperienza è stata quella di voler rappresentare i pensionati non come ex-lavoratori, come un mero prolungamento passivo delle loro precedenti esperienze lavorative, ma come persone che devono trovare un loro nuovo ruolo nella società e che per questo sono portatrici di una domanda politica di fondo, che riguarda la qualità della convivenza sociale.

Anche l’intervento di Massimo Cacciari giunge alla stessa conclusione: se volete davvero affrontare il problema dell’invecchiamento nella sua sostanza, con tutte le sue implicazioni culturali e antropologiche, non potete solo occuparvi dei dettagli, dei “rammendi”, in un’ottica solo difensiva, di contenimento, ma dovete alzare il tiro e avere la forza di proporre un diverso paradigma culturale. Se tutta la società è regolata in modo esclusivo secondo la logica della competizione e del successo, la vecchiaia rappresenta solo un peso fastidioso di cui liberarsi, rappresenta una condizione “di uscita”, che tutt’al più può essere alleviata da qualche intervento assistenziale. Ciò che domina è la volontà di potenza: la virtus che si è liberata della pietas.

In altri termini, la società competitiva è la società ritagliata sulla misura dei vincitori, e chi è tagliato fuori dalla competizione viene abbandonato al suo destino. L’invecchiamento, in questo contesto, è solo necessariamente un processo di emarginazione e di esclusione, è il momento della sconfitta, della perdita di ruolo sociale. Resta solo da decidere se c’è qualche margine economico per una politica assistenziale. È questo il “conservatorismo compassionevole” di Bush e dei suoi seguaci: per i vinti c’è solo un po’ di elemosina.

Le politiche di welfare, secondo questa impostazione, perdono la loro centralità e diventano del tutto accessorie, marginali. Questa è la tendenza che è stata imposta dal dogma neo-liberista e che caratterizza, in Italia ed altrove, la politica delle forze conservatrici e di destra, le quali spesso sono riuscite, proprio su questo terreno, ad affermare una loro egemonia e ad imporre la loro visione e il loro modello di società.

Ma in tutto ciò non c’è nulla di inevitabile, di oggettivo, perché dipende solo da scelte di carattere politico, le quali sono sempre per loro natura aperte a diverse possibili soluzioni. Cacciari ci ha parlato del paradigma tecnico-scientifico. A me sembra piuttosto che il paradigma predominante sia quello della società competitiva, nella quale tutto deve essere reso funzionale e flessibile, deve adattarsi ai ritmi vorticosi dell’innovazione, e tutte le aggregazioni stabili devono essere rese liquide per assecondare la variabilità e la turbolenza del mercato. Se non c’è nulla di stabile, anche i diritti perdono significato e diventano fluttuanti, affidati alla contingenza e ai rapporti di forza.

Questa situazione del nostro tempo è stata efficacemente interpretata dal grande sociologo Bauman, opportunamente richiamato da Marco Revelli, con la teoria della “modernità liquida”, nella quale il potere si è smaterializzato e disancorato dal territorio, e il dominio è di chi sa muoversi dentro i flussi dell’economia globale, li sa controllare e piegare alle sue convenienze. In questa generale fluidità delle relazioni si trova ad essere del tutto spiazzato chi resta ancorato al suolo delle tradizioni, delle appartenenze, delle comunità chiuse in se stesse, perché ormai tutte le decisioni vengono prese altrove. Sono saltati tutti i vincoli tradizionali di spazio e di tempo, si sono anch’essi estremamente dilatati e liquefatti, e la competizione viene giocata su scala globale all’interno di una ristretta oligarchia che ha il controllo delle informazioni e delle risorse.

Tutto questo è solo parzialmente il portato del progresso tecnico-scientifico, è piuttosto la conseguenza delle “forme politiche” che ha assunto il processo della globalizzazione, del modo in cui essa viene governata, dalla stessa ideologia che l’ha permeata. E allora, se questo è il quadro di riferimento, il grande tema che ci viene consegnato è quello della ricostruzione di una rete sociale che si è andata progressivamente sfaldando, lasciando le persone più deboli, e soprattutto gli anziani, in una condizione di solitudine e di impotenza.

È questo il dato fondamentale che emerge dalla ricerca: la domanda più pressante è una domanda di relazioni, di socialità, e sta qui il grande vuoto che deve essere colmato. Il mondo degli anziani si presenta oggi come un grande continente passivo, come un immenso deposito di energie non utilizzate, di potenzialità che non vengono raccolte. Più che la paura abbiamo incontrato, nella ricerca, la passività e la rassegnazione, il mettersi al riparo chiudendosi in una cerchia ristretta di consuetudini e di relazioni abituali, consolidate.

Al primo posto non sta il problema del reddito, ma la fragilità della rete sociale. Aldo Bonomi insiste giustamente su questo aspetto che ha anche per il sindacato importanti e complesse implicazioni. Che poi ci sia un rapporto assai stretto tra livello di reddito e capacità relazionale, e quindi tra povertà e solitudine, è del tutto evidente. Revelli ci ha dato un quadro preciso di questa relazione, del fatto cioè che invecchiamento, caduta delle relazioni e povertà procedono insieme e si alimentano reciprocamente. Non vengono quindi certamente meno tutte le rivendicazioni più strettamente sindacali che riguardano il livello delle pensioni e la difesa del loro potere d’acquisto.

Ma un approccio solo economicistico sarebbe del tutto riduttivo, e ci impedirebbe di cogliere tutta la complessità della condizione esistenziale degli anziani. Per questo, abbiamo cominciato già da tempo ad allargare il nostro orizzonte, a vedere l’invecchiamento come un grande tema filosofico, che chiama in causa il senso della nostra vita. La grande forza potenziale del sindacato dei pensionati dipende anche da questo, dalla capacità di offrire risposte alle domande più profonde che riguardano l’identità, il ruolo sociale, la realizzazione di sé. Dalla ricerca ricaviamo quindi questa indicazione fondamentale per il nostro lavoro: che nella nostra strategia sindacale dobbiamo affrontare tutto il tema della socializzazione, della costruzione di una rete sociale che offra a tutti nuove occasioni di impegno e di autonomia personale, spezzando le barriere della passività e della solitudine.

In questa prospettiva, tutto il discorso di Bruno Trentin è assai ricco di stimoli e di indicazioni, proprio perché mette al centro il tema della cittadinanza attiva, del rapporto con il lavoro, e ridefinisce su questa base le priorità dello stato sociale. È tutta l’architettura del welfare che deve essere ripensata e rielaborata, alla luce delle trasformazioni sociali e demografiche che hanno cambiato in profondità la nostra struttura sociale.

La crisi del welfare tradizionale, modellato su un’economia industriale di tipo fordista, è del tutto evidente. La destra risponde a questa crisi con una linea di destrutturazione del sistema sociale, di ridimensionamento dell’intervento pubblico e di precarizzazione dei diritti. È una linea politica da contrastare frontalmente. Come abbiamo già prima ricordato, la destra sostituisce al welfare una politica residuale di assistenza. E le vittime di questa impostazione sono innanzitutto le giovani generazioni, che vengono destinate ad un futuro di precarietà, senza protezioni sociali e con una prospettiva previdenziale gravemente compromessa.

Nella battaglia per una riqualificazione dello stato sociale si può saldare una nuova alleanza intergenerazionale. I giovani e gli anziani sono i capri espiatori dell’attuale modello competitivo: gli uni costretti a forme di lavoro servile, gli altri estromessi da qualsiasi ruolo sociale. Insieme, possiamo cercare di impostare un discorso sociale di tipo nuovo, che metta al centro, per tutti, la dignità del lavoro e i diritti. Credo che a questo obiettivo politico debba seriamente lavorare lo SPI CGIL, costruendo con il mondo giovanile e con le sue rappresentanze canali di comunicazione e di confronto, progetti e iniziative comuni.

Un nuovo modello sociale: è questo dunque il tema di fondo in cui alla fine confluiscono tutti i diversi aspetti del nostro discorso. Ma questo modello, per essere politicamente efficace, non deve essere costruito in astratto, come l’idealizzazione utopica di una società alternativa. Alla astrattezza dell’ideologia abbiamo già pagato nella nostra storia dei prezzi molto alti. Occorre seguire invece una via sperimentale, operando all’interno delle contraddizioni sociali, così come sono, e dando voce e rappresentanza ai soggetti che in queste contraddizioni vivono e lavorano.

In sostanza, un nuovo paradigma non nasce già confezionato, per via ideologica, ma si forma man mano con la tenacia di una pratica sociale prolungata e con la creatività di un genuino riformismo politico. Ora, nella società “liquida”, che dissolve i vecchi blocchi sociali e le rigidità del modello fordista, c’è uno spazio aperto anche per una azione riformatrice, proprio perché non c’è nulla di cristallizzato. La società può essere plasmata in diverse direzioni. Molto dipende dalla volontà politica e dalla nostra capacità progettuale.

Non è possibile, ad esempio, articolare in modo innovativo i tempi della vita, superando la rigida scansione di studio, lavoro e riposo? Oggi il ciclo della vita è spezzato in tre momenti tra loro separati. Ma questi diversi momenti, l’apprendimento, il lavoro e il tempo libero, possono attraversare, diversamente combinati, tutto l’arco della vita, e la pienezza della vita si trova sempre nel loro intreccio. Può essere questo un criterio che può guidare una complessiva riorganizzazione del welfare, con una visione che tiene insieme formazione, lavoro e sistema previdenziale. Ecco allora l’agenda politica: apprendimento scolastico che interagisca con l’esperienza lavorativa, formazione permanente, riduzione degli orari di lavoro e loro compatibilità con i bisogni vitali, uscita flessibile dal lavoro e sostegno ad un invecchiamento attivo.

La flessibilità, questa parola magica del nostro tempo, può avere diverse curvature, diverse applicazioni, e può divenire anche un modo per rispondere alle diverse esigenze soggettive delle persone, per avere un più largo ventaglio di scelte e di possibilità. Nella realtà attuale, tutte queste possibili occasioni sono bloccate, perché la struttura sociale si regge di fatto su una ristretta oligarchia. La libertà è per pochi, per chi ha gli strumenti e le conoscenze che gli consentono di tenere sotto controllo le incertezze. È un modello politico elitario, che esclude i più da una effettiva partecipazione alla cosa pubblica.

Il lavoro fondamentale da fare è quindi un lavoro di “inclusione”, sul piano sociale, politico, culturale, in modo che le nuove opportunità di scelta siano tendenzialmente aperte a tutti. In fondo, è proprio qui il fondamento del nostro ordinamento costituzionale, che si tratta ora di riattualizzare e di rendere efficace.

Abbiamo delineato un campo di lavoro molto ampio e impegnativo. Come attrezzare la nostra organizzazione a questi compiti, come ridefinire il profilo politico dello SPI e aggiornare i suoi strumenti di lavoro, è un problema tutto aperto, che ci dovrà vedere impegnati nei prossimi mesi. L’importante è che tutte le nostre strutture e i nostri gruppi dirigenti siano consapevoli della portata di questa discussione, e sappiano utilizzare i risultati della ricerca come occasione per ragionare su noi stessi e sul nostro lavoro e per sperimentare nuovi progetti e nuove iniziative. Per questo, organizzeremo in tutti i territori degli incontri di ritorno, sia per esaminare le specificità delle diverse aree della Lombardia, sia per consolidare il rapporto di collaborazione con i diversi soggetti sociali e istituzionali che hanno partecipato ai focus group e hanno contribuito alla realizzazione della ricerca. È quindi solo l’inizio di un lavoro. Ma se siamo riusciti almeno, per ora, a porci le domande giuste, ciò vuol dire che abbiamo già fatto un pezzo di strada importante.

 


Numero progressivo: V57
Busta: 66
Estremi cronologici: 2004, 1 dicembre
Autore: AA. VV.
Descrizione fisica: Volume, ill., b/n, 80 pp.
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Mimosa, Milano, 2005