C’ERA UNA VOLTA UN PAESE
Dibattito tra Riccardo Terzi, Biagio De Giovanni, Vincenzo Moretti e Rosario Strazzullo sul federalismo.
È da qualche giorno in libreria Come si rimette insieme una nazione (Edizioni Theoria) di Biagio De Giovanni, Riccardo Terzi, Vincenzo Moretti e Rosario Strazzullo. Questa che A&A propone è una parte della discussione sul federalismo.
Rosario Strazzullo […] Trovo assai interessante quest’ultima parte del discorso. In qualche modo a mio avviso essa ripropone molti problemi dello Sviluppo italiano, della crescita senza modernizzazione che ha caratterizzato il nostro Paese.
Abbiamo poche grandi imprese che realmente competono a livello internazionale mentre il vasto pianeta rappresentato dalle piccole imprese è stato per troppo tempo sottovalutato. Come avete ripetutamente sottolineato, il 1989 rappresenta uno spartiacque. Ma insisto. Tutto quanto ha preceduto questa data non è ininfluente sulle caratteristiche che assumerà la fase di ricostruzione, sul come si esce dalla transizione.
Questo è un Paese che non sta più insieme da molto prima dell’89. Se devo fare un paragone, penso al bellissimo film di Kusturica, Underground. C’era una volta un paese. La sensazione è che l’Italia sia una sorta di Iugoslavia non violenta, almeno per ora, in cui c’è un processo strisciante di rottura che le culture politiche, quelle tradizionali e quelle nuove, da tempo non sono più in grado di arginare.
Attorno a questo punto si potrebbe sviluppare ulteriormente il ragionamento, già altrove affrontato da De Giovanni, attorno al rapporto tra crisi del meridionalismo e crisi dell’unità nazionale.
Biagio De Giovanni La storia d’Italia è dominata dal dualismo Nord-Sud.
Non esiste un’altra questione meridionale con gli stessi tratti in nessun altro paese d’Europa. E soprattutto non è mai esistita, anche in quei Paesi in cui comunque ci sono differenziazioni e dualismi, una cultura politica come quella che in Italia ha dato vita, dall’unità nazionale in poi, al meridionalismo.
In Italia la vicenda nord sud ha assunto caratteri così forti e peculiari da condizionare il dibattito sull’unità nazionale dagli anni ‘60 dell’800 e le forme della discussione politica.
Strazzullo ha posto una questione importante. Che però non riassumerei nella forma drastica “non riusciamo a stare insieme” ma la collocherei nella sua dimensione storico politica, per capire quali sono nella storia d’Italia le ragioni che hanno fatto dell’Italia una nazione difficile, debole nella sua identità nazionale, fragile nella sua costituzione statale. (….) Puntiamo l’attenzione sul mezzogiorno e sul meridionalismo. Cerchiamo di capire, nel quadro dei problemi indicati, la scomparsa del Mezzogiorno dallo scenario del dibattito italiano. La crisi del meridionalismo è la crisi di una cultura politica che ha aiutato a tenere insieme l’Italia, a pensare alla questione meridionale come questione nazionale. A parte alcune forme di meridionalismo secessionista (perfino Salvemini lo era in qualche misura) tutto il meridionalismo classico, da Villari a Gramsci e dopo, ha pensato in questa direzione. La crisi finale del meridionalismo non a caso viene fuori nel momento in cui emergono culture secessioniste.
Pur senza stabilire riflessi e condizionamenti meccanici, sta di fatto che viviamo anni nei quali la crisi del meridionalismo coincide con la crisi di quelle culture che hanno aiutato a pensare l’Italia, a pensare cioè il dualismo italiano come questione della nazione.
Nel momento in cui le culture del meridionalismo cedono, non a caso emergono forme di coscienza che propongono di affrontare questo nodo essenziale della crisi italiana in termini di secessione. Naturalmente si può ben dire che non è solo questione di cultura. Il Mezzogiorno sta nello Stato italiano, e lo Stato italiano ha aggravato il dualismo. Ma ciò non è sufficiente per gettare in un cantuccio Stato, Mezzogiorno e meridionalismo magari al grido di federalismo! federalismo! Ci vorrebbe più senso di responsabilità, ma tutto ciò è anche la conseguenza di una crisi massiccia delle classi dirigenti che non hanno molto da dire al Paese.
Riccardo Terzi Vorrei affrontare tale questione ritornando sul fenomeno Lega. Si è detto che la Lega appare una prima risposta, inquietante, alla crisi politica. E che di tale fenomeno, della sua importanza, c’è stata una generale sottovalutazione. […] Proviamo dunque a chiederci cosa c’è dietro il fenomeno Lega.
A mio avviso c’è sicuramente una parte di società settentrionale che sta vivendo un processo di sradicamento, che è come spaesata, che fa fatica a reggere il ritmo della modernizzazione e della competizione internazionale e quindi si rifugia nel mito, nella ricerca dell’identità perduta.
Da qui il ritorno al folclore, al dialetto, al localismo; il rimpianto di un equilibrio sociale che si è rotto, la ricerca di una comunità. Sono quelle che alcuni sociologi chiamano “aree tristi”, aree non particolarmente sviluppate, che sentono messo in pericolo il loro equilibrio.
Poi ci sono i ceti rampanti, quelli che hanno assunto iniziative imprenditoriali anche molto spregiudicate, che vogliono affermarsi in prima persona e sentono il vecchio Stato come uno Stato che li soffoca con il peso fiscale e con una macchina amministrativa eccessivamente rigida. Siamo di fronte, in questo secondo caso, a soggetti che mettono in campo aspirazioni ed iniziative secondo modelli molto individualistici. E non a caso in una fase successiva questa seconda area si sposta in gran parte dalla Lega a Forza Italia.
I ceti rampanti, infatti, non sono tanto interessati al recupero dell’autonomia lombarda o all’autonomia del Nord, quanto a un modello di sviluppo iperliberista e di smantellamento dello Stato. Per gli uni e per gli altri il disegno politico della Lega ha finito per rappresentare un punto di riferimento.
Biagio De Giovanni Questa è la ragione per la quale poi in realtà la separazione tra Lega e Forza Italia è più difficile di quel che sembra.
Riccardo Terzi Sì, tra Lega e Forza Italia c’è conflitto, ma anche radici comuni.
Nel momento in cui è entrato in crisi il sistema politico, la spinta autonomistica del Nord è diventata molto forte, fino al limite del separatismo. Intendiamoci, nel Nord c’è sempre stata una rivendicazione di autonomia e la convinzione di un primato, di un ruolo egemone, sintetizzata dall’idea di Milano capitale morale ed economica. Periodicamente questa spinta, questa rivendicazione di primato del Nord contro Roma capitale del politicismo corrotto, ritorna.
Nel momento in cui salta il sistema politico, tale spinta, prima sotterranea, viene alla luce con molta forza.
In questa situazione non c’è dubbio che occorre riaffermare il bisogno di coesione nazionale.
La mia opinione è che però non faremo nessun passo avanti se ci limitiamo a una sorta di difesa retorica della Nazione, un po’ alla Scalfaro. Le grandi prediche non servono a nulla e quando si risponde alla Lega su questo terreno gli effetti sono controproducenti.
Secondo me, dobbiamo ragionare su come si rimette insieme la nazione attorno ad una linea che risponda anche ad alcune esigenze reali che la Lega ha sollevato, in particolare per ciò che riguarda una maggiore autonomia per le diverse realtà territoriali.
L’Italia è di per sé una nazione molto particolare, fatta di molte differenze. Per questo io dico che una ricerca sul tema del federalismo ci aiuta, non a rompere, a disgregare l’unità nazionale, ma a rimetterla in piedi su basi più solide.
Se riconosciamo che non funziona più un modello tutto centralistico di direzione e di governo, e se non vogliamo che queste spinte separatiste diventino davvero molto forti e incontrollabili, bisogna trovare un nuovo modello di funzionamento dello Stato che riconosca livelli ampi di autonomia, di autogoverno, ed un nuovo equilibrio tra poteri centrali e poteri locali.
Devo dire che in parte questa consapevolezza si è affermata. Anche a sinistra. C’è stata una evoluzione, cominciano ad esserci delle ricerche e degli studi seri su questo aspetto.
È questo il tema principale da affrontare in un disegno di riforma delle istituzioni. Non serve a nulla garantire maggiore forza, maggiore stabilità al governo centrale, se nel contempo non si riequilibrano i poteri nel rapporto tra stato centrale e autonomie locali.
Come si rimette insieme una nazione?
Può essere questo il tema, la domanda da cui può venire la risposta per uscire dalla transizione. È il tema politico-istituzionale del ruolo degli Stati nazionali nel rapporto con il processo di globalizzazione.
Vincenzo Moretti Vorrei fare qualche considerazione ulteriore ritornando su una questione che abbiamo già affrontato nel corso di un seminario a Vico Equense: la democrazia incompiuta.
E vorrei dire che di cose compiute in questo Paese, anche guardando a un po’ di anni addietro, se ne vedono poche, in particolare nel campo della politica. Mentre si abbonda in cose affastellate, inutilmente complicate, bizantine al punto che un termine come “inciucio” può far parte del lessico politico corrente.
Prendiamo un tema come la solidarietà, di cui si fa un gran uso nel dibattito su meridionalismo, federalismo, unità della nazione.
Ebbene, dalla mia esperienza di dirigente sindacale credo di poter desumere che perfino nelle fasi nelle quali c’è stata una effettiva solidarietà nei confronti del Sud, essa si è retta sul terreno degli affetti, delle ideologie politiche, anche dei valori condivisi, senza però mai riuscire ad aggredire il terreno degli interessi. La crisi della politica ha in qualche modo, uso volutamente un’espressione forte, liberato i rozzismi, gli spiriti animali, cosicché la spinta alla mera rappresentazione degli interessi ha come perso ogni freno inibitorio. Ma tra le due fasi c’è, a mio avviso, un legame meno esile di quanto comunemente si è portati a immaginare.
Personalmente, guardo alla riorganizzazione dello Stato in senso federalista come una risposta utile e giusta alla crisi dell’unità nazionale. Non vedo molte altre possibilità, strade migliori o più efficaci per migliorare i rapporti tra Nord e Sud, per giungere ad un nuovo patto, un nuovo assetto istituzionale del Paese. Da questo punto di vista, così come credo ad una Germania forte solo nell’ambito di un’Europa unita, ritengo che coloro che immaginano un Nord forte ed un Sud che sta fuori dall’Europa commettano un grave errore di valutazione.
Ancora una volta si può portare ad esempio ciò che sta avvenendo in settori importanti della nuova economia.
Quello che oggi viene ritenuto l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, ha costruito il proprio successo sul terreno delle relazioni. Egli è riuscito ad aumentare enormemente affari e profitti perché ha compreso l’importanza di non crescere nel deserto, di favorire in qualche modo la crescita dell’intero sistema produttivo.
Autonomia. Integrazione. Cooperazione. Saranno queste a mio avviso le idee e le scelte vincenti del futuro prossimo.
Per tornare al nostro ragionamento, credo che dovremmo ripensare criticamente il concetto di unità nazionale così come lo abbiamo vissuto negli anni che abbiamo alle spalle.
Lo ripeto: la coesione è stata molto forte quando non intaccava il “nocciolo duro” degli interessi. Quando ciò non è stato più possibile, per le trasformazioni dell’economia avvenute a livello mondiale e per la crisi dello stato sociale a livello delle singole nazioni, si sono aperti molti e consistenti problemi.
La ricerca che ci deve portare alla ridefinizione di un’ipotesi di coesione nazionale, non può che partire da una proposta che si muova su questo doppio binario: civiltà e interessi.
Lo sento come un tema forte.
La stessa globalizzazione non può essere affrontata soltanto dal versante dei processi economici, ma deve esserlo anche dal punto di vista delle politiche sociali, di un idea nuova di civiltà, di un idea nuova di relazioni in Europa, tra area del Mediterraneo ed Europa, tra Europa e resto del mondo. Sono temi che non di rado sono presenti nelle nostre discussioni. E che però non producono iniziativa politica.
Se la politica deve riconquistare un ruolo rispetto all’economia, non deve partire anche da queste cose? E dentro queste cose ci può stare una nuova idea forza di nazione e di nazioni in Europa? Terzi ha introdotto il concetto che a me piace molto di “doppio movimento”. Un movimento che sposta la nazione, lo Stato, verso l’Europa, e che quindi richiede un governo dei processi di dimensione europea. E un movimento che sposta lo Stato verso il basso, verso i poteri locali, i poteri decentrati, e dunque verso la responsabilità.
Qui vedo la possibilità di indicare idee forza, di indicare programmi, di indicare soluzioni, perché altrimenti, per usare un’espressione molto efficace che altre volte ho sentito da De Giovanni, la “nuova politica” su quali gambe la facciamo camminare?
Riccardo Terzi Prima di vedere quali sono le risposte politiche, le idee forza, con le quali affrontare la transizione, forse dobbiamo ancora soffermarci su qualche elemento d’analisi. Come diceva Moretti, la presenza di un sistema politico molto forte, e di forti identità collettive, rappresentava una specie di antidoto contro il pericolo di essere guidati soltanto da interessi immediati, corporativi.
La capacità di esprimere una coesione che metteva insieme interessi diversi era una caratteristica sia della Democrazia Cristiana che del Partito Comunista.
La Democrazia Cristiana era sicuramente interclassista, il Partito Comunista che pure si definiva partito di classe, in realtà ha sempre rifiutato l’operaismo e ha sempre guardato con grande attenzione ai ceti medi, proponendosi come grande forza nazionale.
Nel momento in cui c’è la crisi delle strutture politiche, delle ideologie, c’è il rischio che si perda ogni capacità di condizionamento e di freno, e che l’unico orizzonte possibile diventi quello dell’interesse corporativo immediato.
È in larga parte ciò che è avvenuto in Italia. Ne parlavo prima riferendomi alle radici della Lega: ci sono pezzi di Paese che non riconoscono più l’equilibrio nazionale né, tantomeno, il bisogno di essere solidali con il Sud.
Vengono meno i vincoli della solidarietà sociale, e si determinano processi di tipo disgregativo estremamente rischiosi.
Mentre i partiti diventano sempre più marginali, l’unica forza che cerca di fare società, di fare solidarietà, oggi è la Chiesa, che non a caso resta un punto saldo anche sul terreno della difesa degli immigrati. Dal punto di vista sociale, il ruolo della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali è oggi di straordinaria importanza, perché riesce a mettere in campo un’attività diffusa e concreta di solidarietà, di accoglienza, di protezione sociale. Ciò agisce come contrappeso rispetto alle tendenze di fondo della società competitiva. Il sistema politico sembra invece muoversi a rimorchio dell’esistente, in balia degli interessi organizzati, e fa sempre più fatica a tenere insieme interessi diversi, a produrre una sintesi, a progettare un modello di società.
La transizione sarà lunga, sono perfettamente d’accordo con De Giovanni: è così profonda la crisi della cultura politica e del sistema politico-istituzionale che non è assolutamente pensabile che da essa si possa uscire rapidamente.
Per ricostruire un equilibrio sociale, una coesione nazionale che oggi è seriamente messa in crisi, dobbiamo darci una strategia capace di reggere i tempi lunghi.
Proviamo allora a vedere questa strategia di lungo periodo in che cosa consiste, e quali sono le principali iniziative da mettere in atto.
Una delle cose che ritengo importanti e su cui vorrei tornare è il tema del federalismo: come ricostruire su basi diverse l’unità nazionale e come mettere mano al funzionamento concreto dello Stato, ai meccanismi di distribuzione del potere, alla riorganizzazione della pubblica amministrazione. Il rischio è, in alternativa a questa operazione faticosa e necessaria di intervento concreto sulle cose, che prevalga la risposta puramente simbolica: il presidenzialismo, l’Assemblea Costituente, lo stesso federalismo nella sua versione agitatoria e mitologica. C’è il rischio della retorica, del predominio delle parole sulle cose.
Personalmente non credo che ci siano risposte miracolistiche e ritengo molto pericoloso alimentare illusioni di questo tipo. Con ciò si alimentano aspettative messianiche, e inevitabilmente ne deriva un contraccolpo gravissimo nel rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini.
Le cose a cui mettere mano sono tante e non poco complicate, riguardano la coesione nazionale, gli equilibri sociali, il funzionamento concreto dello Stato. Dobbiamo darci un programma che affronti complessivamente questi temi.
Biagio De Giovanni Si stanno forse accavallando troppi temi e bisogna ritrovare un po’ di ordine nella discussione. Molti problemi non possono essere affrontati mantenendoli in un ambito solamente nazionale.
Riprendendo il discorso che faceva Moretti all’inizio anche a me interessa molto approfondire una questione precisa, da cui peraltro siamo partiti: qual è oggi il rapporto tra economia e politica. Credo che dobbiamo provare a farlo nel solo modo utile in una sede come questa, guardando agli sconvolgimenti che stanno avvenendo nel mondo.
La politica non riesce più a governare i processi reali. Quando Moretti sostiene che la crisi della politica, che coincide con la crisi degli stati sociali, ci consegna la liberazione degli spiriti animali nel mondo degli interessi, dice una cosa molto vera.
Contemporaneamente però occorre dare determinatezza storica a questa crisi della politica, perché altrimenti rischia di diventare la crisi di una categoria dello spirito.
La politica in un certo senso non è mai in crisi, perché anche questa immediatezza degli interessi si rappresenta in una politica.
Non è un caso che essa richiami le politiche anti-deficit e le politiche di stabilità, quelle politiche che gli Stati sociali mettevano in secondo piano non per dimenticanza, ma perché il deficit pubblico faceva parte organicamente delle loro strategie e che invece ridiventano di difficile realizzazione nel momento in cui gli Stati sociali, per le ragioni che sappiamo (globalizzazione e tutto il resto), entrano in crisi.
Parlerei dunque, più che di crisi della politica, di crisi degli stati sociali ovvero della forma nella quale la democrazia, in maniera storicamente determinata, si è affermata in Europa negli ultimi cinquanta anni. Dentro questo fenomeno c’è la crisi della qualità della democrazia europea, delle sue forme storicamente determinate. (…)
Questa separazione tra economia e politica, di cui si parlava, questa “liberazione” degli interessi pone la necessità di ritrovare un nuovo livello di mediazione. Essa sta infatti determinando in tutto il mondo, o almeno in America e in Europa, nuove forme di sviluppo e nuove forme di regressione sociale, cioè di divisione all’interno della società che passano per vie diverse da quelle tradizionali. Ciò richiede un’analisi ancora tutta da fare, perché ciò che sta avvenendo non ha molto a che vedere con la vecchia analisi di classe.
Anche “povertà” e “ricchezza”, gruppi sociali e società, lavoro e vita devono essere ripensate dentro uno schema di analisi che già da molto tempo non è quello classicamente marxiano incardinato sul carattere onnivoro del capitalismo. […] Naturalmente questo problema non lo possiamo toccare se non affrontiamo prima globalizzazione e quindi Europa, giacché tutto quello che si muove intorno a noi ne mostra la dimensione internazionale, mondiale.
È un tema che in Italia sta avendo un impatto particolare, ma dovunque le cose cominciano a rappresentarsi con alcune significative assonanze: basterebbe richiamare l’esempio francese, e quello tedesco, per rendersi conto di come oggi le politiche anti deficit stimolino una risposta sociale e anche nuovi tipi di lacerazione.
Siamo in presenza di un problema straordinariamente complicato, e cioè come si risponde al problema della spesa pubblica e del connesso deficit pubblico in una situazione post stato sociale. […]
L’altro filone naturalmente è per definizione nazionale, perché quando parliamo di coesione nazionale parliamo di stato nazionale. E questo è un filone che possiamo anche discutere separatamente, sia pure mantenendo l’opportuno equilibrio con l’altro. L’importante è evitare l’accavallarsi di due temi che nella loro unità e nel loro rapporto vanno comunque tenuti distinti. Sulla questione nazionale io voglio limitarmi per ora semplicemente ad aggiungere una riflessione, relativa al federalismo.
Non ho naturalmente una pregiudiziale antifederalista generale, ma ho serie perplessità sulla possibilità e (opportunità) che la repubblica italiana diventi federale, abbia il federalismo nei suoi geni. […]
Il federalismo nella storia d’Italia è sempre intervenuto in forma secessionista da Cattaneo a Salvemini e direi nella forma di una incompatibilità tra Nord e sud. Da quando si decide la forma dello Stato, dopo l’unità, il tema su cui si sceglie appare sempre legato al dualismo italiano. Per altro non credo sia per caso che la Lega, con le sue istanze federaliste secessioniste, nasce esprimendo il malessere del Nord e costituendo la base di una vera e propria questione settentrionale. […]
La pubblica amministrazione è il punto in cui si è accumulata la maggiore massa di contraddizioni innescata dalla confusione immediata fra partiti e Stato. Da questo punto di vista non ho alcuna difficoltà a riconoscere che oggi il tema dello Stato non si risolve se non si mette l’accento sulle autonomie.
Anche questo è un tema costituzionale, relativo al chi decide che cosa. C’è dunque in campo la questione di come si distribuiscono poteri e responsabilità.
Se ci poniamo questo problema, però, non credo si possa dire, per quello che le parole significano e possono significare che la soluzione sia il federalismo.
Intanto, dicevo che è storicamente difficile innescare questa parola nella storia d’Italia senza immediatamente ottenere risonanze di tipo separatista, per cui contrariamente a quanto sta avvenendo dovrebbe essere vietato di parlare di federalismo senza immediatamente aggiungere Mezzogiorno, meridionalismo. […] Altro è federalismo, altro decentramento, che è il giusto lessico da utilizzare.
Il lessico non può essere soggetto a tatticismi né lo si può inventare giorno per giorno. Personalmente ritengo che il lessico fa parte delle strategie e che dobbiamo stare attenti a come usiamo le parole se non vogliamo che ognuno attribuisca diversi significati alle stesse cose o chiami nello stesso modo cose diverse.
Bisogna lavorare sulle forme istituzionali in grado di descrivere il rapporto fra autonomia ed unità perché nello stesso tempo in cui rinsaldiamo le autonomie dobbiamo rafforzare l’unità. E dobbiamo fare questo senza mai isolare le forme istituzionali dalla forma specifica della storia e della società italiana che sono dualiste, con una tendenza alla secessione che di fatto sta avanzando in modi che potrebbero diventare pericolosi. Dunque, unità e distinzione. Io potrei richiamare un lontano insegnamento di Croce, che appresi da lui quando ero “guaglione”, che il movimento della realtà è unità e distinzione. Ciò significa che oggi dobbiamo unire l’Italia, altrimenti non saremo mai veramente parte dell’Europa, e insieme dobbiamo decentrare poteri e responsabilità. […]
Riccardo Terzi Sulla questione del federalismo vorrei dire, in particolare a De Giovanni, che se assumiamo come base della discussione la necessità di trovare un punto di equilibrio tra unità e distinzione, tra coesione nazionale e sviluppo dei sistemi e delle autonomie territoriali, probabilmente le differenze tra di noi non sono così marcate.
Io credo però che sia utile e corretto parlare di federalismo e non soltanto di sistema di autonomie.
In primo luogo perché abbiamo già alle spalle una storia di autonomie locali, di autonomie regionali, che non ha dato fin qui risposte e risultati sufficienti. Andare oltre, non limitarsi a riconfermare il valore delle autonomie locali così come storicamente si sono organizzate in Italia fino ad oggi, vuol dire essere consapevoli della necessità di fare un salto, di introdurre una modifica profonda nel corso delle cose. Il termine “federalismo” indica appunto questa necessità di una rottura e di un rinnovamento profondo nell’ordinamento dello stato.
È vero. Il federalismo nella storia italiana ha avuto i connotati che ricordava De Giovanni. Ma perché è sempre stato un movimento molto minoritario, ed i movimenti minoritari tendono a radicalizzarsi.
Nella Costituente prevalse giustamente una linea di prudenza, perché in quel momento sembrava rischioso fare un’operazione di riforma istituzionale basata su un regionalismo forte: l’Italia usciva a pezzi dalla guerra ed era necessario in primo luogo ricostruire l’unità nazionale. Oggi tale prudenza non ha più ragione di essere. È all’inverso il mantenere questo modello centralizzato di Stato che rischia di alimentare le spinte disgreganti, le spinte secessioniste già molto forti in alcune aree del Nord.
Ricercare una soluzione del problema che rappresenti effettivamente un salto di qualità rispetto all’esperienza passata vuol dire fare delle Regioni una cosa completamente nuova rispetto a quello che sono state fino ad oggi. Ed in questo quadro i modelli, per quanto possano valere, sono gli stati di tipo federale. Guardo ad esempio all’esperienza tedesca e trovo lì una soluzione che può essere un punto di riferimento anche per noi.
Nel modello federale tedesco l’amministrazione, anche per le materie che sono regolate da leggi nazionali, è completamente decentrata al livello dei Lander, tranne che per poche ed eccezionali funzioni, come ad esempio la difesa nazionale. Ciò comporta una riorganizzazione totale di tutta la macchina amministrativa e rappresenta perciò un’occasione privilegiata per ricostruire su nuove basi e con nuovi criteri di efficienza le strutture dell’amministrazione pubblica.
Inoltre, un punto chiave della riforma dello Stato è la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare con l’istituzione di una Camera delle Regioni, sul modello del Bundesrat tedesco. La seconda camera dovrebbe essere, in questa logica, una espressione diretta dei governi regionali, diventando così la sede in cui si coordinano le politiche nazionali e le politiche regionali.
Per fare tutto questo è chiaro che c’è bisogno di una riforma costituzionale. E se concordiamo sulla necessità di avviare un’operazione di questo tipo, parlare di federalismo mi pare sia corretto, perché gli Stati organizzati in questo modo si chiamano stati federali.
Essi possono avere livelli di autonomia anche molto differenziati: in Germania, ad esempio, il sistema federale convive con un governo centrale forte. Non a caso mi è capitato di discutere di queste cose con un esponente della Lega e mi sono sentito dire che la Germania ha un federalismo finto e che quel tipo di modello non va bene. La Lega propone infatti una cosa diversa: una forma di vera e propria indipendenza del Nord, con un legame statale debolissimo e con il diritto alla secessione.
Non vorrei alla fine trovarmi coinvolto in una disputa puramente terminologica. Personalmente credo che sia corretto parlare di federalismo, anche per dare il senso di una riforma che non è in linea di continuità con il regionalismo così come lo abbiamo conosciuto in tutti questi anni, ma indica un cambiamento sostanziale del modo di essere dello Stato.
Si tratta poi di qualificare e di specificare il modello istituzionale, perché parlare in modo generico del federalismo può dare luogo a molti equivoci. Bisogna dire perciò qual ‘è il progetto che vogliamo adottare.
C’è una linea di ricerca che si è andata via via precisando, con il progetto della fondazione Agnelli, con l’elaborazione delle Regioni, con gli studi sul federalismo fiscale, fino al documento della diocesi di Milano. In tutti questi casi si parla di un federalismo unitario e solidale, che non è la rottura dello Stato, ma un modo nuovo per reimpostare la coesione nazionale. È a questo filone di ricerca che dobbiamo fare riferimento per definire un modello di federalismo adeguato alla situazione italiana.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1997
Autore: Biagio De Giovanni, Riccardo Terzi, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: Estratto da “Come si rimette insieme una nazione”, Edizioni Theoria (disponibile anche in una versione online)
Pubblicazione: “Austro e Aquilone”, n. 1, 1997, pp. 77-90