COME SI RIMETTE INSIEME UNA NAZIONE

Dibattito tra Riccardo Terzi, Biagio De Giovanni, Vincenzo Moretti e Rosario Strazzullo sul federalismo

 

Questo libro
Le conversazioni tra Biagio De Giovanni, Riccardo Terzi, Vincenzo Moretti e Rosario Strazzullo che potete leggere su queste pagine si sono svolte tra il Gennaio e il Maggio del 1996 e sono diventate un libro, ormai introvabile, pubblicato da Theoria nel Febbraio 1997.
Adesso il testo è a disposizione di chi intende leggerlo o anche solo “sfogliarlo”.
Per interesse. Per curiosità. O magari per scoprire che ….
Buona lettura.

 

 

INDICE

  1. LE RAGIONI DELLA CRISI
  2. C’ERA UNA VOLTA UN PAESE
  3. PENSARE L’EUROPA
  4. L’AGENDA DELLE COSE DA FARE
  5. IL GIORNO DOPO

 

 

1 – LE RAGIONI DELLA CRISI

 

VINCENZO MORETTI

La globalizzazione

Credo che si possa cominciare, ci siete tornati più volte nel corso di questi mesi, affermando che c’è una crisi della politica che ha una dimensione europea e mondiale e che averne la consapevolezza ci aiuta a vivere senza eccessiva angoscia i problemi e le questioni aperte a livello nazionale.

Avete parlato in altre occasioni di una politica che, nel quadro dei processi di globalizzazione in atto, rischia di diventare subalterna, una sorta di “ancella” delle leggi economiche.

Sono per molti versi le stesse questioni che ha posto Darehndorf quando si è riferito alla crisi della politica intesa come declino della sua capacità di indicare soluzioni alle grandi questioni del nostro tempo.

 

L’anomalia italiana

Contemporaneamente, siete più volte ritornati sugli elementi di specificità che caratterizzano la crisi italiana.

Il perdurare di una situazione in cui all’azzeramento della vecchia classe dirigente non è fino ad oggi corrisposta una compiuta capacità di mettere in campo soggetti e forze nuove, è certamente uno di questi. Ma si possono fare altri esempi.

C’è una continua sovrapposizione di temi e questioni, dal bipolarismo alla ricostruzione del centro, dal federalismo al presidenzialismo, dalla bicamerale all’assemblea costituente, che di certo non attenua il senso di confusione che caratterizza questa stagione politica. Permane una esasperata spettacolarizzazione che sembra ridurre la politica a ciò che fanno di volta in volta Prodi, D’Alema, Di Pietro, Berlusconi. Le vicende giudiziarie continuano ad avere una oggettiva e forte rilevanza politica.

La politica continua insomma ad essere in affanno. E la possibilità che essa riesca a riconquistare il ruolo avuto ancora per gran parte di questo secolo appare sempre più remota.

Credo si possa cominciare affrontando questi due punti: l’indebolimento del potere politico delle singole nazioni a fronte della dimensione internazionale del potere economico; e l’anomalia italiana. E credo sia utile farlo senza perdere di vista i legami che tra essi intercorrono.

 

RICCARDO TERZI

L’economia mondo e la politica nazione

Credo che sia giusto collocare la questione in una dimensione più ampia rispetto a quella nazionale: la crisi sta innanzitutto nella difficoltà crescente della politica e dei suoi strumenti a governare i processi reali.

Nell’era della mondializzazione dell’economia, e della conseguente riorganizzazione dei grandi poteri economici su scala mondiale, le strutture politiche non hanno la forza né gli strumenti per svolgere un ruolo effettivo di governo, anche perché la politica è stata costruita sul modello degli Stati nazione, in una fase storica nella quale il capitalismo era fondamentalmente nazionale e c’era perciò un rapporto reciproco, una corrispondenza, tra la politica e l’economia.

Oggi abbiamo invece una situazione squilibrata. E le difficoltà si avvertono anche in paesi dove il sistema politico è forte e strutturato, dove i grandi partiti sono ancora fortemente radicati e non C’è una situazione politica confusa come quella italiana. Anche lì il rischio di una politica subalterna, che prende atto della oggettività dei processi economici, è tutt’altro che remoto. A ciò si aggiunge un ulteriore problema rappresentato dai mutamenti intervenuti nel rapporto tra sovranità nazionale, dimensione europea e dimensione mondiale. La costruzione di forti istituzioni politiche europee è la condizione necessaria per restituire alla politica la sua funzione.

 

La crisi del sistema politico

La situazione italiana riflette queste difficoltà generali. Da noi però la crisi politica è molto più acuta perché condizionata dalla destrutturazione del sistema dei partiti che hanno governato per un lungo periodo di tempo l’Italia. Di fatto, il nostro sistema politico è completamente inceppato.

Sento da varie parti sostenere la tesi che dalla crisi italiana si esce rifacendo il patto costituzionale. Secondo questa tesi, la crisi dipende dal fatto che ci sono delle istituzioni non più adeguate e che vanno dunque riformate riscrivendo la Costituzione.

Questa tesi non mi convince, non perché non ci sia anche un problema di riforma della Costituzione, la quale ha certamente bisogno, in molti punti, di un aggiornamento e di una revisione critica. Però non credo che stia qui il cuore della crisi.

Esso sta nel fatto che si è completamente dissolto il sistema politico, e quindi prevale, come dice Moretti, una politica impazzita, nevrotica, tutta giocata sul giorno per giorno, sulla manovra tattica, capace di passare, per l’appunto, dall’esaltazione mitologica del bipolarismo alla proposta del governissimo.

 

Assestamento e transizione

Io credo che dobbiamo ragionare sulla crisi del sistema politico e su questa fase, che non sarà breve, di assestamento e di transizione.

Si va verso una direzione tendenzialmente bipolare, però il processo è ancora incompiuto e lo stesso progetto dell’Ulivo allo stato delle cose è ancora in larga parte da definire. Non siamo ancora in presenza di un bipolarismo organizzato, ma di un processo tuttora molto tumultuoso che, secondo me, avrà tempi non brevi. In assenza di un sistema politico strutturato tutta la situazione resta precaria.

 

Riorganizzare il sistema politico

Anche gli aspetti positivi che ci si attendeva legittimamente dalla riforma elettorale non si producono se non si riorganizza il sistema politico. Difatti dove c’è un sistema politico organizzato il punto decisivo non è la legge elettorale. In Inghilterra c’è il maggioritario, in Germania il proporzionale, ma in ambedue i Paesi il sistema politico, con le sue difficoltà, tiene.

In Italia esso, per varie ragioni, è entrato in crisi. Mi pare questo il punto specifico che caratterizza la situazione italiana.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

L’importanza dell’89

Mi sento molto in sintonia con l’avvio del ragionamento di Terzi.

Credo che la vicenda sulla quale si dovrà tornare con molta più capacità analitica di quanto non si stia facendo è quella che nasce con il 1989. Essa va considerata come l’elemento fondamentale di quella destrutturazione degli ultimi 50 anni della storia mondiale che sta producendo effetti a catena. Come sempre, tali effetti non sono ideologici, ma riguardano gli equilibri e le forze in campo. Mi pare ad esempio abbastanza evidente che questa destrutturazione è alla base dell’accelerazione del processo di globalizzazione dell’economia.

La questione che il 1989 ci consegna è la seguente: come si ritrova un equilibrio dopo che per 50 anni e più la storia è stata legata a una certa definizione delle grandi strutture politiche e dell’insieme delle forze in campo? Gli sconvolgimenti da analizzare sono di diversa natura, sia culturale sia politica, e stanno tutti dentro quella vicenda.

Dentro quella vicenda c’è anche quello che Terzi giustamente definiva il mutato rapporto fra economia e politica.

 

La crisi degli stati sociali e la crisi della democrazia in Europa

Moretti ricordava che la politica non è più in grado di governare i processi reali. Io aggiungerei un ulteriore elemento sul quale certamente avremo occasione di tornare: la crisi degli Stati sociali in Europa. La crisi, cioè, del rapporto tra politica, Stato e Nazione.

Gli stati sociali sono appunto grandi esperimenti, e conquiste di dimensione nazionale.

Abbiamo spesso affermato che le socialdemocrazie hanno acquisito con molta difficoltà la dimensione sovranazionale perché hanno sempre guidato processi e realizzato compromessi nazionali tra le forme capitalistiche del proprio paese e le classi lavoratrici.

Faremmo bene a chiederci se la crisi degli stati sociali è in una certa misura, e in che misura, la crisi della struttura e della forma della democrazia in occidente.

Questo mi pare un nodo ineludibile. Io stato sociale non è una semplice soluzione empirica.

In tutta la vicenda del novecento le politiche del welfare segnano e determinano la sostanza e la forma con la quale si è costruita la democrazia in occidente. Da qui segue che la destrutturazione, la crisi dei sistemi politici non è solamente crisi delle forme di governo ma è forse in maniera più radicale crisi delle forme nelle quali la democrazia, nelle società più sviluppate, ha organizzato il proprio linguaggio in rapporto agli equilibri di classe, sia sociali, sia culturali, sia politici. Da qui la sensazione di una difficoltà profondissima.

Per quanto riguarda i caratteri internazionali della crisi il mio ragionamento si ferma per ora qui, ponendo questi problemi.

 

Crisi politica e crisi istituzionale

Nessun dubbio naturalmente sul carattere particolarmente profondo, drammatico, anomalo, se vogliamo cominciare ad usare questa parola, della crisi italiana, le cui ragioni sono legate a vicende molto complicate.

Probabilmente, per comprenderle a fondo, sarebbe necessario tornare sulla storia dell’Italia- nazione.

Nell’economia del nostro ragionamento mi sembra però più utile soffermarmi sulla questione, affrontata da Terzi, del rapporto tra crisi del sistema politico e crisi del sistema istituzionale, Sono molto convinto della forza che ha avuto nella crisi italiana il 1989, come punto d’avvio per lo scioglimento del PCI, la sostanziale messa in crisi della forma della politica della prima repubblica, la crisi e l’esaurimento della funzione storica della DC. In Italia la crisi prende una forma diversa che altrove: sono “scomparsi” infatti i due partiti che hanno fatto la storia della prima repubblica.

Richiamo continuamente i dati storico politici e le date perché mi pare che altrimenti rimaniamo nell’ambito limitato della sociologia politica o della politologia.

La specificità della crisi italiana, molto prima che di “tangentopoli”, è un effetto di questo processo, nasce cioè dal fatto che si destruttura la forma storica del sistema politico.

La sua stessa gravità e profondità dipendono in larga parte dalla destrutturazione radicale delle culture politiche intorno alle quali è stata costruita la vicenda storica italiana della prima repubblica e quindi dall’immenso vuoto di culture politiche che si è creato.

Per queste ragioni il 1989 ha nel nostro Paese un impatto che non può avere altrove.

Quello che Moretti affermava sottolineando che tutto è ridotto al tatticismo, al giorno dopo giorno, all’incapacità di individuare priorità e definire scelte trova, secondo me, in questo immenso vuoto che la ristrutturazione cosi precipitosa del sistema politico ha determinato, la sua spiegazione.

 

Il nodo centrale della crisi

L’accento va dunque messo, anche qui concordo con Terzi, sulla crisi del sistema politico.

Naturalmente, si tratta di capire che cosa si intende per sistema politico e affrontarne le diverse implicazioni. Non possiamo infatti dimenticare che in Italia l’intreccio fra crisi politica e istituzionale è particolarmente stringente, per le ragioni che ho detto prima. E se è vero che anche in altri grandi stati occidentali questo tema sta emergendo, bisogna riconoscere che ciò avviene in forme infinitamente meno urgenti e drammatiche che da noi.

Riassumerei dunque la questione in questo modo: il nodo centrale della crisi è nel sistema politico, ma è necessario fare una riflessione più generale per comprendere in che modo la crisi del sistema politico è andata a incidere sulla forma del sistema istituzionale. Da questo versante il problema della costituzione torna in campo.

 

VINCENZO MORETTI

Il Paese delle cose incompiute

Colgo nei vostri ragionamenti due prime indicazioni, ancora una volta strettamente correlate.

Da un lato avete infatti sottolineato che il centro della crisi e delle forti, e per molti versi peculiari, difficoltà che attraversa il nostro Paese sta nella presenza di un sistema politico destrutturato. Dall’altro che in questa destrutturazione hanno giocato un ruolo decisivo i fatti dell’89.

Viene da chiedersi perché, nonostante l’89 abbia riguardato l’insieme dell’Europa, solo nel nostro Paese le conseguenze siano state di queste dimensioni.

Forse perché c’è stata una sopravvalutazione del ruolo internazionale del nostro Paese nella fase di contrapposizione tra i blocchi, e dunque una rendita di posizione che è venuta meno con la caduta del muro di Berlino? Certo non si deve al destino cinico e baro il fatto che gli effetti dell’89 siano stati così dirompenti proprio nel paese di “tangentopoli”. E forse non poche cose possano essere chiarite guardando all’Italia come ad un paese che in più fasi della sua storia, anche recente, è stato caratterizzato da una democrazia bloccata, dove non prevalgono mai opzioni nette, scelte alternative.

Siamo il Paese delle cose incompiute, irrealizzate, non definite.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Le vecchie culture politiche e la crisi

Vedo anch’io emergere nella nostra discussione un punto forte di ancoraggio: è quello che avete definito destrutturazione del sistema politico, crisi del sistema politico. E mi sembra giusto partire da qui per avviare un ragionamento sulla crisi italiana.

De Giovanni ne ha dato già una prima specificazione: in Italia questa crisi politica è nata dallo scioglimento del PCI e dagli effetti che tale scioglimento ha oggettivamente avuto sulle altre culture politiche.

Proviamo dunque ad approfondire questo aspetto e proviamo a farlo in un’ottica non solo nazionale, riprendendo ad esempio quest’idea del crollo dei sistemi dell’Est come effetto della globalizzazione che ancora De Giovanni ha introdotto.

Il tentativo di definire la crisi italiana confrontandola con quanto avviene nel resto d’Europa ci conduce a mio avviso assai rapidamente alla necessita di rispondere ad almeno due interrogativi: non è che già da tempo le vecchie culture politiche non fossero più in grado di tenere in piedi e unito questo Paese? E non sta qui un’origine più profonda della crisi italiana, che precede l’89? Vedo in questo ambito la possibilità di intrecciare problemi storici e problemi politici, di ragionare combinando insieme gli elementi critici della politica europea e mondiale con quelli specifici della destrutturazione della politica italiana.

 

RICCARDO TERZI

Il Paese bloccato

Strazzullo ha anticipato una questione importante, che mi riproponevo di affrontare: se proviamo a cercare le radici della crisi politica in Italia, troviamo che sono lontane.

Il sistema politico italiano è rimasto a lungo un sistema bloccato; forte, ma bloccato sui grandi pilastri della DC e del PCI, che non erano in grado di realizzare un’alternanza democratica e che hanno prodotto significativi fenomeni di consociativismo.

C’è una paralisi del sistema politico già negli anni 70.

Pensiamo alla riflessione di Aldo Moro in quegli anni, al tentativo di trovare, con la proposta di apertura della terza fase, la strada capace di superare questo blocco del sistema politico. E l’elaborazione che avviene in casa comunista con il compromesso storico è un altro e parallelo tentativo di trovare questa via. Con la morte di Moro, si blocca definitivamente questa ricerca. Dunque, come sostiene giustamente Strazzullo, non c’è soltanto l’89: la situazione di stagnazione, di scarso dinamismo del sistema è antecedente a quella data.

L’89 fa precipitare le cose. È ciò che ricordava prima De Giovanni: saltano i due pilastri che hanno tenuto insieme il sistema e lo hanno contemporaneamente bloccato e conseguentemente si dissolve completamente l’equilibrio precedente.

Nella crisi di questi ultimi anni hanno insomma pesato diversi fenomeni.

 

La forza travolgente dell’89

Gli eventi internazionali innanzitutto: la deflagrazione dell’Unione Sovietica, il superamento dei blocchi, la riunificazione tedesca, la caduta del muro di Berlino.

 

Tangentopoli

Poi la vicenda tangentopoli, che fa emergere a livello di massa quella sfiducia profonda nei confronti della politica da tempo presente nella coscienza collettiva del Paese. Tangentopoli è l’elemento scatenante che fa diventare tale sfiducia enormemente più forte di quanto non fosse precedentemente, per cui si determina una vera e propria rottura nel tessuto connettivo della società italiana.

 

La Lega

Poi ancora la variante Lega. La Lega è un fenomeno non facile da inquadrare. Il primo segno di scollamento del vecchio sistema è stato proprio il successo elettorale della Lega in alcune regioni del Nord, che ha colto praticamente tutti di sorpresa.

Quando questo signor Bossi ha cominciato ad andare in giro per le valli della Lombardia, si pensava che fosse un fenomeno molto marginale, effimero, frutto di un localismo senza respiro nazionale. Solo quando la Lega diventa in Lombardia ed in una città come Milano il primo partito, ci si accorge finalmente che non è soltanto un fenomeno folcloristico.

La Lega è un primo segnale, è un campanello di allarme molto forte e la sua affermazione avviene sulla base di una proposta di tipo separatista: il Nord fa da solo. C’è una crisi politica, e questa crisi mette in causa la stessa unità nazionale.

 

Il sistema istituzionale

Infine, anch’io ritengo che vanno affrontate le questioni relative al sistema istituzionale, che non è possibile separare in modo netto il sistema politico dal sistema istituzionale, che per dare uno sbocco positivo, democratico, alla transizione, bisognerà ragionare ed intervenire sul funzionamento delle istituzioni.

Bisogna vedere però come, e in che direzione.

Ciò che io temo e che penso debba essere apertamente contrastato è un approccio al tema delle riforme che si riduce in sostanza a una semplificazione autoritaria. Secondo tale concezione, il sistema sarebbe in crisi perché c’è un sovraccarico di domanda democratica, e allora si tratta soltanto di rafforzare l’esecutivo. La risposta presidenzialista è sostanzialmente una risposta di questo tipo: la democrazia parlamentare non funziona, e si tratta allora di rafforzare il potere centrale, di concentrare tutto il potere decisionale in un punto.

Se assumiamo che c’è il problema delle riforme istituzionali, bisogna vedere da quale versante lo affrontiamo: attualmente sono in campo risposte molto divaricate e anche per questo non capisco bene su quali basi oggi si possa fare un’assemblea costituente. Non c’è una cultura politica comune e se si parte da analisi, da proposte molto contraddittorie tra di loro, non può che venirne fuori un pastrocchio, un compromesso molto pasticciato: un pizzico di federalismo e un pizzico di presidenzialismo, senza un disegno organico.

Bisognerà quindi far maturare le condizioni politiche perché ci sia un disegno comune, un’impostazione complessiva di politica costituzionale.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Un punto di rottura storica

Riconosco che ho enfatizzato l’importanza delle vicende dell’89, ma insisto su questa enfatizzazione perché senza quel punto di rottura storico, oggi le cose nel mondo sarebbero del tutto diverse. Per fare un solo esempio, in Italia continuerebbero probabilmente ad esistere DC, PCI e – perché no? – PSI.

È chiaro che non nasce tutto da li. Ma per certi versi proprio perché gli elementi di crisi forte, di blocco, sono molto antecedenti, i fatti dell’89 hanno finito per assumere una rilevanza decisiva.

Alla domanda di Moretti sul perché nel nostro Paese l’89 ha l’effetto che ha, credo di aver già risposto.

 

La sopravvalutazione dell’Italia

Vorrei invece riprendere l’altra questione da lui introdotta.

Dall’osservatorio europeo è apparso con una evidenza solare che fino all’89 l’Italia è stato considerato come un Paese politicamente importante. Il suo essere uno stato politico di frontiera, o che comunque tale veniva giudicato, ne faceva un punto di equilibrio storico importante e riusciva persino a rendere fondate, motivate, le ragioni di alcune particolari “licenze”, tra virgolette, che le erano concesse. Così si spiega la politica nei confronti del medio oriente, la stessa politica nei confronti dell’EST, una certa forma dell’andreottismo.

Per inciso, Andreotti è ancora oggi il politico italiano più noto e stimato a livello internazionale.

Con l’89, diventiamo, come si diceva una volta, un’espressione geografica: non esiste più una funzione politica dell’Italia e si tratta, ora, di riconquistarla faticosamente nel nuovo contesto politico.

 

L’intreccio

Secondo me ognuna delle cose fin qui affermate la possiamo leggere in rapporto alla successiva. Più che parlare di una catena di cause e di effetti, mi pare però utile riferirsi ad un complicato e labirintico intreccio dentro il quale ritroviamo diverse cose che insieme danno il senso della profondità di una crisi.

E questa è un’altra delle ragioni per le quali l’89 in Italia ha un impatto molto più violento che altrove, dove i condizionamenti erano molto meno corposi e diretti che da noi.

In Italia è entrato in crisi, quasi fino al punto di consunzione, la forma dello Stato, inteso sia come pubblica amministrazione sia come equilibrio complessivo dei rapporti tra i poteri.

Da qui, a mio avviso, le enormi difficoltà di ritrovare e riannodare i fili; da qui la sensazione di una transizione ancora molto lunga, la difficoltà di costruire, gli innumerevoli esperimenti che si vanno discutendo e “forse” preparando.

 

La crisi delle culture politiche

Il fatto che non c’è più pensiero e vera discussione critica, mette in evidenza tutto questo in maniera ancora più clamorosa. Questo è il punto: il venire meno delle forme dentro le quali una storia si svolge. La destrutturazione ha messo in ginocchio molte cose. Quando dico crisi delle culture politiche intendo una cosa molto profonda, non le culture in senso accademico. Intendo quel nodo complicato, quell’intreccio in cui ci sono società civile, sistemi, forze politiche, partiti.

Quindi non ci deve sorprendere la profondità della crisi, né la lunghezza dei suoi tempi.

 

Ancora su Tangentopoli

Vorrei aggiungere ancora una battuta su “tangentopoli”, riprendendo un tema già introdotto da Moretti.

Io non solo non nego che tangentopoli ha avuto un effetto, ma affermo che tangentopoli non è meccanicamente l’effetto dell’89.

Probabilmente l’89 libera una magistratura che in qualche modo era pressoché tutta dentro il sistema, e la fa emergere come un potere corporativo fortissimo, come uno dei più grandi soggetti politici in campo.

Tangentopoli è, la definirei cosi, una rottura dei rapporti fra i poteri, una rottura dei vecchi equilibri esistenti fra i vari poteri dello Stato. Non esiste vuoto nella storia del potere, ed è evidente che se si ritirano alcuni poteri altri occupano lo spazio che si trovano davanti. In questo caso la magistratura, il potere giudiziario ha occupato tutto lo spazio che il potere politico ha abbandonato. E di fronte a quel vuoto totale, l’invadenza del potere inquisitorio diventa -lasciamo stare se bene, male, giusto, non giusto – debordante.

 

E sulla Lega

Sul terreno politico non è certo un caso che il primo elemento che segnala la crisi del sistema è rappresento dalla Lega Nord.

La Lega nella sua forma forte, cioè la forma “repubblica del Nord”, la forma secessionista.

Sembra localismo, e poi diventa invece un fatto primario.

Al di là dei numeri, la Lega gioca un ruolo essenziale nella crisi italiana, anche perché Bossi bene o male la tiene intelligentemente sul fronte su cui è nata.

In Italia è avvenuto che la prima forma di risposta alla destrutturazione del sistema politico è stata di tipo secessionista. E questo pone il problema della questione nazionale.

 

La questione costituzionale

Vorrei fare ancora un’osservazione. Penso anch’io che la scelta dell’assemblea costituente presenti più rischi che vantaggi.

Personalmente insisto sul fatto che la profondità della crisi istituzionale in Italia è delle dimensioni che è perché ha messo in discussione i grandi soggetti politici che erano i soggetti della decisione. Ciò non è avvenuto altrove. Che cos’è una questione costituzionale? Io la stringerei intorno a questa domanda: chi decide che cosa. La costituzione è questo. Il rapporto tra il potere e le decisioni. “Chi decide che cosa” nel complicato rapporto tra costituzione formale e costituzione materiale; fra presenza dei partiti e rapporto tra partiti, parlamento e governo: tutto questo in Italia è entrato radicalmente in fase di destrutturazione.

Basterebbe citare la caduta dei partiti tradizionali che sono stati il tessuto dell’organizzazione della costituzione materiale italiana. Donde nasce la domanda: i “nuovi” partiti che si vanno formando in che modo riusciranno a conservare il loro ruolo nella costituzione materiale dell’Italia? In che misura ci sarà qui un cambiamento sostanziale? Già si intravedono forti volontà di conservazione.

Quindi la profondità della crisi istituzionale italiana e la sua coincidenza con la crisi del sistema politico, sta nel fatto che tutto il sistema dei rapporti tra poteri e forze politiche, governo, parlamento e partiti, si è destrutturato. E questo ci fa tornare sul vuoto che si è determinato, sul fatto che camminiamo in un immenso magma rispetto al quale diventa difficile trovare le soluzioni. Da qui, la lunghezza della crisi italiana. Da qui, una transizione che sarà probabilmente ancora molto lunga e complessa.

 

VINCENZO MORETTI

I poteri forti

Vorrei tornare sul rapporto tra economia e politica visto dal versante nazionale, che è un versante per noi, per ovvie ragioni, assai degno d’attenzione.

Giulio Sapelli, in un bel libro intitolato Cleptocrazia, il meccanismo unico della corruzione tra economia e politica ha definito il capitalismo italiano «prodotto storico di un capitalismo familistico amorale e collusivo con la balcanizzazione della pubblica amministrazione, nell’assenza di solide istituzioni politiche e di mercato, nell’emergere impetuoso di nuove particolaristiche classi politiche». E sugli stessi temi si sono cimentati in tanti, magistrati come Paolo Mancuso, studiosi come Roberto Esposito, personalità come Massimo Cacciari.

Eppure, sperando che Giuseppe Verdi non si rivolti nella tomba, verrebbe da dire che “l’impresa è immobile, qual che sia il vento”.

La dinastia degli Agnelli ha percorso senza scosse la storia e la politica di questo secolo; Berlusconi, “nato” imprenditore edile, ha costruito, con l’aiuto di un Presidente del Consiglio di nome Craxi, un impero mediatico e finanziario ed è diventato, per un numero molto consistente di italiani, l’uomo della speranza; Cuccia sta lì, emblema di un potere economico immutabile, eterno.

Poi, certo, ciascuno di loro e tanti altri con loro hanno vissuto e stanno vivendo giornate amare. Ma una critica e una riflessione approfondita sui caratteri del capitalismo italiano non c’è, 0 almeno non emerge.

Questi “poteri forti” nel nostro Paese sono dunque talmente forti da essere intoccabili? E sono effettivamente destinati a navigare oltre le colonne d’Ercole della crisi senza mettersi ed essere messi in discussione?

 

RICCARDO TERZI

L’impresa che cambia

Vorrei fare un osservazione sulle cose che diceva Moretti. Se guardiamo ai rapporti tra il sistema politico e il sistema delle imprese non è vero che le cose sono rimaste ferme.

Oggi il sistema delle imprese non è più soltanto Agnelli, Cuccia, Pirelli.

Tradizionalmente le grandi famiglie del capitalismo italiano avevano un rapporto organico con i partiti di governo, avevano una propria capacità di influenza, senza intervenire in prima persona nell’agone politico. Vi fu il tentativo di Umberto Agnelli, ma aborti rapidamente.

In generale c’era una sorta di delega fiduciaria al sistema politico in cambio del sostegno al sistema dell’impresa e di una organizzata politica di favori.

Ciò che è avvenuto in questi anni modifica le gerarchie del capitalismo e trasforma profondamente la stessa composizione della Confindustria. Non c’è più soltanto la Fiat, non ci sono più soltanto le grandi imprese, ma c’è un nuovo protagonismo di tutta la rete delle piccole imprese ed un’articolazione, una dialettica interna al mondo delle imprese molto più vivace di prima.

Non a caso il nuovo presidente della Confindustria è Fossa, rappresentativo di questa realtà delle piccole imprese.

E, contemporaneamente, viene meno il rapporto fiduciario con i politici.

Alle spalle del fenomeno Lega della prima ora e, successivamente, del fenomeno Forza Italia, c’è questa rottura rispetto al sistema politico tradizionale, soprattutto da parte di questa rete di piccole imprese.

Berlusconi, pur essendo un potere forte, riesce a collegarsi con questo humus e, con uno strappo alla prassi precedente, si propone direttamente come protagonista politico.

Certamente tutto questo andrebbe analizzato più a fondo, ma non mi convince molto una rappresentazione nella quale il sistema politico si è mosso ed è entrato in crisi, mentre quello delle imprese è rimasto sostanzialmente fermo.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

La modernizzazione ineguale

L’osservazione di Moretti a me sembra molto interessante e vorrei provare a metterne in luce l’elemento di verità, non so se collegato immediatamente alla fenomenologia attuale, ma relativo a un dato abbastanza significativo della storia italiana di questo cinquantennio.

Mi riferisco al rapporto molto forte, di cui c’è stato svelato il gioco di intrecci e perfino la degenerazione, che tradizionalmente c’è stato tra politica e impresa e che, qui concordo con Terzi, oggi sta cambiando. In che maniera ciò sta avvenendo? In che forma si è modernizzata la società italiana? Mi sembra questo l’aspetto più interessante del problema.

Credo che si possa tranquillamente affermare che nel nostro Paese il processo di modernizzazione ha camminato su gambe differenziate, che c’è stato uno squilibrio tra la dimensione economico imprenditoriale e quella partitico politica, che andrebbe approfondito e meglio valutato, e che ha generato non pochi scompensi.

 

La pubblica amministrazione

Vogliamo fare un esempio? La modernizzazione italiana non ha interessato la pubblica amministrazione e ciò ha rappresentato un vincolo certo non indifferente rispetto ai suoi esiti. La mancata modernizzazione della Pubblica amministrazione si è tradotta infatti in una discrasia tra modernizzazione politica in senso lato e modernizzazione economica.

Si potrebbero fare altri esempi ma ciò che mi interessa di più sottolineare è invece, su un terreno politico più attuale, la questione del consenso.

 

Il capitalismo tradizionale

C’è un capitalismo storico italiano che sta giocando una partita tutta interna al tentativo di creare le condizioni per il ritorno ad un assetto tradizionale della politica italiana, che sta tentando, insomma, di riallacciare i fili di una storia che tutto sommato gli andava anche bene. Io l’ho sempre vissuta così, da quando Agnelli ha sostenuto sostanzialmente il centrosinistra, perfino durante la gestione Occhetto, più “movimentista” e dunque più aperta a soluzioni impreviste.

Si può perciò spiegare perché c’è tutta una sezione del capitalismo finanziario, del capitalismo soprattutto produttivo che continua, e secondo me continuerà a scegliere, l’Ulivo.

E non è un caso che sia Prodi il punto di unificazione. Egli è stato un interprete di primo piano di quel capitalismo pubblico che ha avuto sempre una forte attenzione verso i grandi centri di potere.

 

E il capitalismo invadente

All’opposto c’è un capitalismo selvaggio, nuovo, invadente, che fa direttamente politica, che non rispetta più le differenze, in questo senso è iconoclasta, che rompe i precedenti equilibri fra impresa e politica, che si sta schierando dall’altra parte, anche se problematicamente, perché Berlusconi è un personaggio talmente “violento” e ambiguo nella sua fisionomia complessiva, che pone problemi anche a loro.

Ma se Berlusconi avesse saputo gestire meglio questa sua fisionomia, avrebbe potuto giocare una partita ben più sottile e complicata. Ma quanto contano in questo le insufficienze culturali! Mi rendo conto di aver tagliato le questioni troppo di netto, ma nel rapporto tra capitalismo tradizionale e capitalismo “invadente” c’è una questione forte che riassume oggi i problemi della concentrazione di potere e entra nel problema della democrazia.

 

 

 

2 – C’ERA UNA VOLTA UN PAESE

 

ROSARIO STRAZZULLO

La crescita senza modernizzazione

Trovo assai interessante quest’ultima parte del discorso. In qualche modo a mio avviso essa ripropone molti problemi dello sviluppo italiano, della crescita senza modernizzazione che ha caratterizzato il nostro Paese.

Abbiamo poche grandi imprese che realmente competono a livello internazionale mentre il vasto pianeta rappresentato dalle piccole imprese è stato per troppo tempo sottovalutato.

Come avete ripetutamente sottolineato, il 1989 rappresenta uno spartiacque.

Ma insisto. Tutto quanto ha preceduto questa data non è ininfluente sulle caratteristiche che assumerà la fase di ricostruzione, sul come si esce dalla transizione.

 

C’era una volta un Paese

Questo è un Paese che non sta più insieme da molto prima dell’89. Se devo fare un paragone, penso al bellissimo film di Kusturica, Underground. C’era una volta un paese.

La sensazione è che l’Italia sia una sorta di Iugoslavia non violenta, almeno per ora, in cui c’è un processo strisciante di rottura che le culture politiche, quelle tradizionali e quelle nuove, da tempo non sono più in grado di arginare.

Attorno a questo punto si potrebbe sviluppare ulteriormente il ragionamento, già altrove affrontato da De Giovanni, attorno al rapporto tra crisi del meridionalismo e crisi dell’unità nazionale.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

La questione meridionale

L’Italia ha avuto permanentemente nella sua storia elementi di grandi difficoltà e la questione meridionale ne è uno degli esempi più emblematici.

Non esiste un’altra questione meridionale con gli stessi tratti in nessun altro paese d’Europa.

E soprattutto non è mai esistita, anche in quei Paesi in cui comunque ci sono differenziazioni e dualismi, una cultura politica come quella che in Italia ha dato vita, dall’unità nazionale in poi, al meridionalismo.

In Italia la vicenda nord sud ha assunto caratteri così forti e peculiari da condizionare il dibattito sull’unità nazionale e le forme della discussione politica.

 

Una nazione difficile

Strazzullo ha posto una questione importante. Che io però non riassumerei nella forma drastica “non riusciamo a stare insieme” ma la collocherei nella sua dimensione storico politica, per capire quali sono nella storia d’Italia le ragioni che hanno fatto di questa una nazione difficile, una nazione nella quale lo stare insieme, le forme dello stare insieme nei momenti critici vengono radicalizzate all’interno di culture politiche e messe in discussione.

 

Le culture e la mancata coesione del Paese

La crisi del meridionalismo è la crisi di una cultura politica che ha aiutato a tenere insieme l’Italia, che ha aiutato a pensare alla questione meridionale come questione nazionale. A parte alcune forme di meridionalismo secessionista (perfino Salvemini lo era in qualche misura) il meridionalismo classico, da Villari a Gramsci, è una cultura che ha tentato di pensare l’Italia e di pensare la questione meridionale come una questione nazionale. La crisi del meridionalismo non a caso viene fuori nel momento in cui emergono culture secessioniste.

Pur senza stabilire riflessi e condizionamenti meccanici tra queste due cose, sta di fatto che viviamo anni nei quali la crisi del meridionalismo coincide con la crisi di quelle culture che hanno aiutato a pensare l’Italia, a pensare cioè il nesso nord sud e a pensare il Mezzogiorno come questione nazionale.

Nel momento in cui le culture del meridionalismo crollano, non a caso, secondo me, emergono forme di coscienza “nazionale” che propongono un altro tipo di analisi e un altro modo di affrontare questo nodo essenziale della questione italiana.

 

RICCARDO TERZI

Il ruolo della Lega

Vorrei affrontare questa questione ritornando sul fenomeno Lega.

Si è detto che la Lega appare una prima risposta, inquietante, alla crisi politica. E che di tale fenomeno, della sua importanza, c’è stata una generale sottovalutazione.

Ricordo che a Milano, qualche anno fa, la CGIL lombarda fece, partendo dai risultati di una ricerca, un primo tentativo di analisi. Per conto della CGIL nazionale intervenne Ottaviano Del Turco che affermò che la Lega era un fenomeno folcloristico destinato ad un rapido declino. Oggi sappiamo invece come è andata per la Lega, e per il partito socialista. Ma al di là dell’episodio, credo si debba riconoscere che c’è stata una generale difficoltà a capire.

Proviamo dunque a chiederci cosa c’è dietro il fenomeno Lega.

A mio avviso c’è sicuramente una parte di società settentrionale che sta vivendo un processo di sradicamento, che è come spaesata, che fa fatica a reggere il ritmo della modernizzazione e della competizione internazionale e quindi si rifugia nel mito, nella ricerca dell’identità perduta.

Da qui il ritorno al folclore, al dialetto, al localismo; il rimpianto di un equilibrio sociale che si è rotto, la ricerca di una comunità. Sono quelle che alcuni sociologi chiamano “aree tristi”, aree non particolarmente sviluppate, che sentono messo in pericolo il loro equilibrio.

Poi ci sono i ceti rampanti, quelli che hanno assunto iniziative imprenditoriali anche molto spregiudicate, che vogliono affermarsi in prima persona e sentono il vecchio Stato come uno Stato che li soffoca con il peso fiscale e con una macchina amministrativa eccessivamente rigida. Siamo di fronte, in questo secondo caso, a soggetti che mettono in campo aspirazioni ed iniziative secondo modelli molto individualistici. E non a caso in una fase successiva questa seconda area si sposta in gran parte dalla Lega a Forza Italia.

I ceti rampanti, infatti, non sono tanto interessati al recupero dell’autonomia lombarda o all’autonomia del Nord, quanto a un modello di sviluppo iperliberista e di smantellamento dello Stato.

Per gli uni e per gli altri il disegno politico della Lega ha finito per rappresentare un punto di riferimento.

 

Biagio De Giovanni

Una difficile separazione

Questa è la ragione per la quale poi in realtà la separazione tra Lega e Forza Italia è più difficile di quel che sembra.

 

RICCARDO TERZI

Le comuni radici

Sì, tra Lega e Forza Italia c’è conflitto, ma anche radici comuni.

Nel momento in cui è entrato in crisi il sistema politico, la spinta autonomistica del Nord è diventata molto forte, fino al limite del separatismo. Intendiamoci, nel Nord c’è sempre stata una rivendicazione di autonomia e la convinzione di un primato, di un ruolo egemone, sintetizzata dall’idea di Milano capitale morale ed economica. Periodicamente questa spinta, questa rivendicazione di primato del Nord contro Roma capitale del politicismo corrotto, ritorna.

Nel momento in cui salta il sistema politico, tale spinta, prima sotterranea, viene alla luce con molta forza.

In questa situazione non c’è dubbio che occorre riaffermare il bisogno di coesione nazionale.

Come si rimette insieme una nazione La mia opinione è che però non faremo nessun passo avanti se ci limitiamo a una sorta di difesa retorica della Nazione, un po’ alla Scalfaro. Le grandi prediche non servono a nulla e quando si risponde alla Lega su questo terreno gli effetti sono controproducenti.

Secondo me, dobbiamo ragionare su come si rimette insieme la nazione attorno ad una linea che risponda anche ad alcune esigenze reali che la Lega ha sollevato, in particolare per ciò che riguarda una maggiore autonomia per le diverse realtà territoriali.

L’Italia è di per sé una nazione molto particolare, fatta di molte differenze. Per questo io dico che una ricerca sul tema del federalismo ci aiuta, non a rompere, a disgregare l’unità nazionale, ma a rimetterla in piedi su basi più solide.

 

Il federalismo

Se riconosciamo che non funziona più un modello tutto centralistico di direzione e di governo, e se non vogliamo che queste spinte separatiste diventino davvero molto forti e incontrollabili, bisogna trovare un nuovo modello di funzionamento dello Stato che riconosca livelli ampi di autonomia, di autogoverno, ed un nuovo equilibrio tra poteri centrali e poteri locali.

Devo dire che in parte questa consapevolezza si è affermata. Anche a sinistra. C’è stata una evoluzione, cominciano ad esserci delle ricerche e degli studi seri su questo aspetto.

È questo il tema principale da affrontare in un disegno di riforma delle istituzioni. Non serve a nulla garantire maggiore forza, maggiore stabilità al governo centrale, se nel contempo non si riequilibrano i poteri nel rapporto tra stato centrale e autonomie locali.

Come si rimette insieme una nazione? Può essere questo il tema, la domanda da cui può venire la risposta per uscire dalla transizione. È il tema politico-istituzionale del ruolo degli Stati nazionali nel rapporto con il processo di globalizzazione.

 

VINCENZO MORETTI

La democrazia incompiuta

Vorrei fare qualche considerazione ulteriore ritornando su una questione che abbiamo già affrontato nel corso di un seminario a Vico Equense: la democrazia incompiuta.

E vorrei dire che di cose compiute in questo Paese, anche guardando a un po’ di anni addietro, se ne vedono poche, in particolare nel campo della politica. Mentre si abbonda in Cose affastellate, inutilmente complicate, bizantine al punto che un termine come “inciucio” può far parte del lessico politico corrente.

Prendiamo un tema come la solidarietà, di cui si fa un gran uso nel dibattito su meridionalismo, federalismo, unità della nazione.

 

Dalla solidarietà apparente al dominio degli interessi

Ebbene, dalla mia esperienza di dirigente sindacale credo di poter desumere che perfino nelle fasi nelle quali c’è stata una effettiva solidarietà nei confronti del Sud, essa si è retta sul terreno degli affetti, delle ideologie politiche, anche dei valori condivisi, senza però mai riuscire ad aggredire il terreno degli interessi. La crisi della politica ha in qualche modo, uso volutamente un’espressione forte, liberato i rozzismi, gli spiriti animali, cosicché la spinta alla mera rappresentazione degli interessi ha come perso ogni freno inibitorio. Ma tra le due fasi c’è, a mio avviso, un legame meno esile di quanto comunemente si è portati a immaginare.

 

Perché il federalismo

Personalmente, guardo alla riorganizzazione dello Stato in senso federalista come una risposta utile e giusta alla crisi dell’unità nazionale. Non vedo molte altre possibilità, strade migliori o più efficaci per migliorare i rapporti tra Nord e Sud, per giungere ad un nuovo patto, un nuovo assetto istituzionale del Paese.

Da questo punto di vista, cosi come credo ad una Germania forte solo nell’ambito di un’Europa unita, ritengo che coloro che immaginano un Nord forte ed un Sud che sta fuori dall’Europa commettano un grave errore di valutazione.

Ancora una volta si può portare ad esempio ciò che sta avvenendo in settori importanti della nuova economia.

 

La rete

Quello che oggi viene ritenuto l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, ha costruito il proprio successo sul terreno delle relazioni. Egli è riuscito ad aumentare enormemente affari e profitti perché ha compreso l’importanza di non crescere nel deserto, di favorire in qualche modo la crescita dell’intero sistema produttivo.

Autonomia. Integrazione. Cooperazione. Saranno queste a mio avviso le idee e le scelte vincenti del futuro prossimo.

 

Ripensare l’unità della Nazione

Per tornare al nostro ragionamento, credo che dovremmo ripensare criticamente il concetto di unità nazionale così come lo abbiamo vissuto negli anni che abbiamo alle spalle.

Lo ripeto: la coesione è stata molto forte quando non intaccava il “nocciolo duro” degli interessi. Quando ciò non è stato più possibile, per le trasformazioni dell’economia avvenute a livello mondiale e per la crisi dello stato sociale a livello delle singole nazioni, si sono aperti molti e consistenti problemi.

La ricerca che ci deve portare alla ridefinizione di un’ipotesi di coesione nazionale, non può che partire da una proposta che si muova su questo doppio binario: civiltà e interessi.

Lo sento come un tema forte.

 

Quale globalizzazione

La stessa globalizzazione non può essere affrontata soltanto dal versante dei processi economici, ma deve esserlo anche dal punto di vista delle politiche sociali, di un idea nuova di civiltà, di un idea nuova di relazioni in Europa, tra area del Mediterraneo ed Europa, tra Europa e resto del mondo.

Sono temi che non di rado sono presenti nelle nostre discussioni. E che però non producono iniziativa politica.

Se la politica deve riconquistare un ruolo rispetto all’economia, non deve partire anche da queste cose? E dentro queste cose ci può stare una nuova idea forza di nazione e di nazioni in Europa?

 

Un doppio movimento

Terzi ha introdotto il concetto che a me piace molto di “doppio movimento”. Un movimento che sposta la nazione, lo Stato, verso l’Europa, e che quindi richiede un governo dei processi di dimensione europea. E un movimento che sposta lo Stato verso il basso, verso i poteri locali, i poteri decentrati, e dunque verso la responsabilità.

Qui vedo la possibilità di indicare idee forza, di indicare programmi, di indicare soluzioni, perché altrimenti, per usare un’espressione molto efficace che altre volte ho sentito da De Giovanni, la “nuova politica” su quali gambe la facciamo camminare?

 

RICCARDO TERZI

La DC e il PCI

Prima di vedere quali sono le risposte politiche, le idee forza, con le quali affrontare la transizione, forse dobbiamo ancora soffermarci su qualche elemento d’analisi.

Come diceva Moretti, la presenza di un sistema politico molto forte, e di forti identità collettive, rappresentava una specie di antidoto contro il pericolo di essere guidati soltanto da interessi immediati, corporativi.

La capacità di esprimere una coesione che metteva insieme interessi diversi era una caratteristica sia della Democrazia Cristiana che del Partito Comunista.

La Democrazia Cristiana era sicuramente interclassista, il Partito Comunista che pure si definiva partito di classe, in realtà ha sempre rifiutato l’operaismo e ha sempre guardato con grande attenzione ai ceti medi, proponendosi come grande forza nazionale.

Nel momento in cui c’è la crisi delle strutture politiche, delle ideologie, c’è il rischio che si perda ogni capacità di condizionamento e di freno, e che l’unico orizzonte possibile diventi quello dell’interesse corporativo immediato.

 

La politica senza solidarietà

È in larga parte ciò che è avvenuto in Italia. Ne parlavo prima riferendomi alle radici della Lega: ci sono pezzi di Paese che non riconoscono più l’equilibrio nazionale né, tantomeno, il bisogno di essere solidali con il Sud.

Vengono meno i vincoli della solidarietà sociale, e si determinano processi di tipo disgregativo estremamente rischiosi.

Mentre i partiti diventano sempre più marginali, l’unica forza che cerca di fare società, di fare solidarietà, oggi è la Chiesa, che non a caso resta un punto saldo anche sul terreno della difesa degli immigrati. Dal punto di vista sociale, il ruolo della Chiesa e delle sue organizzazioni collaterali è oggi di straordinaria importanza, perché riesce a mettere in campo un’attività diffusa e concreta di solidarietà, di accoglienza, di protezione sociale. Ciò agisce come contrappeso rispetto alle tendenze di fondo della società competitiva. Il sistema politico sembra invece muoversi a rimorchio dell’esistente, in balia degli interessi organizzati, e fa sempre più fatica a tenere insieme interessi diversi, a produrre una sintesi, a progettare un modello di società.

 

Una strategia per la transizione

La transizione sarà lunga, sono perfettamente d’accordo con De Giovanni: è così profonda la crisi della cultura politica e del sistema politico-istituzionale che non è assolutamente pensabile che da essa si possa uscire rapidamente.

Per ricostruire un equilibrio sociale, una coesione nazionale che oggi è seriamente messa in crisi, dobbiamo darci una strategia capace di reggere i tempi lunghi.

Proviamo allora a vedere questa strategia di lungo periodo in che cosa consiste, e quali sono le principali iniziative da mettere in atto.

 

Le tante cose da fare

Una delle cose che ritengo importanti e su cui vorrei tornare è il tema del federalismo: come ricostruire su basi diverse l’unità nazionale e come mettere mano al funzionamento concreto dello Stato, ai meccanismi di distribuzione del potere, alla riorganizzazione della pubblica amministrazione.

Il rischio è, in alternativa a questa operazione faticosa e necessaria di intervento concreto sulle cose, prevalga la risposta puramente simbolica: il presidenzialismo, l’Assemblea Costituente, lo stesso federalismo nella sua versione agitatoria e mitologica. C’è il rischio della retorica, del predominio delle parole sulle cose.

Personalmente non credo che ci siano risposte miracolistiche e ritengo molto pericoloso alimentare illusioni di questo tipo. Con ciò si alimentano aspettative messianiche, e inevitabilmente ne deriva un contraccolpo gravissimo nel rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini.

Le cose a cui mettere mano sono tante e non poco complicate, riguardano la coesione nazionale, gli equilibri sociali, il funzionamento concreto dello Stato. Dobbiamo darci un programma che affronti complessivamente questi temi.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Oltre i confini

Si stanno forse accavallando troppi temi e bisogna ritrovare un po’ di ordine nella discussione. Ho l’impressione che molti problemi non possano essere affrontati mantenendola in un ambito solamente nazionale.

Riprendendo il discorso che faceva Moretti all’inizio anche a me interessa molto approfondire una questione precisa, da cui peraltro siamo partiti: qual è oggi il rapporto tra economia e politica. Credo che dobbiamo provare a farlo nel solo modo utile in una sede come questa, guardando agli sconvolgimenti che stanno avvenendo nel mondo.

 

La crisi della politica?

La politica non riesce più a governare i processi reali. Quando Moretti sostiene che la crisi della politica, che coincide con la crisi degli stati sociali, ci consegna la liberazione degli spiriti animali nel mondo degli interessi, dice una cosa molto vera.

Contemporaneamente però occorre dare determinatezza storica a questa crisi della politica, perché altrimenti rischia di diventare la crisi di una categoria dello spirito.

La politica non è mai in crisi, perché anche questa immediatezza degli interessi è politica.

Non è un caso che essa richiami le politiche anti-deficit e le politiche di stabilità, quelle politiche che gli Stati sociali mettevano in secondo piano non per dimenticanza, ma perché il deficit pubblico faceva parte organicamente delle loro strategie e che invece ridiventano di difficile realizzazione nel momento in cui gli stati sociali, per le ragioni che sappiamo (globalizzazione e tutto il resto), entrano in crisi.

 

La crisi degli stati sociali

Quindi più che di crisi della politica, parlerei di crisi degli stati sociali ovvero della forma nella quale la politica democratica, in maniera storicamente determinata, si è affermata in Europa negli ultimi cinquanta anni. Dentro questa crisi della politica c’è la crisi della qualità della democrazia europea, o per meglio dire delle forme storicamente determinate della democrazia europea.

 

Le nuove forme di regressione sociale

Certamente, questa separazione tra economia e politica, di cui si parlava, questa “liberazione” degli interessi pone la necessità di ritrovare un nuovo livello di mediazione.

Essa sta infatti determinando in tutto il mondo, o almeno sia in America sia in Europa, nuove forme di regressione sociale, cioè nuove forme di divisione all’interno della società.

Ciò richiede un’analisi ancora tutta da fare, perché ciò che sta avvenendo non ha molto a che vedere con la vecchia analisi di classe.

 

Povertà e ricchezza

Siccome si è rimescolato tutto dal punto di vista delle forze sociali, anche “povertà” e “ricchezza” hanno la necessità di essere ripensate e nuovamente riorganizzate dentro un altro schema di analisi, che non può essere quello classicamente marxiano.

Lo schema della lacerazione sociale che era stato contenuto dentro un modo di intendere il rapporto tra economia e politica, tipico dei compromessi sociali europei del Novecento, è tutto davanti a noi, è tutto da ridefinire.

Questo è un punto. E questo punto non lo possiamo toccare se non affrontiamo prima globalizzazione e quindi Europa, perché tutto quello che si muove intorno a noi mostra che questo non è un tema solamente italiano.

 

Il tema Europa

È un tema che in Italia ha una particolare fenomenologia, ma dovunque le cose cominciano a rappresentarsi con alcune significative assonanze: basterebbe richiamare l’esempio francese, ancora abbastanza recente, e quello tedesco, in corso, per rendersi conto di come oggi le politiche anti deficit stimolino una lacerazione e una risposta sociale.

A mio avviso siamo in presenza di un problema straordinariamente complicato, e cioè come si risponde al problema della spesa pubblica e del connesso deficit pubblico in una situazione post stato sociale. Non è un tema da poco. È un filone che richiede una riflessione sui temi internazionali e sul tema Europa. Senza non ne usciamo.

 

Coesione e Stato nazionale

L’altro filone naturalmente è per definizione nazionale, perché quando parliamo di coesione nazionale parliamo di stato nazionale. E questo è un filone che possiamo anche discutere separatamente, sia pure mantenendo l’opportuno equilibrio con l’altro. L’importante è evitare l’accavallarsi di due temi che nella loro unità e nel loro rapporto vanno comunque tenuti distinti.

Sulla questione nazionale io voglio limitarmi per ora semplicemente ad aggiungere una riflessione, relativa al federalismo.

 

Ancora sul federalismo

Sia ben chiaro che non ho una pregiudiziale antifederalista. Mi limito a fare alcuni rilievi.

Il primo rilievo è ancora una volta storicamente determinato, perché per formazione amo discutere in questo modo.

Il federalismo nella storia d’Italia è sempre intervenuto in forma secessionista.

Quando Terzi giustamente richiama con molta forza la questione Lega, mi trova del tutto d’accordo.

 

La Lega e la nuova destra

Io continuo a ritenere che la Lega sia uno dei veri fatti nuovi della situazione post anni novanta, quando è esploso come fatto politico generale; rimango anche convinto, senza entrare nel campo delle previsioni, che essa è morfologicamente legata alla nuova destra italiana. Forse c’è la tendenza a rimuovere tutto questo perché si e avuta la sensazione che potesse accettare un accordo con l’Ulivo. Ma in realtà la situazione è un po’ più complessa.

Ritorniamo al punto, e ragioniamo sul perché il federalismo compare nella storia nazionale in forma sostanzialmente secessionista sia nel momento in cui si fa l’unità d’Italia, dal progetto Minghetti in poi, sia nella fase attuale, sempre nella forma di lacerazione e incompatibilità tra nord e sud.

 

Il tema dello Stato

La pubblica amministrazione è il luogo storico in cui l’accumularsi di Stato sociale e mediazione di grandi partiti di massa, ha prodotto i problemi ben noti. Da questo punto di vista non ho alcuna difficoltà a riconoscere che oggi il tema dello Stato non si può risolvere senza il tema delle autonomie.

Questo è ancora una volta un tema costituzionale. Chi decide che cosa? Il problema della Costituzione è questo. C’è quindi una doppia questione: come si ridistribuiscono i poteri e le responsabilità.

 

Come stare assieme?

Se ci poniamo però il problema del come stiamo insieme, non possiamo dire, non lo consente la cultura politica italiana, per quello che le parole hanno significato e possono significare, che la soluzione sia, senza aggettivi, il federalismo.

Perché è storicamente difficile innescare questa parola nella storia d’Italia senza immediatamente ottenere risonanze di tipo separatista.

 

L’importanza del lessico

Queste cose contano, perché il lessico non può essere soggetto a tatticismi né lo si può inventare giorno per giorno.

Personalmente ritengo che il lessico fa parte delle strategie e che dobbiamo stare attenti a come usiamo le parole se non vogliamo che ognuno attribuisca diversi significati alle stesse cose o chiami nello stesso modo cose diverse.

 

Unità e distinzione

Entriamo ora nel merito delle forme nelle quali dobbiamo immaginare questo rapporto tra autonomia e unità, perché nello stesso tempo in cui rinsaldiamo l’autonomia, dobbiamo rinsaldare l’unità. Se ci limitassimo infatti a rinsaldare le autonomie, non risponderemmo al tema che abbiamo davanti e cioè come stiamo insieme, perché stare insieme è unità e distinzione, come ha detto Terzi in un’altra occasione.

 

Il movimento della realtà

Io la vedo in termini filosofici, lui lo dice in termini politici. Unità e distinzione, me lo insegnava Croce quando ero “guaglione”, è questo il movimento della realtà.

Sono i due nodi che vedo distinti.

Il nodo economia politica come effetto della globalizzazione e quindi come tema che ci porta immediatamente a parlare del rapporto Italia-Europa e del rapporto Europa-Mondo.

E come riorganizzare il rapporto tra unità e distinzione senza qualificarlo ideologicamente in una forma che poi può significare cento cose diverse. È il tema nazionale che ha forti ricadute sul terreno costituzionale.

 

RICCARDO TERZI

L’equilibrio tra unità e distinzione

Sulla questione del federalismo vorrei dire, in particolare a De Giovanni, che se assumiamo come base della discussione la necessità di trovare un punto di equilibrio tra unità e distinzione, tra coesione nazionale e sviluppo dei sistemi e delle autonomie territoriali, probabilmente le differenze tra di noi non sono così marcate.

Io credo però che sia utile e corretto parlare di federalismo e non soltanto di sistema di autonomie.

 

I limiti delle autonomie

In primo luogo perché abbiamo già alle spalle una storia di autonomie locali, di autonomie regionali, che non ha dato fin qui risposte e risultati sufficienti. Andare oltre, non limitarsi a riconfermare il valore delle autonomie locali cosi come storicamente si sono organizzate in Italia fino ad oggi, vuol dire essere consapevoli della necessità di fare un salto, di introdurre una modifica profonda nel corso delle cose. Il termine “federalismo” indica appunto questa necessità di una rottura e di un rinnovamento profondo nell’ordinamento dello stato.

 

Alcuni cenni storici

È vero. Il federalismo nella storia italiana ha avuto i connotati che ricordava De Giovanni.

Ma perché è sempre stato un movimento molto minoritario, ed i movimenti minoritari tendono a radicalizzarsi.

Nella Costituente prevalse giustamente una linea di prudenza, perché in quel momento sembrava rischioso fare un’operazione di riforma istituzionale basata su un regionalismo forte: l’Italia usciva a pezzi dalla guerra ed era necessario in primo luogo ricostruire l’unità nazionale.

Oggi tale prudenza non ha più ragione di essere. È all’inverso il mantenere questo modello centralizzato di Stato che rischia di alimentare le spinte disgreganti, le spinte secessioniste già molto forti in alcune aree del Nord.

 

Cercare nuove soluzioni

Ricercare una soluzione del problema che rappresenti effettivamente un salto di qualità rispetto all’esperienza passata vuol dire fare delle Regioni una cosa completamente nuova rispetto a quello che sono state fino ad oggi. Ed in questo quadro i modelli, per quanto possano valere, sono gli stati di tipo federale. Guardo ad esempio all’esperienza tedesca e trovo lì una soluzione che può essere un punto di riferimento anche per noi.

 

L’esempio tedesco

Nel modello federale tedesco l’amministrazione, anche per le materie che sono regolate da leggi nazionali, è completamente decentrata al livello dei Lander, tranne che per poche ed eccezionali funzioni, come ad esempio la difesa nazionale. Ciò comporta una riorganizzazione totale di tutta la macchina amministrativa e rappresenta perciò un’occasione privilegiata per ricostruire su nuove basi e con nuovi criteri di efficienza le strutture dell’amministrazione pubblica.

Inoltre, un punto chiave della riforma dello Stato è la trasformazione dell’attuale sistema parlamentare con l’istituzione di una Camera delle Regioni, sul modello del Bundesrat tedesco. La seconda camera dovrebbe essere, in questa logica, una espressione diretta dei governi regionali, diventando così la sede in cui si coordinano le politiche nazionali e le politiche regionali.

 

Una riforma di impronta federalista

Per fare tutto questo è chiaro che c’è bisogno di una riforma costituzionale. E se concordiamo sulla necessità di avviare un’operazione di questo tipo, parlare di federalismo mi pare sia corretto, perché gli Stati organizzati in questo modo si chiamano stati federali.

 

Ancora sul federalismo tedesco

Essi possono avere livelli di autonomia anche molto differenziati: in Germania, ad esempio, il sistema federale convive con un governo centrale forte. Non a caso mi è capitato di discutere di queste cose con un esponente della Lega e mi sono sentito dire che la Germania ha un federalismo finto e che quel tipo di modello non va bene. La Lega propone infatti una cosa diversa: una forma di vera e propria indipendenza del Nord, con un legame statale debolissimo e con il diritto alla secessione.

 

Perché parlare di federalismo

Non vorrei alla fine trovarmi coinvolto in una disputa puramente terminologica.

Personalmente credo che sia corretto parlare di federalismo, anche per dare il senso di una riforma che non è in linea di continuità con il regionalismo così come lo abbiamo conosciuto in tutti questi anni, ma indica un cambiamento sostanziale del modo di essere dello Stato.

 

Quali progetti adottare

Si tratta poi di qualificare e di specificare il modello istituzionale, perché parlare in modo generico del federalismo può dare luogo a molti equivoci. Bisogna dire perciò qual è il progetto che vogliamo adottare.

C’è una linea di ricerca che si è andata via via precisando, con il progetto della fondazione Agnelli, con l’elaborazione delle Regioni, con gli studi sul federalismo fiscale, fino al documento della diocesi di Milano. In tutti questi casi si parla di un federalismo unitario e solidale, che non è la rottura dello Stato, ma un modo nuovo per reimpostare la coesione nazionale. È a questo filone di ricerca che dobbiamo fare riferimento per definire un modello di federalismo adeguato alla situazione italiana.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Regioni, Europa e Stati-Nazione

Ritengo che sia sbagliata la convinzione (non mi riferisco all’intervento di Terzi, ma a ciò che mi pare di aver colto nella prima parte dell’intervento di Moretti) che la linea di tendenza verso la quale si sta andando, ed è auspicabile che si vada, è sopranazionalità più regione, con una sorta di relativa messa tra parentesi della dimensione Stato-Nazione. Non è questa secondo me una via che l’Europa sta percorrendo. Si sta anzi incamminando sulla via opposta.

Non so se questo fatto è segno di semplice regressione e di blocco di un processo, ma non lo credo affatto.

 

Dove va l’Unione Europea

Sarebbe certamente utile ragionare più approfonditamente su che cosa sta accadendo nell’Unione Europea: se non vogliamo cadere nella sociologia politica o nella politologia, abbiamo necessariamente bisogno di valutare il contesto nel quale ci troviamo.

E anche da questo versante dobbiamo prestare molta attenzione al lessico, alle parole ed ai concetti che usiamo per definire determinati fatti.

Attenzione dunque a non immaginare cose che non stanno succedendo. In realtà, per una serie di ragioni che possono essere anche contingenti, non lo escludo, c’è una sorta di rinvigorimento delle identità statali in Europa. Dopo la rottura degli equilibri seguita all’89 da molte parti stanno avvenendo fenomeni di reidentificazione di varia natura, non necessariamente statali, spesso anche etnici.

 

Il risveglio delle Nazioni

La questione si può porre forse in questo modo: come si sta “difendendo” l’Europa dall’incalzare dei processi di globalizzazione? Da un lato affidandosi al processo di unione, che ovviamente continua ad essere in campo, anche se in una maniera quanto mai problematica, con una tendenza al ribasso che mi fa temere molto per il futuro dell’Europa. Dall’altro, forse in un momento di estrema autodifesa, recuperando delle funzioni, degli atteggiamenti, delle culture che sono state e sono proprie degli stati nazionali.

Su questo punto relativo alla funzione degli stati nazionali sarei insomma più prudente. Può anche darsi Che questo che io definisco ritorno delle nazionalità, con i problemi di reidentificazione ad esse correlati, sia un fenomeno meno profondo di quello che a me sembra.

 

I limiti del regionalismo

Tuttavia è una tendenza che c’è e alla quale non possiamo dare una risposta di tipo amministrativo tanto più se si tiene conto che il ruolo politico dell’Italia è in forte caduta.

Quindi se ci giocassimo la carta regionalista pura, immaginando che questo regionalismo possa poi avere come interlocutore principale una Europa sovranazionale, ci infileremmo a mio avviso in un vicolo cieco.

Poi può darsi che le forme regressive legate all’età di ciascuno di noi, che fanno riemergere le culture antiche mentre tutte quelle acquisite nell’età di mezzo si accorciano, mi stiano portando a ragionare come quei vecchi che si ricordano solo delle cose dell’infanzia. Ma io considero questo un passaggio sul quale riflettere a fondo.

 

VINCENZO MORETTI

L’occasione federalista

Proprio perché tu, con ragione, ti soffermi sulla necessità di lasciare la politologia fuori dalla porta e di attenersi alla valutazione del fatto storico, vorrei chiederti cosa pensi dell’esempio storicamente determinato della Germania, che a mio avviso dimostra la possibilità di avere contemporaneamente uno Stato che si può definire, perché è tale, federalista, e che contemporaneamente ha un senso della nazione certamente più forte e radicato del nostro.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Fare i conti con la Storia

La storia conta e le cose non ce le possiamo inventare volta per volta. Noi viviamo in un contesto completamente differente dalla Germania.

La Germania è un Paese sul quale bisognerebbe ragionare a fondo. Per certi versi rappresenta il problema centrale che oggi abbiamo di fronte in Europa. Ma forse arriveremo più avanti a parlare di questioni come l’Europa, Maastricht e così via.

Ribadisco il concetto: attenzione a non immaginare che i processi statali stiano defluendo da un lato verso le sopranazionalità e dall’altro verso i regionalismi. Perché non è così, almeno nella coscienza politica dei ceti dirigenti europei. Mi si può dire che magari in parte sarà così nei processi reali, e che quindi queste coscienze politiche siano isolate, regressive o conservatrici. Non lo so, è da vedere, ma non mi sembra molto probabile.

 

RICCARDO TERZI

Un diverso modello

Vorrei fare un’osservazione.

L’idea di un superamento radicale della dimensione nazionale, nel nome di un europeismo astratto e nel nome delle autonomie regionali, l’idea che si riassume nella formula dell’Europa delle regioni, non sta in piedi. In questo sono d’accordo con De Giovanni.

Però tutti i grandi stati europei il problema di una diversa articolazione tra potere centrale e poteri locali se lo stanno ponendo, anche perché c’è una spinta oggettiva che viene dal mondo dell’economia, il cui sviluppo è sempre più collegato ai sistemi territoriali.

La Spagna non è uno stato federale, ma sta andando molto velocemente su una linea di forte autonomia delle regioni. Perfino la Francia ha cominciato a misurarsi con l’articolazione regionale. Nonostante non abbiano assemblee regionali con compiti legislativi, il modello centralista puro anche in Francia non c’è più. Gli stessi laburisti inglesi stanno introducendo questo tema in un Paese che non ha mai avuto nella sua storia una dimensione regionale. In tutta Europa è in atto un processo di trasformazione delle strutture statali, più o meno profondo, e il punto di arrivo non sarà il superamento della nazione, ma un cambiamento sostanziale delle sue forme di organizzazione e in qualche modo anche una trasformazione della stessa identità nazionale.

 

Un cambiamento indispensabile

Evitiamo le espressioni troppo immaginifiche: Europa delle regioni, superamento della dimensione nazionale. Che però lo Stato nazionale debba modificarsi in due direzioni, nel senso dell’autonomia territoriale e nel senso di un raccordo con l’Europa mi sembra indispensabile. E devo dire che registro con un certo allarme il fatto che la spinta europeista si è molto allentata, si è molto affievolita.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

L’Europa delle nazioni

Per tornare alla critica dello schema sopranazionalità – regioni, penso in realtà che l’Europa o la faranno gli stati o non la farà nessuno.

Questo è un punto chiave. Che mi fa essere quindi un po’ perplesso di fronte all’affermazione che la crisi dell’europeismo si evidenzia perché ritorna una funzione forte degli stati. Al contrario io sono dell’idea che se si spinge verso un decentramento radicale dei poteri, l’Europa perde dei colpi.

L’Europa è un fatto politico. Si può ancora immaginare che vogliono poter stare insieme la Francia, l’Inghilterra, la Germania, l’Italia, ma centinaia di regioni non avrebbero più nessuna ragione per stare insieme.

 

Federazione di Stati nazionali

Non a caso Delors, creando sconcerto e interesse, usò tempo fa l’espressione, nuova nel lessico europeo, “federazione di stati nazionali”. Un’espressione che prende atto del fatto che il federalismo classico, quello spinelliano, è scomparso dalla scena culturale e politica dell’Europa, con la buona pace di molti federalisti italiani che ancora non lo sanno.

Il tema federale, il tema Unione europea torna in campo in una forma diversa. E bisognerà dire in quale forma.

Ciò detto è evidente che anche la mia è una formuletta, perché il discorso è reso estremamente complicato dall’intrecciarsi di dimensioni economiche, finanziarie, monetarie, politiche, governative, parlamentari.

Insomma dal punto di vista istituzionale c’è più di un rischio di infilarsi in un labirinto immane.

Chiarite tutte queste cose, che però per me sono importanti, perché altrimenti vedo il rischio di accodarsi ad una formula che nella sua ambiguità può significare cento cose diverse, è fuor di dubbio che il problema sia di unità e distinzione, di decentramento di funzioni anche in forma completamente rinnovata rispetto al passato.

 

Un certo scetticismo

Ancora una volta, un certo scetticismo sulla parola, sul lessico, mi deriva dal fatto che normalmente il federalismo è stato un processo dal basso verso l’alto, insomma un processo in cui realtà differenziate hanno deciso di mettersi insieme. Questo mi sembra un dato che fa parte della cultura politica del federalismo.

Siccome noi qui abbiamo un’unità statale che dobbiamo perfino difendere, dobbiamo vedere bene come farlo, perché se non la difendiamo perdiamo quel collante di cui si è parlato.

 

Nord e Sud

Contemporaneamente non possiamo dimenticare, quando parliamo di federalismo, che in Italia esiste ancora il problema nord-sud, e dobbiamo stare attenti a che il federalismo italiano, se lo vogliamo chiamare così, o le forme di autonomia e di responsabilità che dovranno essere attribuite a città e regioni, debbano tenere conto, in maniera diversa da come se ne tiene conto altrove, del fatto che esiste questo problema.

La Lega, il vecchio meridionalismo, il problema dell’occupazione al Sud, tutto questo come incide? Pongo queste domande in maniera aperta per cercare, sulla base di precisi riferimenti storici, di capire di che cosa stiamo parlando quando parliamo di federalismo in Italia.

 

Il collante meridionalista

La cultura meridionalista ha tenuto insieme l’Italia e nel momento in cui essa muore c’è qualche cosa che viene meno nel collante che tiene assieme il Paese.

Bisogna capire, quando riflettiamo sul federalismo in Italia, in che misura mettiamo nel conto la possibilità di una scissione, o se invece, e in che maniera, l’accentuarsi di responsabilità autonome può contribuire a sviluppare i pluralismi.

Francamente, non credo che si possa risolvere tutto con la parola solidarietà, o con l’espressione federalismo solidale. Cosa significa concretamente? Come evitiamo gli enormi rischi di lacerazione sociale? Questi sono i due problemi che pongo. Nessun rifiuto pregiudiziale del discorso sulle autonomie dunque, anche perché sul fatto che ci sia bisogno di una riorganizzazione dello Stato, ci sono ormai pochi dubbi.

 

VINCENZO MORETTI

Ritorno al federalismo

Vorrei soffermarmi ancora sul federalismo.

Concordo molto sulla necessita di evitare di schierarsi per partito preso e mi convince, come ho detto prima, questo continuo richiamo di De Giovanni alla valutazione dei processi reali, delle forze reali in campo.

È vero. La Germania è una cosa e l’Italia un’altra. Però registro anche che tra i processi reali di questi anni ci sono la Lega e la nuova destra e che l’una e l’altra sembrano tutt’altro che fenomeni passeggeri 0 accidentali.

Terzi ha appena detto delle cose precise rispetto alle forze che si sono riconosciute prima nella Lega e poi in Forza Italia e sulle ragioni per le quali ciò è avvenuto.

Devo dire che a me sembra evidente che queste ultime affondano le proprie radici nella fase precedente.

 

Vista da vicino

Proviamo a guardarla un po’ più da vicino l’era della unità e della concordia nazionale, e a valutare quali effetti ha determinato sulle condizioni del Sud.

A parte una prima fase di intervento della cassa per il mezzogiorno, che ha prodotto alcuni risultati positivi, i tratti caratteristici di quel periodo sono stati da una parte la spesa pubblica dissennata, l’assistenza e il mancato sviluppo, dall’altra il sostegno allo sviluppo del Nord.

Vorrei insistere su quest’ultimo punto, indicativo di una tendenza che a me non sembra affatto episodica.

 

Cose già viste

Negli anni 60 la forza lavoro meridionale si dimostra indispensabile per lo sviluppo dell’industria di massa del Nord. Sono gli anni della emigrazione con la valigia di cartone, gli anni nei quali milioni di lavoratori meridionali inseguono il sogno di un futuro migliore, per sé stessi e per i propri figli, tra le fabbriche e le periferie di piccole e grandi città del Nord.

A metà degli anni 90, complici una fase ciclica di sviluppo e la scarsità di giovani nel centro Nord si ripropone, seppure in versione ridotta, riveduta e corretta, l’esigenza di portare i giovani meridionali dove c’è il lavoro, cioè al nord.

 

La forza delle cose

Si fa una certa fatica a vedere i vantaggi che il Sud ha avuto da questa lunga fase di concordia ed unità nazionale! Contemporaneamente, nella società del nord, negli interessi politici ed economici che la animano e la muovono, vedo una insofferenza, ai limiti della rottura, che non mi sembra destinata a passare. Scusate la frase troppo perentoria, ma mi pare evidente che sono stati i commercianti ed i piccoli imprenditori del nord ad “inventare” la Lega e non viceversa. E, francamente, sulla sostanza delle loro rivendicazioni non mi paiono disposti a cedere tanto facilmente.

 

Un nuovo patto

D’altra parte anche il Sud credo che abbia oggi tutto l’interesse a proporre un nuovo patto con il Nord del Paese. Un patto capace di tenere assieme solidarietà ed interessi. Un patto fondato sulla promozione e lo sviluppo delle risorse umane e materiali a livello locale.

Imparare a ragionare, e a fare, come soggetti capaci di indicare soluzioni ai propri problemi, e capaci di costruirsele, mi pare una maniera utile per giungere ad un modello di relazioni tra diversi all’interno di una nazione. E per promuovere un nuovo protagonismo della società meridionale.

Credo perciò che l’esigenza di costruire un equilibrio tra i poteri in senso federalista sia nelle cose, nelle forze e negli orientamenti reali che attraversano la società italiana. A meno che non si pensi che il tutto sia in qualche modo un fenomeno transitorio.

Qual è la vostra opinione?

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Il bisogno di autonomia

No. Non penso assolutamente che si tratti di una cosa transitoria. Il bisogno di autonomia è un problema vero, con il quale bisognerà fare i conti. Ribadisco anzi la mia idea che si tratta di un problema che richiede un intervento anche di tipo costituzionale, pure se, ne spiegherò più avanti le ragioni, non sono favorevole ad un’assemblea costituente.

 

Perché nasce la Lega

Mi convinco peraltro sempre di più che la Lega intanto può nascere in quanto non c’è più lo stesso rapporto tra la produttività del Nord e il mercato del Sud. Non c’è più né nel senso del mercato della forza lavoro, né nel senso del mercato, cioè del consumo, perché è del tutto evidente che il processo di unificazione europea dei mercati, e poi di globalizzazione dell’economia, ha spinte che riducono gli impatti e i vincoli localistici.

 

Il tema Nord-Sud

Insisto sul tema nord-sud aldilà, forse, del lecito, perché bene o male, in quella mediazione politica degli interessi di cui parlava Moretti, e che era il nostro stato sociale, c’era l’esigenza che il Nord e il Sud trovassero un certo tipo di rapporto, e di coesistenza.

Per dirla proprio alla grossa, serviva la forza lavoro del Sud al Nord, serviva il mercato del Sud per ciò che si produceva al Nord, serviva il ceto amministrativo del Sud per governare il Paese e così via. La connessione fra i due pezzi d’Italia che faticosamente si tengono insieme era dunque fondato su elementi molto forti.

La mediazione politica degli interessi che adesso in un certo senso è fortemente diminuita, e ha lasciato il posto a quegli istinti animali di cui parlavo, è messa in discussione esattamente dal fatto che tra nord-sud non c’è più questa funzionalità reciproca. Il Nord ha probabilmente oggi la possibilità di avere un rapporto con i mercati del centro Europa molto più forte che non con il mercato del sud.

 

Nessun automatismo

Non c’è più dunque nessun automatismo, e faremmo bene, quando ci poniamo dei problemi di riforme istituzionali, a non dimenticare questo aspetto sociale e politico. In altre parole credo che debba considerarsi possibile, nel quadro determinato di rapporti più difficili tra nord e sud, che una riforma di ingegneria istituzionale, apparentemente neutrale, diventi elemento di lacerazione al di là delle intenzioni dei costituenti, per il fatto stesso che la funzionalità del rapporto nord-sud non è più quello di prima, non c’è più il tipo di mediazione d’interessi prima dominante e che ha caratterizzato la forma dello stato sociale italiano, che non a caso veniva chiamato stato assistenziale, perché finiva per essere uno Stato in cui effettivamente il sud (ma si badi: non solo il Sud!) veniva in una certa misura “assistito”, cosa che oggi evidentemente non è più possibile in quei termini.

 

La formula del nuovo patto

Vorrei dire in ultimo che la formula del nuovo patto può anche andare bene, perché può permettere effettivamente di superare, almeno nella sua formulazione, una divaricazione ideologica pregiudiziale su scelte che poi non si sa bene neanche quali sono.

Naturalmente è molto difficile rispondere a domande del tipo: un nuovo patto fra chi, e gestito da chi.

 

Un reciproco riconoscimento

Un nuovo patto in Italia si deve fare tra le forze reali che ci sono nel Paese, e quindi con questa nuova destra. Per essere valido, per non essere un patto di parte, deve essere un patto che nasca anzitutto da un reciproco riconoscimento delle forze in campo.

Se non c’è questo, tutta la logica del patto, che è schiettamente politica, e non istituzionale, salta.

 

Una prima risposta

L’esigenza del patto può essere probabilmente una prima risposta alla crisi, al tipo di crisi del sistema politico italiano. Ma l’esigenza di un patto presuppone l’esigenza di un reciproco riconoscimento, che mi sembra invece procedere con enormi difficoltà, Avverto infine il problema di sistemare istituzionalmente la questione delle autonomie.

Proviamo a vedere che cosa sta avvenendo con l’esperienza dei sindaci, più nel Sud che al Nord.

 

I sindaci

I sindaci sono sicuramente una grande novità amministrativa, ma fanno anche altro: affermano di rappresentare un partito; si oppongono alla finanziaria; fanno la guerra alle giunte regionali. La complicatezza della questione italiana sta anche nel fatto che i sindaci, non solo sono, almeno da noi nel Mezzogiorno, una realtà nuova e significativa, ma sono pezzi di quella storia d’Italia che molto più che regionalista, è stata cittadina e comunale. E questo è un altro elemento che complica lo schema istituzionale, perché se in Germania ci sono i Lander, cioè le regioni, ai Lander qui non corrisponde niente, perché tutt’altra cosa sono le regioni amministrative previste dalla Costituzione. In Italia vige un sistema di autonomie infinitamente più complicato e frammentato.

 

Le città

Pensiamo veramente di poter andare incontro, nel nostro Paese, a un sistema di riforme di autonomie che prescinda dalle città, cioè da questa nuova realtà politica istituzionale che si sta affermando nel Mezzogiorno con una forza quasi dirompente? Basterebbe questo spunto per comprendere come la formula “federalismo” sia sempre più insufficiente. E attenzione a come ci si muove già nella discussione: nel quadro delle cose indicate, ci sono problemi dirompenti, e si può arrivare presto a una frattura regioni – città! Dunque, ordine nel dibattito e velocità responsabile nelle decisioni.

Guardiamo a questa forma un po’ angosciosa con la quale si sta delineando il problema Napoli. Il giorno in cui il sindaco se ne andrà, o mostrerà che non riesce a fare tutti i miracoli che la gente immagina che faccia, che cosa succederà nella democrazia napoletana?

 

RICCARDO TERZI

La voglia di fare da soli

Sono totalmente d’accordo con l’osservazione che ha fatto prima Moretti: dietro la Lega c’è un movimento reale. Qualche elemento di declino indubbiamente c’è, ma la Lega non sta scomparendo, e soprattutto non scompare il problema.

Dietro il fenomeno Lega c’è una spinta pericolosa, ci sono pezzi di società del nord che rimuovono completamente il problema dell’unità nazionale, della solidarietà nord-sud e che pensano che il Nord possa fare da solo.

Questa posizione ha quei fondamenti che ricordava anche De Giovanni in relazione alla Cultura e alla struttura economica del Paese.

 

Un tessuto di piccole imprese

C’è tutto un tessuto di piccole imprese del nord-est che non guarda al sud, ma al nord o all’est dell’Europa. E c’è il rischio reale che se a questi movimenti non riusciamo a dare una risposta politica che li contenga e ne colga quel tanto di razionale che c’è, possiamo avere, al di là del fenomeno Lega, processi che vanno nel senso di una disgregazione della coesione nazionale.

 

Una via che non porta da nessuna parte

Sia chiaro. Dietro queste posizioni c’è anche una buona dose d’illusione. Non credo ad esempio che la Lombardia possa andare in Europa da sola, anche perché, come diceva De Giovanni, l’Europa è il prodotto di un accordo tra gli stati nazionali. Se l’Italia scompare, se si compie un processo di disgregazione dello stato nazionale, nessuno conta niente, neanche i lombardi. Questa è una via che non porta da nessuna parte.

Io credo che per parlare di federalismo in Italia occorre tenere presente due specificità, entrambe ricordate molto bene da De Giovanni: lo squilibrio territoriale, che in altri paesi è molto meno marcato, ed il ruolo delle città.

 

Gli squilibri territoriali

Lo squilibrio nord-sud va affrontato e risolto. E devo dire che ho trovato in molti dibattiti a cui ho partecipato nelle regioni meridionali, nella CGIL o altrove, una disponibilità e un interesse a scommettere sull’autonomia come risorsa. Per fare questo, il sud ha bisogno di liberarsi di meccanismi di dipendenza e di assistenzialismo.

Accanto a questo, naturalmente, ci deve essere una perequazione nella distribuzione delle risorse, perché in Italia il federalismo non può essere basato sull’idea che ognuno si gestisce le risorse che produce a livello locale.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Il deficit di risorse istituzionali

A me sembra che in un eventuale schema federalista questo sia un punto di forza.

Il problema che pongo è che c’è un deficit fortissimo di risorse istituzionali. E la mancanza di risorse istituzionali rappresenta per molti versi un dramma non meno grave della scarsità di risorse economiche.

In ogni caso su questo punto un federalismo serio, o comunque un decentramento serio, una seria riorganizzazione dello Stato secondo unità e distinzioni dovrà ricercare risposte forti.

Quali classi dirigenti, quale strutturazione della società, come si afferma il diritto? È questo il punto. A Napoli non a caso teniamo un sindaco – provvidenza. Perché non c’è niente, o ben poco, tra lui e il popolo.

 

RICCARDO TERZI

Nord e federalismo

Anche al nord un’operazione federalista di decentramento regionale molto forte richiede delle strutture amministrative che oggi non ci sono. La stessa regione Lombardia ha una struttura amministrativa molto poco funzionale.

Su questo versante si tratta di riorganizzare la macchina dello Stato, ed è plausibile immaginare un processo di azione-reazione molto lungo e complesso.

Per quanto riguarda le risorse economiche, si possono trovare degli accordi, adottare dei modelli di perequazione. Ci sono già degli studi, diverse ipotesi sul tappeto. Occorre in sostanza ridefinire un patto di coesione nazionale basato su un equilibrio nuovo tra esigenze dell’unità e esigenze dell’autonomia.

 

Riformare lo Stato

In sostanza per dare una risposta politica alle spinte disgreganti che sono in atto abbiamo bisogno di un progetto di riforma dello Stato che definisca un nuovo assetto dei poteri.

Se stiamo fermi queste spinte separatiste diventeranno molto forti e rischiamo davvero di andare incontro a una lacerazione.

 

Il tema città

C’è poi il tema delle città, che è un tema importante per l’Italia, dove la dimensione regionale non è mai stata una dimensione forte.

Non c’è coscienza regionale. C’è coscienza nazionale e coscienza municipale. Ciò nonostante, una operazione di spostamento sostanziale di poteri dallo stato centrale alle realtà territoriali non può essere fatto che a livello regionale.

Non ha senso parlare di federalismo delle città.

Il protagonismo dei sindaci ha avuto una funzione importante. Essi sono un elemento nuovo, un embrione di nuova classe dirigente che ha anche una legittimazione popolare, e questo è molto importante.

 

Il ruolo delle Regioni

Ma è sbagliato pensare che l’asse su cui costruire una riforma in senso federalista siano la città, perché a quel livello può esserci soltanto un po’ più di decentramento, non un diverso meccanismo istituzionale. Una riforma vera dello stato non può che essere messa in campo in una dimensione ampia: le regioni, o anche qualche cosa di più ampio delle attuali regioni, così come è previsto nel progetto della fondazione Agnelli che si basa su 12 macroregioni.

Se il decentramento deve essere vero, nel senso che vogliamo dare vita a governi politici sul territorio, la dimensione non può che essere quella regionale. Nell’ambito delle regioni va poi rivisto il rapporto regioni-enti locali, così da non riprodurre una struttura burocratica centralizzata.

 

Una nuova alleanza

La regione deve essere un elemento di grande regolazione, sviluppando un intenso rapporto di collaborazione con gli enti locali. Se invece si protrae una situazione di conflitto tra comuni e regioni, ciascuno in difesa della propria bottega, si rischia di lasciare il gioco nelle mani del potere centrale, che sfrutta queste divisioni in una logica di conservazione. È necessario invece lavorare per una nuova alleanza del sistema delle autonomie e trovare forme nuove di collaborazione tra le regioni e gli enti locali.

La regione Emilia Romagna ha ad esempio proposto di istituire, analogamente ad un sistema bicamerale riformato con l’istituzione della camera delle regioni, un consiglio delle autonomie locali, in modo che queste ultime possano avere una ruolo politico sulle grandi scelte di programmazione regionale.

Se invece dovesse prevale una logica per la quale i sindaci difendono se stessi, le province provano a difendere quel poco di prestigio che è rimasto loro, le regioni si contrappongono alle autonomie locali, il risultato non potrebbe che essere la paralisi.

 

 

3 – PENSARE L’EUROPA

 

ROSARIO STRAZZULLO

Si sta rompendo l’Europa?

De Giovanni ha parlato dell’impasse del processo di costruzione europeo per poi subito dopo usare un’espressione più forte: si sta incrinando il processo di unità europea.

Forse possiamo provare ad iniziare da qui per analizzare un po’ più approfonditamente i processi sovranazionali. Si tratta di una questione di grande impatto sui singoli paesi soprattutto perché, come è stato detto, l’Europa o la costruiscono gli stati nazionali o non la costruisce nessuno.

Successivamente possiamo riprendere un punto già presente nella nostra discussione, e cioè come questo processo federalista europeo influisce sugli assetti istituzionali e politici che si dovranno determinare dentro i singoli stati, con particolare riferimento, per ovvi motivi, alla situazione italiana.

Infine c’è un tema che ancora De Giovanni ha sollevato quando ha parlato del rapporto tra crisi della democrazia e crisi degli stati sociali e ha aggiunto che questa è la forma in cui si manifesta la crisi della democrazia nel mondo contemporaneo.

Forse è un tema che rischia di portarci troppo lontano, ma credo che possa essere utile affrontarlo.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

L’allargamento dell’Unione

Provo a precisare le ragioni per le quali ho parlato di impasse, o comunque di incrinatura molto seria, nel processo di costruzione dell’Europa. Proverò a farlo riprendendo tra l’altro quanto diceva Terzi in relazione al vecchio europeismo che non quadra più con la realtà.

Il tema chiave è costituito dall’allargamento del processo di unificazione. L’allargamento dell’Unione nasce, non casualmente, nell’89, dopo l’unificazione tedesca, in contrasto con un processo unitario che, prima di quella data, aveva un confine molto rigoroso ad Est in conseguenza della divisione della Germania e dalla presenza, l`1, di un sistema politico alternativo.

 

La questione tedesca

Con il 1989 la Germania si è riunificata, la frontiera est è caduta e quindi si pone, per una duplice ragione, l’esigenza dell’allargamento della Comunità o, come è più corretto dire oggi, dell’Unione. Viene meno il fondamento su cui poggiava quella scelta politica o, come addirittura si diceva, di civiltà, per cui l’Europa era “quella”, e basta. L’allargamento diventa un processo obiettivo, necessario, ineludibile.

Da qui nasce la centralità della questione tedesca, perché la Germania ha posto il tema dell’allargamento come condizione della propria scelta europea. La ragione è chiara: per la Germania il rapporto con l’Est e con i paesi centro-orientali è assolutamente vitale.

Per questo dicevo precedentemente che la Germania ha delle alternative che altri Paesi non hanno. Compresa la Francia.

 

Un’obiezione discutibile

Capisco l’obiezione di Moretti quando afferma che la stessa Germania ha bisogno dell’Europa, ma è un’obiezione che vale fino ad un certo punto.

La Germania avrebbe avuto la possibilità di ricostruire una grande area di influenza verso il centro dell’oriente, una grande zona del marco, non lasciandosi coinvolgere più di tanto nei processi europei. Invece ha fatto un’altra scelta e naturalmente uno dei prezzi di questa scelta è l’allargamento, che non è solo un fatto di mercato, ma è un problema di stabilità e di stabilizzazione di tutto il centro europeo al quale la Germania è vitalmente interessata.

 

Le istituzioni che governeranno l’Europa

L’allargamento dell’Unione implica un mutamento profondo della fisionomia dell’Europa perché pone immediatamente il problema delle istituzioni che devono governare un’Europa che non sarà più né a 12, né a 15 come adesso, ma a 25, 27 o 30 stati.

Quali istituzioni possono governare un Europa a 30 stati? Certamente non le istituzioni nate per un’Europa a 6, che già in un Europa a 15 com’è oggi non funzionano più.

 

Allargamento e approfondimento

Come facciamo ad allargare l’Unione e nello stesso tempo ad approfondire le politiche comuni? Il tema del rapporto tra approfondimento dell’unità e allargamento della stessa è il tema su cui si discute da anni, con varie ipotesi.

Con l’allargamento si sta producendo una sostanziale dissoluzione dell’unione politica.

Come tenere assieme allargamento ed identità politica forte dell’Unione? L’impasse del Vecchio europeismo non è casuale, ma ancora una volta è legato a questi grandi processi storico-mondiali, nel senso che si è rotta tutta la continuità con la quale i padri fondatori avevano pensato questa relativamente piccola Europa ben confinata tra i due grandi blocchi, con una funzione all’interno del bipolarismo Est Ovest.

 

Il tema della democrazia europea

Per fare un’ultima annotazione su questo punto, direi che il tema delle istituzioni è, almeno largamente, il tema della democrazia europea.

Che cosa significa modificare, trasformare le istituzioni, mantenendo la loro rappresentatività? E che cosa sarà un parlamento europeo in un’Europa a 30 stati? Rischiano in realtà di aumentare ancora di più i poteri degli esecutivi. La Commissione europea è infatti già oggi un esecutivo eletto dai diversi governi, anche se ha bisogno della fiducia del parlamento. È insomma un istituzione anomala della democrazia occidentale, la più antidemocratica, come ha scritto Dahrendorf.

Considero dirimenti per la continuazione del nostro ragionamento altre due questioni.

 

Unione monetaria e unione politica

La prima è data dal rapporto tra unione monetaria e unione politica. L’unione monetaria, come sarà probabilmente necessario, si andrà a fare tra poche entità statali, neanche tutti i padri fondatori saranno in grado di parteciparvi. L’Italia e la Spagna sono a rischio, ancora peggio stanno il Portogallo e la Grecia mentre l’Inghilterra non ci vuole entrare.

Dal momento in cui ci sarà l’unione monetaria tra un certo numero di Stati, quale sarà il rapporto fra le istituzioni che governeranno tale unione e le istituzioni che governeranno il rapporto fra l’insieme dei Paesi?

 

Un’Europa differenziata

C’è un enorme problema istituzionale che nasce da questo nodo.

Ci sarà un Europa differenziata, in cui ci sarà una parte forte con moneta unica e un’Europa generale a mercato unico.

Come regolare il rapporto tra mercato unico e moneta unica? Quali istituzioni sono in grado di regolare questo rapporto? Sono problemi enormi, di grande portata istituzionale e politica. C’è il rischio che in realtà l’Unione europea coincida con quella monetaria e con le sue istituzioni, perché non si può pensare all’Unione monetaria senza istituzioni che la governino.

Anche la cosiddetta banca europea non potrà, come anche le banche centrali nazionali, non avere un rapporto di indipendenza.

 

Convergenza e coesione

C’è un nodo specifico che riguarda il rapporto tra unione monetaria e unione politica. Non la chiamo più la prima “unione economica e monetaria” per la ragione molto semplice che ormai si parla solo dei criteri di convergenza e non si parla più dei criteri di coesione. Siamo sempre più in presenza di un Europa che può essere unificata monetariamente dalle sue aree forti, ma che non si sta ponendo più il problema della coesione fra aree forti e aree deboli. Io stesso fatto che si sceglie di fare l’unione monetaria fra gli stati forti, già coesi, in un certo senso dimostra che il problema della coesione sociale, che pure era l’interfaccia dei criteri di convergenza nel trattato di Maastricht, sta cadendo.

 

Una comunità di eguali?

Nella misura in cui ciò accade c’è il rischio che l’unione politica sia fatta da chi è riuscito a portare a termine il processo di moneta unica con un colpo alla costituzione materiale dell’Europa. Perché la costituzione dell’Europa si è retta sempre sulla possibilità per tutti di far parte di una comunità di eguali.

La sostanza dell’Europa è nell’uguaglianza degli stati. Se si cominciano ad introdurre differenziazioni tali da modificare il ritmo dei movimenti istituzionali e delle possibilità di decisione, i rischi di portare un colpo alla costituzione materiale dell’Europa sono seri e reali.

Si sta nei fatti mettendo in discussione il carattere progressivo e irreversibile del processo di unificazione.

Che cosa accadrà? Chi può dirlo! Ma i problemi sono questi.

 

Unione monetaria e politiche anti-deficit

L’altra questione, che ci avvicina ancora di più al tema posto da Strazzullo, e cioè al rapporto tra crisi delle democrazie e crisi degli stati sociali, si può sintetizzare così: l’unione monetaria impone le politiche anti deficit. Su questo, non si possono avere dubbi.

La Germania non ha nessun interesse a fare l’unione monetaria mescolando la stabilità e la forza della propria moneta alla debolezza e alla instabilità delle altre monete.

Non mi convince a questo proposito l’argomento utilizzato da Moretti, lo trovo un po’ troppo ideologico.

 

La Germania ha bisogno dell’Europa?

È vero che la Germania ha bisogno dell’Europa. Ma questa è po’ una frase scontata. Non a caso gli stessi tedeschi lo hanno affermato quando hanno scelto l’Europa. Ed è vero che i forti hanno bisogno dei deboli, per le ragioni che lo stesso Moretti ha esposto. Però sull’altro piatto della bilancia c’è, ed in maniera molto più stringente, il fatto che la rinuncia a certi criteri di stabilità economico finanziaria, per gli interessi in campo, non è credibile.

 

Un obiettivo irrinunciabile

Le politiche anti deficit sono per la Germania, che, non dimentichiamolo, è il paese guida nella proposta di realizzazione dell’unione politica, irrinunciabili. Il ministro delle finanze tedesco ha proposto un patto di stabilità ed il ministro delle finanze dell’epoca, Rainer Masera, nel corso di un convegno che come socialisti europei abbiamo organizzato a Roma, ha affermato addirittura che i criteri di convergenza di massima andrebbero inseriti nella costituzione italiana. Ovviamente è sembrata a tutti una cosa un po’ folle, ma è un’affermazione che sta a significare che questo ormai è diventato in Europa non un semplice calcolo economico, ma la strada attraverso la quale e possibile penetrare nella fortezza tedesca e godere dei vantaggi che derivano dal rimanere nel nucleo forte dell’Europa.

Come è ovvio, tutto questo ha un prezzo.

 

Politica anti-deficit e democrazia sociale

Infine, ritornerei al rapporto fra politica anti deficit e democrazia sociale, perché trovo profondamente sbagliata la tesi, cara alla vecchia sinistra comunista ed alla destra gollista, che siccome è difficile stabilire un rapporto rigoroso fra politiche anti deficit e politiche sociali, il processo di unione avviato da Maastricht vada considerato un errore.

Il processo avviato a Maastricht è un processo politico economico, che puoi cercare di modificare, ma nel quale devi stare dentro fino al possibile.

Ovviamente, ciò apre molti problemi di non facile soluzione. Primo fra tutti il rischio di irrigidire questo rapporto negativo fra politica anti deficit e possibilità di tenere in piedi una democrazia sociale.

Ciò che è successo in Francia è sicuramente indicativo. Da noi questo tema non è ancora esploso con tutta la sua forza perché non abbiamo ancora deciso Veramente di entrare nell’unione monetaria. Se lo decideremo, e se si dovrà fare nel 97 una finanziaria adeguata a questa dimensione i problemi di tenuta sociale saranno sicuramente rilevanti. Sarà un bel tema per chi dovrà governare il nostro Paese.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Le cose appena dette da De Giovanni offrono a mio avviso un quadro di riferimento molto più compiuto.

 

Alcuni elementi di problematicità

Ci sono però alcuni elementi di problematicità, di riflessione, che voglio provare a mantenere nella discussione, perché mi sembrano interessanti e perché da più parti, anche autorevoli, si stanno sollevando.

Darehndorf parla di fine del ruolo economico dello stato nazionale. Credo che una parte delle difficoltà che i singoli Paesi stanno avendo nell’adeguarsi agli standard dai paesi più forti derivi anche da ciò.

In secondo luogo Maastricht mi sembra ispirato da una filosofia troppo verticistica: una piramide con un vertice in cui c’è la Germania e con tutti gli altri condannati a raggiungerla se non vogliono essere relegati in un Europa di seconda serie.

Siamo proprio certi che dal punto di vista della Germania l’unica convenienza sia nel proporre questo schema così marcatamente piramidale? È proprio impossibile individuare delle soluzioni, dei livelli intermedi che possano consentire alla stessa Germania di portare nel modo più compatto possibile e con più larghe forze possibili a compimento questa “cosa” che si chiama Europa? Forse non è la stessa cosa essere leader di un’Europa a 6 a 15 o a 30 Stati.

 

Molte cose in movimento

In altri termini, voglio dire che da più parti, anche ad un livello più vasto dell’Europa, sembrano essere in campo diverse opzioni. Molte cose si stanno muovendo.

Dai paesi del sud-est asiatico che stanno diventando sempre più importanti, non solo da un punto di vista economico, all’India e ad Israele che investono nelle nuove tecnologie, alla Cina che sembra destinata a diventare la vera potenza del ventunesimo secolo.

Insomma, non è detto che nel prossimo decennio il ruolo dell’Europa e dell’America rimanga quello attuale. La situazione mi sembra tutt’altro che statica. Credo che ci sarà una fase di grande cambiamento con soggetti, in particolare economici, che investono su questo cambiamento e che si muovono non secondo la logica della piramide, ma piuttosto secondo quella della rete. Come diceva Moretti, non si cresce se intorno c’è solo deserto.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Credo che non dobbiamo correre il rischio di perdere il filo del nostro ragionamento. Le cose appena dette da Strazzullo possono avere certamente un fondamento, ma mi sembrano molto proiettate sulle potenzialità future, mentre invece il processo europeo va nella direzione di cui si è parlato. Ed è con questo che dobbiamo fare i conti.

 

RICCARDO TERZI

Penso anch’io che i termini reali del processo di costruzione dell’Europa siano quelli indicati da De Giovanni.

Vedo però una serie di complicazioni.

 

L’Europa dell’est

In particolare mi pare che non si presti sufficiente attenzione a ciò che accade nei paesi dell’est europeo dove siamo in presenza di una situazione che ha in sé elementi di fortissima disgregazione sociale.

Ciò spiega anche il ritorno in termini elettorali degli ex-comunisti, dovuto al passaggio da un’economia centralizzata, che garantiva livelli modesti ma uniformi di benessere sociale, ad un’economia di mercato dove anche questo minimo viene messo in discussione.

 

Le due Europe

Per cui oggi parlare di Europa significa parlare di due Europe. C’è un Europa che ha già dei livelli consolidati e che può arrivare in tempi più o meno rapidi ad un unificazione sostanziale delle politiche economiche e delle politiche monetarie e poi c’è quest’Europa più allargata che vive tutt’altra situazione. Come tenere insieme le due Europe: mi pare questo il problema del momento.

 

Completare la costruzione

Anch’io credo che bisogna stare dentro questo processo, con i suoi vincoli; e anch’io sono dell’idea di non demonizzare Maastricht. Ma il processo di riunificazione europea non può essere soltanto un processo monetario. Va completata l’operazione, perché se c’è soltanto l’Europa monetaria, ma non c’è contestualmente l’Europa politica e quella sociale, l’Unione nasce male o comunque su basi economico-sociali non accettabili.

 

Mettere ordine in casa Italia

Per quanto riguarda gli effetti sull’Italia, già abbiamo dovuto affrontare nodi complicati, dalla politica dei redditi alle pensioni. Probabilmente, senza questo vincolo europeo, l’Italia avrebbe continuato la classica politica di galleggiamento di tipo andreottiano, continuando a convivere con il dissesto della finanza pubblica.

Da questo punto di vista si può dire che l’Europa ci costringe a mettere un po’ di ordine in casa nostra, il che non fa male.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Scusa l’interruzione. Ma vorrei che tu ti soffermassi sul rapporto tra politica anti deficit e democrazia sociale.

 

RICCARDO TERZI

Patrimonio europeo e modello americano

L’Italia ha tutto da guadagnare da una politica di integrazione europea, anche se naturalmente ci sarà da pagare qualche prezzo. Ribadisco però che non partiamo da zero. Il sindacato ha avuto la capacità di affrontare per tempo alcune questioni, come la riforma dei sistema pensionistico, con un consenso sociale sufficientemente largo.

L’esperienza del sindacato italiano è in questo senso un esempio di grande portata, di cui forse non Valutiamo neppure noi tutte le implicazioni. Il sindacato assume direttamente ruolo e responsabilità politiche, e si misura con i grandi nodi del risanamento economico e finanziario del Paese. E lo fa partendo da una sua posizione di autonomia, senza reintrodurre forme di collateralismo politico. È una strada di grande interesse, e penso che il movimento sindacale italiano debba esplicitamente puntare su una prospettiva di questo tipo, che lega politicità dell’azione sindacale e autonomia del progetto sociale.

C’è poi il problema dello stato sociale. C’è un patrimonio europeo, che è tutt’altra cosa dal modello americano, che va salvaguardato e io credo che possiamo farlo meglio se accettiamo la sfida del risanamento finanziario. Uno stato sociale forte in un’Europa forte: questo è il punto.

È la questione che ponevi tu proprio all’inizio della nostra conversazione: come dalla crisi dello stato nazionale e dello stato sociale si esce superando i limiti di una integrazione puramente monetaria.

 

Le istituzioni europee

Occorre perciò rafforzare le istituzioni politiche dell’Europa e quindi il controllo politico democratico sulle scelte e sui processi decisionali.

Il Parlamento europeo non è un vero Parlamento, così come la Commissione europea non è un vero governo. Fino ad oggi l’Europa è una intesa tra gli stati nazionali e manca una sua dimensione politica autonoma.

Con tutte le gradualità necessarie, bisogna cominciare a costruire le istituzioni politiche dell’Europa.

 

I singoli patti sociali

E tutta la questione dello Stato sociale va probabilmente affrontata a livello europeo. Nel momento in cui non reggono più i singoli patti sociali a livello nazionale, occorre ridisegnare un sistema europeo di protezione sociale, di diritti di cittadinanza, armonizzando le diverse politiche nazionali.

Naturalmente in questa operazione di armonizzazione ci possono essere situazioni particolarmente avanzate che vengono riadeguate.

 

Una politica sociale a livello europeo

Andare oltre una politica di integrazione solo di carattere monetario e vedere come costruiamo da un lato le istituzioni politiche e dall’altro una politica sociale a livello europeo: mi pare questa oggi l’esigenza principale. Non dico che sia semplice, ma la dimensione nazionale non è più sufficiente e alcune grandi scelte strategiche vanno fatte a livello europeo.

L’Italia in questo processo dovrà probabilmente pagare ancora dei prezzi. Siamo vissuti al di sopra delle risorse reali del Paese e abbiamo accumulato un debito pubblico considerevole.

Dobbiamo ora mettere in ordine i nostri conti e contemporaneamente rivedere il sistema di protezione sociale, non per annullarlo o destrutturarlo, ma per trovare degli accordi più larghi su scala europea.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Competizione tecnologica e protezione sociale

Politiche anti deficit e politiche sociali: entrambi avete ripreso questo punto. Io vorrei proporvi di approfondire un aspetto che mi pare altrettanto importante. Io sintetizzerei in questo modo: se restiamo, come Europa e non solo come Paese, nell’attuale condizione di debolezza sul versante della competizione tecnologica, che poi è quella che determina il peso di ciascun paese a livello mondiale, non siamo in condizione di reggere l’attuale livello di protezione sociale. Si va ad un ridimensionamento. Magari graduale ma inevitabile.

 

Una strategia globale

Occorre dunque una strategia globale: se si è in grado di stare all’avanguardia sul piano tecnologico, quindi dell’industria, della ricerca, si possono credibilmente trovare le risorse da impegnare in quella che viene chiamata reintegrazione sociale.

A mio avviso questo è un problema di ordine europeo. Nessun singolo paese, neanche la Germania, è in grado di farvi fronte da solo.

 

L’Europa industriale

Abbiamo parlato di Europa non solo monetaria, di Europa politica, di Europa sociale. C’è un punto che riguarda l’Europa industriale, intendendo per industria non soltanto la manifattura, ma quel complesso di attività produttive, tecnologiche e di servizio rispetto alle quali viviamo una fase regressiva sia nei confronti dell’Asia che degli stessi Stati Uniti.

È il tema Europa Tecnologica, che alcune importanti personalità, da Bangemann a De Benedetti a Delors, hanno posto da tempo. Su questo terreno non è in discussione Maastricht, ma il ruolo e la funzione stessa dell’Europa.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Stati nazionali e Globalizzazione

Sulla progressiva insufficienza degli stati nazionali a risolvere i problemi, in un quadro di globalizzazione, non ci sono dubbi.

Cosi come sul fatto che la globalizzazione è un processo reale che, come tale, non può essere certamente rigettato, nonostante i problemi grandi che essa pone sul terreno della democrazia. Va detto anche che i fenomeni di globalizzazione stanno offrendo delle risposte ad alcuni classici problemi che riguardano i paesi in via di sviluppo, ma anche se ciò non fosse, sarebbe sbagliato un rifiuto di tipo ideologico.

 

Questioni di democrazia

La globalizzazione del mondo, dell’economia mondiale pone questioni di democrazia molto rilevanti. Questo è il primo punto.

Occorre perciò prestare una particolare attenzione alla costruzione democratica e politica di quelle aree che attraverso la globalizzazione interagiscono. Parlare solo di globalizzazione non basta. C’è l’Europa, il mercato americano, l’Asia, forse un giorno l’Africa. Dentro questo schema sociologico della globalizzazione ci sono insomma delle realtà, ancora una volta storicamente determinate, le quali si mettono a confronto, e si mettono insieme tanto più quanto più c’è la globalizzazione.

C’è un rapporto stretto tra le diverse cose, e giustamente Terzi sottolineava con molta evidenza che il tema principale che sta davanti a noi è quello della costruzione delle istituzioni politiche in un’Europa che vuole fare fronte alla globalizzazione non dissipando il proprio patrimonio ideale, culturale e politico sociale.

 

La democrazia europea

Sulla questione della democrazia europea i problemi sono enormi e io mi limito a elencarli.

Ad esempio il parlamento europeo, lo ricordava Terzi, non è ancora un vero parlamento nel pieno delle proprie funzioni. È un parlamento, piuttosto, che combatte per i propri poteri.

Ma la cosa impressionante, ancor più del fatto che il parlamento europeo non decide sulla stragrande maggioranza delle materie comunitarie, è che le competenze comunitarie che vengono sottratte ai parlamenti nazionali non passano al parlamento europeo ma agli esecutivi, e cioè alla Commissione e al Consiglio dei ministri.

C’è dunque una diminuzione delle competenze dei parlamenti nazionali senza un aumento eguale delle competenze parlamentari a livello europeo.

La commissione è infatti un esecutivo eletto dai governi, e non sempre riesce a svincolarsi dai governi stessi che sono rappresentati nel consiglio dei ministri.

 

Un’istituzione anomala

L’unione europea è un’istituzione sicuramente anomala non fosse altro perché è composta da stati nazionali. Ma ciò non attenua il fatto che otto parlamenti nazionali stanno perdendo le competenze comunitarie, nonostante esse siano sempre più attinenti alla vita delle singole nazioni.

 

Un’idea di Europa

L’altra questione che volevo porre è relativa alla necessità di tenere ferma un’idea di Europa che presenta un terreno specifico di filosofia sociale non paragonabile né con il modello asiatico e neanche con il modello americano, che è un modello molto più “selvaggio”, anche se grandemente affascinante.

L’America è strana, perché ha un’enorme capacità di assorbimento delle più diverse etnie. È capace di assorbire come una spugna tutto quello che arriva (quale società riesce ad essere così multietnica come la società americana? In Europa quando sbarcano 50 albanesi pare che sia finito il mondo, mettiamo le barricate, i carri armati, le navi) e però poi tutti sono tenuti a rispettare questa dura legge americana, con meccanismi di vero mercato selvaggio.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Non stanno ridiscutendo anche lì il loro patto sociale?

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Certo che lo stanno facendo. In un intervista sul Corriere della Sera, Galbraith afferma che Clinton è l’ultima difesa di uno stato sociale assediato, ormai, da tutte le parti.

Come l’Europa si difende da questo aumento della lacerazione sociale, dato che non è più sostenibile quel tipo di politica di cui i partiti di massa europei sono stati protagonisti? Proviamo a guardarla dal versante dell’Italia.

La DC nel nostro Paese è stata una grandissima protagonista dell’arte di far convivere lo sviluppo con il dissesto, le politiche sociali ed il deficit di bilancio.

 

Nuove vie

Oggi questo non è più possibile, e bisogna individuare i tempi, i modi, i compromessi attraverso i quali individuare nuove vie per la tutela sociale dei cittadini.

È del tutto ovvio che se non si avrà uno sviluppo della base produttiva, del lavoro, dell’occupazione sarà la catastrofe. Se dovesse rimanere tutto fermo con in campo solamente le politiche anti-deficit arriveremmo alla rivolta popolare, altro che Francia.

È dunque indispensabile che le politiche comuni europee riescano a dare impulso e prospettive positive alle politiche dell’occupazione e per lo sviluppo.

Ma torniamo all’Italia.

 

L’impossibilità del partito-stato

La Democrazia Cristiana muore perché con l’89 muore il Partito Comunista Italiano e quindi muore il suo amico-nemico. Muore perché travolta da “tangentopoli”. Muore, soprattutto, perché non ha più la possibilità di essere il partito-stato, cioè il partito che può gestire, con la propria presenza nella società il dissesto sociale. Muore perché finisce l’ “andreottismo”: un uomo che diventa una categoria politica!

E la loro morte è la morte di pezzi della storia d’Italia.

Poi erano pure dei “mariuoli”, alcuni di loro qualcosa di peggio, ma ciò non toglie che sono stati “interpreti” della storia d’Italia, e che si sono mossi, spesso, nell’ambito di possibilità date, di rapporti dati tra i vari poteri. Che fare dunque? È il terreno della nostra ricerca.

 

 

4 – L’AGENDA DELLE COSE DA FARE

 

VINCENZO MORETTI

Proverei a collegarmi subito con l’ultima cosa che diceva De Giovanni.

Le esigenze parallele

L’Italia, come del resto tutti i paesi europei, ha l’esigenza di risanare la propria economia, anche in relazione agli impegni europei di cui abbiamo ampiamente parlato, e contemporaneamente di avere delle politiche sociali positive.

Come tenere insieme il bisogno di risanamento e l’esigenza di mantenere politiche sociali che consentano di rispettare i parametri di Maastricht senza una caduta dei livelli di democrazia, di sviluppo, di civiltà? Mi sembra questo il punto.

 

Le modifiche costituzionali

Ciò pone, a propria volta, questioni che riguardano questa fase di transizione, il come da questa transizione si esce e se e in che forme se ne esce dal versante delle modifiche istituzionali e costituzionali.

 

Il programma

E questioni che riguardano il programma, l’agenda delle cose da fare.

Personalmente proverei a dare a questa idea del programma un significato ed un carattere estensivo.

Forse per troppo tempo siamo stati prigionieri di uno schema che si riferiva o a ideali, valori, idee tanto grandi da essere per definizione poco realizzabili, o a un pragmatismo spicciolo, scollegato da ogni progettualità.

Credo sia bene lasciarsi alle spalle entrambe le impostazioni.

Definire un programma deve significare ragionare di idee forza, di come queste idee forza si traducono in scelte concrete di tipo economico, istituzionale o costituzionale, che, nella loro parzialità, abbiano alle spalle una chiara impostazione e siano in qualche modo in grado di parlare a tutto un Paese.

È quanto sta tentando di fare Tony Blair in Inghilterra.

 

Alcuni esempi possibili

Il livello di civiltà di un Paese si misura anche dalla possibilità che ogni cittadino possa usufruire di un ospedale efficiente in grado di curarlo, abbia un reddito minimo di cittadinanza, una soglia minima di diritti a cui possa accedere indipendentemente dal reddito. E dunque il livello di civiltà di un Paese si misura anche dal fatto che tutti pagano le tasse. Come è raro sentire voci che si levino a sostegno di una tale tesi. Nel nostro Paese le virtù civiche sono molto carenti e l’affermazione di un’idea della cittadinanza intesa non solo come diritti ma anche come doveri e responsabilità è quanto mai difficile. E ciò in una certa misura contribuisce al cattivo funzionamento della democrazia.

Un altro esempio possibile è dato dalla vicenda delle pensioni, dal modo in cui il sindacato è riuscito ad evitare la rottura del rapporto tra le generazioni, ad affermare un’idea forte di solidarietà, a mantenere un sistema pensionistico pubblico senza nascondere le scelte anche dolorose da fare e chiedendo il consenso di coloro che concretamente, con i loro sacrifici, dovevano concorrere a renderle possibili.

Si è in questo caso difeso un valore, quello della solidarietà tra le generazioni, si sono indicate delle scelte programmatiche, si è ricercato il consenso democratico, si è fatta un’operazione nell’interesse del Paese.

 

Ancora sui concetti di unità e distinzione

Io credo che ancora una volta ci aiutino i concetti di unità e distinzione.

Unità in quello che De Giovanni ha definito il reciproco riconoscimento e definizione di alcuni valori comuni; distinzione nelle scelte concrete che si prospettano per la risoluzione dei problemi.

Questo punto del programma, questo punto delle scelte, in che maniera può essere, secondo voi, la chiave di volta, il passaggio attraverso il quale indicare alcune cose che è possibile fare in questa ancora lunga transizione?

 

RICCARDO TERZI

Il legame con l’Europa

Una cosa mi pare emerga con chiarezza dai ragionamenti precedenti, ed è che questo legame con l’Europa è un punto strategico. Comporta dei prezzi, crea dei problemi, anche al movimento sindacale ed alle sue conquiste sul terreno sociale, ma fuori da tale contesto non c’è un avvenire vero per il nostro Paese.

Da un rapporto più stretto con gli altri grandi paesi dell’Europa abbiamo da guadagnarci, anche in termini politici. I modelli politici presenti negli altri paesi sono infatti abbastanza solidi ed una evoluzione politica italiana che si avvicini a questi modelli non sarebbe un fatto negativo.

 

La riforma delle istituzioni

In tale ambito, c’è sicuramente un’esigenza di riordino e di riforma delle istituzioni. Non credo però che il problema sia quello di un rifacimento generale della Costituzione: il patto costituzionale resta, nelle sue linee portanti, un punto di riferimento forte che non va rimesso in discussione.

Vedo qui un limite della discussione in atto. Sembra che tutto può essere ridotto a un problema di riforme istituzionali, tutto dipenda da lì. Io non sono d’accordo.

La palla al piede che abbiamo avuto in questi anni in Italia non è stata la sua costituzione, ma la sua classe dirigente, il sistema politico cosi come si è involuto e corrotto.

Sarebbe però sbagliato non vedere che c’è un problema serio di aggiornamento, di riforma dei sistemi istituzionali. Personalmente credo che tale riforma debba andare essenzialmente nella direzione di una più ampia articolazione dei poteri, dello sviluppo delle autonomie, del federalismo. Ovviamente tra le cose da fare non c’è solo questo.

 

Ridefinire i rapporti governo parlamento

C’è ad esempio la necessità di ridefinire i rapporti parlamento-governo, puntando ad un governo più stabile, meno in balia delle varie manovre parlamentari, che abbia concrete possibilità di adottare politiche di lungo termine. Non c’è dubbio infatti che in una situazione nella quale i governi durano mediamente meno di un anno, diventa inevitabile che le politiche siano di piccolo cabotaggio.

Un governo, se non ha i tempi necessari per avviare e portare avanti un’azione strategica, finisce per fare una politica del giorno per giorno.

Un problema di stabilizzazione del governo, di sua maggiore autonomia, anche rispetto al parlamento, c’è dunque sicuramente.

Il rafforzamento del ruolo dell’esecutivo può però essere ottenuto, secondo me, e soprattutto secondo l’opinione di molti autorevoli ed esperti costituzionalisti, attraverso l’adozione di sistemi vigenti in altri paesi dell’Europa, come quello tedesco e quello inglese, in cui ci sono esperienze di governi parlamentari molto forti.

Il presidenzialismo non è affatto l’unica strada percorribile.

 

Capire la società. Per dirigerla

Per quanto riguarda la politica e le politiche, ritengo che nell’agenda non ci possono stare soltanto le questioni istituzionali.

Questa è una bizzarria tutta italiana. Da un po’ di tempo la politica sembra fatta soltanto di presidenzialismo e semipresidenzialismo, legge elettorale, assemblea costituente.

La politica non può limitarsi a questo. Tanto più una politica che si ispira a valori e idee di sinistra.

La sinistra deve essere in grado di ragionare della società, deve capire, interpretare la società, dirigerla.

 

Inclusione ed esclusione

C’è un modello sociale europeo che è in crisi, messo in discussione dai meccanismi di globalizzazione, di competizione mondiale, che determinano in tutti i paesi nuove tensioni e nuove forme di conflitto sociale.

Il conflitto di classe tradizionale tende ad essere sostituito da un conflitto sociale molto più diffuso. Più precisamente si può dire che la contraddizione fondamentale non sta più luoghi tradizionali della produzione ma nel rapporto tra chi è escluso e chi è incluso, tra chi è dentro i processi sociali e economici, e chi se ne trova ai margini o ne viene espulso, trovandosi coinvolto in processi di precarizzazione del lavoro, e di esclusione.

 

Progresso e competizione tecnologica

Come affrontiamo questi temi? Come riusciamo a salvaguardare gli aspetti fondamentali del nostro modello sociale? Come teniamo insieme progresso, competizione tecnologica e qualità sociale della vita nelle nostre citta, nel nostro Paese, in Europa? Non entro ancora nel merito di quali sono le politiche, però è evidente che nel programma di una forza di sinistra ci devono stare anzitutto questi temi. Non ci si può limitare a discutere all’infinito di riforme istituzionali.

 

Ricostruire il sistema politico

Per quanto riguarda infine la politica in senso stretto, con questa devastazione in atto del sistema dei partiti mi pare quasi impossibile affrontare seriamente i problemi che abbiamo davanti. Va tentata quindi un’operazione di ricostruzione di un sistema politico adeguato alla nuova situazione, alle nuove esigenze.

E qui dobbiamo ragionare su che cosa è l’Ulivo e che cosa possiamo tentare di farlo diventare.

L’Ulivo rischia due derive. Essere nulla più che un cartello elettorale di partiti e partitini litigiosi che si contendono seggi e che ogni volta devono far sentire la loro voce per differenziarsi. Se è così, non ha forza di attrazione. Oppure quella di diventare un altro partito del leader, un comitato elettorale finalizzato esclusivamente all’affermazione di una determinata leadership, senza vita collettiva, senza una reale pratica democratica. È il modello berlusconiano. È vero che Prodi non ha il carattere di un forte leader carismatico, ma esiste comunque il rischio di uno svuotamento degli strumenti politici e di una eccessiva personalizzazione.

 

Dare un’anima all’Ulivo

La mia opinione è che bisogna dare a questa coalizione una coesione, un anima, un programma, un progetto, che tenga insieme almeno tutte quelle forze relativamente più omogenee.

Poi ci sono delle alleanze elettorali che possono essere fatte.

Dovremo fare i conti con Rifondazione, con la Lega, con varie forze di centro che si stanno in qualche modo riorganizzando.

Dobbiamo quindi avere da un lato un dialogo aperto con tutti, perché non c’è un bipolarismo già consolidato, c’è ancora un insieme di progetti possibili, ma dall’altro occorre un nucleo centrale di forze, le quali lavorino a consolidare le radici e l’identità politica dell’alleanza dell’Ulivo. Mi riferisco in particolare ai due maggiori partiti della coalizione, il PDS e il PPI.

 

Un grande partito democratico?

Non so se il punto d’arrivo potrà essere in futuro un grande partito democratico, può darsi di sì, anche se è sbagliato oggi forzare i tempi. Sta di fatto però che se restiamo fermi il nostro futuro diventa molto incerto. L’ulivo va quindi preso sul serio, come un possibile laboratorio politico, come il punto di partenza di un lavoro di tipo nuovo che superi le vecchie identità cristallizzate. Si può così creare nella società italiana, attraversata oggi da una crisi profonda, un punto di riferimento positivo per chi vuole tentare un’opera di ricostruzione.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Come in ogni occasione in cui i nodi vengono al pettine, le cose adesso diventano più complesse. Sinora il ragionamento ha “tenuto” perché abbiamo delineato delle coordinate, secondo me utili, ma condurre il tutto verso la parte più propositiva è naturalmente molto difficile. Provo a farlo toccando brevemente tre o quattro temi.

 

L’impasse istituzionale

Parto dalla questione istituzionale non per eludere le questioni più strettamente relative alle politiche ma perché, come tutto il nostro ragionamento dimostra, è comunque un nodo centrale. Del resto abbiamo convenuto che siamo in un impasse certamente più forte e stringente di quello che c’è in altre parti d’Europa, e che esso, al di là delle crisi del sistema politico che sono più generali, mondiali, è fortemente condizionato dalla specifica crisi istituzionale che vive l’Italia.

Da questo impasse dobbiamo evidentemente uscire. Una delle maggiori difficoltà è data da una sorta di circolo vizioso in ci siamo infilati. I soggetti politici che dovrebbero essere deputati a farcene uscire, sono infatti a loro volta pesantemente coinvolti nella crisi.

Interrompere questo circolo vizioso mi sembra tutt’altro che semplice, anche se una società non muore per catastrofe. Se non ce la farà la politica, ci penserà la storia a vincolare la politica. Negli interstizi della storia, nei vuoti della cronaca, si creeranno le condizioni perché la catastrofe sia scongiurata. Al resto, ci penseranno la resistenza delle istituzioni, delle economie, delle imprese, degli individui.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Ma per capire che cosa potrà succedere, in che direzione dobbiamo guardare?

 

BIAGIO DE GIOVANNI

La sfida del maggioritario

Ci arrivo. Credo innanzitutto che dobbiamo raccogliere la sfida del sistema maggioritario e portarla fino in fondo. Parto da qui perché mi rendo conto che questa è una tesi che potrebbe essere in discussione fra di noi, e che certamente è in discussione nel Paese.

E dico che siccome l’impasse italiano ha un carattere specifico dobbiamo cercare di superare i principali tratti negativi che determinano tale impasse. E che poiché tra questi c’è sicuramente una confusa convergenza verso il centro di forze politiche diverse, noi dobbiamo provare ad impedire questo approdo.

 

Interpretare il centro

Sia chiaro. Quando parlo di confuso affollamento verso il centro non nego affatto che il centro esiste. Nego la necessità di un confuso affollamento attorno a questo centro che esiste; sostengo che esso può essere interpretato da sinistra e può essere interpretato da destra.

Poiché nessuno, credo, pensa veramente a una politica giacobina di sinistra né a una politica autoritaria di destra, questo centro della società italiana può essere interpretato da forze che portano valori, idee, progetti, esperienze non di sinistra, ma da sinistra, che è cosa diversa, o da destra.

 

I patti di desistenza

La scelta del maggioritario per me significa questo. Sono personalmente sempre più perplesso sugli sforzi che si stanno facendo per rigenerare la proporzionale, per esempio attraverso i patti di desistenza. Che sono i patti di desistenza, se non il ritorno alla proporzionale? So bene qual è l’obiezione: c’è una particolare complessità della società italiana, che non a caso è stata sempre governata dal centro.

Non voglio sottovalutare né questi né altri argomenti ma ribadisco che a mio avviso se non si opera un salto su questo punto, non si esce in prospettiva dall’impasse.

 

La natura dell’impasse italiana

Del resto, la natura dell’impasse italiana sta sostanzialmente qui. Esso ha rappresentato anche la storia della democrazia italiana fino al 1989, quando la politica non poteva Che muoversi su binari prestabiliti.

Fino all’89 nessuno poteva ragionevolmente pensare che, in quel quadro internazionale, il PCI potesse governare. Le cose adesso sono mutate, e quindi non c’è nessuna ragione al mondo per non spingere in questa direzione. Adesso che fare altro è possibile, bisogna cercare di farlo.

 

Il ruolo delle forze politiche e dei partiti

Quali sono i soggetti che dovranno spingere in questa direzione? Sicuramente i partiti, i soggetti politici.

A questo proposito devo dire che ho gravi perplessità sul modo in cui è stato costruito l’Ulivo.

Mi sembra che sia stato costruito un po’ alla vecchia maniera. E stato scelto un capo, con certe caratteristiche, poi sono state messi insieme PDS, popolari, verdi, nuclei e pezzi di diverse, in qualche caso vecchie, realtà politiche, secondo logiche non sempre condivisibili.

Non so come da tutto questo possa venire fuori un’anima, un’identità, o bisognerà affidare il problema interamente al governo? Ma è credibile procedere in questa direzione?

 

La natura del partito

In questo quadro, per venire al PDS, ritengo un errore l’aver bloccato per tanto tempo ogni riflessione sulla natura del partito, sulle trasformazioni necessarie per adeguarlo a una realtà più europea, anche se vedo positivamente il fatto che ultimamente qualcosa sta cambiando.

Nel frattempo, quello che restava di questo partito sconvolto dalla storia, almeno secondo le mie impressioni, sta sparendo dalla scena come realtà collettiva, al punto che non esistono più veri organismi politici di direzione.

Avendo fatto finora tutti assieme un tentativo di ragionamento abbastanza rigoroso, nei limiti delle nostre capacità, vorrei che non si considerasse questa mia affermazione una semplice battuta. Credo che abbiamo di fronte un problema politico e di cultura politica.

 

I soggetti della politica

Per portare avanti questo processo e per uscire dall’impasse scegliendo senza ambiguità il sistema del maggioritario, è necessario che i soggetti politici più che mai si sviluppino come soggetti collettivi, portatori di culture, di valori, di idee, di progetti.

Oggi si può anche concedere una accentuazione della leadership, perché questo è un dato di tutte le società contemporanee e deve essere riconoscibile un partito anche attraverso il suo leader; ciò però non toglie che la politica non possa essere data semplicemente nella forma di qualche leader che la produce.

 

Le radici storiche

Anche nella politica contano, ovviamente, le radici storiche. In questo senso, non credo che l’Ulivo, nato come alleanza elettorale di forze diverse abbia un grande destino in quanto tale se non si ricomincia a lavorare sulle sue “componenti” per ridar forma a ciò cui spetta di prender forma. La dialettica politica deve nascere dalla distinzione, fonte di nuovi rapporti, non di separazione e settarismo.

Io vedo la riforma del PDS anche dentro questo processo più largo e questa ridorma dovrà guardare, più o meno direttamente, alle forme istituzionali che prevarranno nel governo Complessivo del Paese e nella trasformazione dello Stato.

Quando affermo che bisogna avere il coraggio di scegliere il maggioritario intendo dire evidentemente che non possiamo più accogliere e accettare passivamente le forme tradizionali di parlamentarismo consociativo, che nascono da una visione vecchia e ristretta dei partiti.

Non possiamo essere più i sostenitori di un parlamentarismo astratto e assemblearistico, che rischia di rinascere se la riforma dei partiti mirerà a conservare quanto più possibile del passato. Anche perché rimarremmo gli unici al mondo.

 

Esecutività ed efficienza

Ormai le decisioni hanno bisogno di esecutività ed efficienza. Per toccare temi istituzionali, se c’è bisogno del controllo parlamentare, altrimenti usciamo dalla democrazia occidentale, è altrettanto vero che questo non può sfociare in un assemblearismo inconcludente.

Probabilmente questa maggiore forza dell’esecutivo deve essere riconoscibile anche attraverso l’individuazione di una leadership. Neanche a me piace un presidenzialismo secco, all’americana, ma ribadisco che c’è bisogno di una maggiore visibilità delle leadership, anche per evitare che prevalgano le spinte al cattivo decisionismo che pure sono presenti nella società italiana.

 

Una nuova identità dei partiti

Contemporaneamente, sono convinto del fatto che i partiti debbano ritrovare una più precisa e rinnovata identità. E la possono ritrovare a condizione che ricomincino a fare la loro parte, ricostruendo progettualità e culture. A mio avviso, per quel che riguarda il PDS, per fare la nostra parte non possiamo continuare a ridurre al minimo questa dimensione.

 

Il concetto di cittadinanza

Passo al secondo punto, che riguarda il degrado dello Stato e della pubblica amministrazione, di cui “tangentopoli” è l’esito finale.

Abbiamo alle spalle decenni in cui si è indebolito fortemente il concetto di cittadinanza.

Si sono rafforzati i concetti di appartenenza partitica e si è sicuramente ridotta la funzione statuale della cittadinanza, quella per la quale il cittadino è anzitutto cittadino di uno Stato, poi partecipa alla vita di un partito, a una confessione religiosa, vive le sue esperienze concrete, di vita, professionali, ma in quanto cittadino di uno stato è parificato ad altri cittadini dello Stato con i quali c’è un reciproco e totale riconoscimento, e che sono riconosciuti come tali dallo Stato.

L’impasse della democrazia italiana si è prodotto fondamentalmente su questo terreno, e dunque da qui bisogna partire per avviare il processo di risanamento.

Ciò non significa naturalmente che le questioni relative alla cittadinanza risolvano tutto il resto. Ci sono le questioni del lavoro, dell’innovazione, dell’occupazione, del sud. Ma è quello della cittadinanza il nodo senza il quale non si risponde alla questione specificamente italiana.

Non c’è nessun Cittadino europeo che sia debole come il nostro, così disarmato di fronte alla prepotenza dell’amministrazione, e contemporaneamente nessuna amministrazione che sia così debole di fronte all’arroganza non del cittadino ma del suddito arrogante, quello che si ribella ingiustamente al fatto che deve pagare le tasse, rispettare le regole e le leggi.

Tutto questo affonda veramente nella storia d’Italia, ma ci sono sicuramente moltissime responsabilità nostre, di tutti i partiti politici, di tutti coloro che hanno governato e tenuto insieme il Paese.

 

Rivoluzione tecnologica e difesa sociale

Dentro questo quadro, il punto su cui credo che dobbiamo riflettere è come oggi nel mondo tenere insieme il tema della rivoluzione tecnologica e informatica con la tenuta del tessuto sociale.

Il tessuto sociale prima “teneva”. Il lavoro era lavoro sociale, era lavoro immediatamente sociale, e la fabbrica, in quanto aggregato materiale, come massa di persone che stava insieme, ne rappresentava l’espressione più diretta.

Oggi invece la socialità va trovata in maniera mediata. Tra poco si potrà lavorare a casa con un computer e Internet.

Come si risponderà a questo grande rivolgimento?

 

I vantaggi di un mondo aperto

Forse per l’Italia, che ha un sud così debole, i processi di globalizzazione, con la loro dimensione aperta, possono rappresentare un’occasione nuova ed importante.

Nelle fasi precedenti le localizzazioni erano rigide, le frontiere rigorose. Adesso che tutto questo mondo si apre è possibile immaginare che regioni deboli possono avere degli input di sviluppo diffuso. Non penso alla grande industria ma ad uno sviluppo tecnologico che oggi può saltare certi passaggi prima obbligati.

Può essere sviluppato ciò che nel Mezzogiorno in parte già si intravede: certe attività diffuse, apparentemente marginali, ma in realtà estremamente produttive, capaci di produrre ricchezza e perfino di creare piccole aree ad alta intensità di occupazione.

 

L’importanza di essere alternativi

Tutto questo magma di problemi istituzionali, politici e sociali a cui ho accennato, può essere interpretato da destra e da sinistra.

Non siamo obbligati a rassegnarci ad un’idea della politica come ad una sorta di magma indistinto. Tutti i temi che abbiamo discusso, dal maggioritario al ruolo del parlamento, dal lavoro all’integrazione europea, possono essere letti, interpretati in maniera diversa a seconda dei valori, delle progettualità, dei diversi riferimenti culturali, nel senso più lato di questa parola.

Per questo parlo, più che di centrodestra e centrosinistra, di un centro che può essere interpretato da destra e da sinistra.

 

RICCARDO TERZI

L’articolazione dei poteri

Sono anch’io dell’idea di portare a compimento la riforma del sistema politico in senso maggioritario. Bisogna però precisare che cosa intendiamo dire con questa formula, perché ci sono diverse possibili interpretazioni.

Mario Segni, ad esempio, sostiene che il presidenzialismo è lo sbocco necessario della riforma maggioritaria. Io credo invece che non vi sia nessun rapporto di necessità tra il sistema elettorale maggioritario e il presidenzialismo.

Avremmo in questo modo una evoluzione del sistema politico nel senso di una definitiva destrutturazione dei partiti. È un approdo pericoloso, da contrastare. Può essere anche questa una forma di democrazia, ma è una democrazia plebiscitaria, estranea alla storia politica e costituzionale dell’Europa.

Credo che la democrazia in un paese maturo e complesso, che ha le tradizioni dell’Italia, debba basarsi su una precisa tradizione costituzionale che ci mette al riparo dagli eccessi di concentrazione del potere.

Se il modello è il popolo che sceglie il suo leader, di destra o di sinistra che esso sia, vengono meno le caratteristiche e le garanzie proprie di uno stato di diritto, viene meno l’articolazione dei poteri, si rompe l’equilibrio costituzionale.

 

La formula parlamentare

È preferibile una formula parlamentare. Anche se sono vere le cose che diceva De Giovanni quando ricordava che non possiamo più pensare ad un parlamentarismo puro, che finirebbe per espropriare il governo delle sue prerogative politiche. L’azione di governo deve avere una sua autonomia e bisogna allora trovare dei meccanismi di rafforzamento dell’esecutivo e fissare una più chiara e netta distinzione di ruoli tra parlamento e governo, dentro un quadro di equilibri e di garanzie nel rapporto tra i diversi poteri.

 

Il ruolo delle rappresentanze

Si sta invece diffondendo una forzatura del tutto demagogica, secondo la quale sono i cittadini che decidono direttamente, in quanto unici depositari della sovranità e con ciò salta tutto il sistema delle rappresentanze intermedie: partiti, sindacati, autonomie locali.

L’approdo finirebbe per essere un sistema in cui alla partecipazione politica come fatto collettivo si sostituisce il singolo come cittadino-consumatore, manipolato dai grandi mezzi di informazione. Per questo occorre vedere criticamente, senza enfasi retorica, il passaggio verso il maggioritario.

Certo, è stato un passaggio necessario. C’era un sistema politico bloccato, incapace di rinnovamento, e la scelta del maggioritario ha costretto i partiti a mettersi in movimento, a ridefinirsi, a ricollocarsi, ha aperto una dinamica nuova.

Però è un processo che sarà lungo e travagliato, dato che non siamo ancora in presenza di un bipolarismo consolidato, organizzato. E l’obiettivo non è una mitica “democrazia dei cittadini”, ma è piuttosto la costruzione di un sistema politico rinnovato, nel quale riprende senso la politica come azione collettiva.

Occorre perciò un’analisi concreta della situazione politica, delle forze politiche che si stanno muovendo, cercando di cogliere le dinamiche reali e la complessità della situazione.

 

Bipolarismo e non solo

Dire che ormai c’è il bipolarismo, c’è Berlusconi, c’è Prodi, ed in mezzo non ci deve essere niente, mi sembra riduttivo. I due poli sono in via di formazione e sono ancora attraversati da contraddizioni interne.

Non è detto che l’assetto definitivo sia questo. Qualsiasi forza può perciò essere legittimata a candidarsi a svolgere un ruolo nella vita politica italiana, senza per forza riconoscersi nei due poli così come sono oggi.

 

Il grande centro

In questo quadro, non sono ossessionato dal fantasma del ritorno del grande centro. Il centro c’è in qualunque società, in particolare in quelle come la nostra che non possono essere interpretate nell’ambito di un bipolarismo di tipo classico. In Italia, in più, il centro ha espresso una cultura politica che è attualmente in crisi, ma non è affatto scomparsa. Mi riferisco alla tradizione del cattolicesimo democratico. Abbiamo fatto soltanto un accenno, nella nostra conversazione, al tema della Chiesa, ma è bene ricordare che i cattolici nel nostro Paese rappresentano una forza importante, una componente decisiva in entrambi gli schieramenti.

Ciò che è vero è che non c’è più un centro autosufficiente, che il centro non è più il motore del sistema.

 

Dialogare con tutti

Questo non c’è più, però faremmo bene a cercare di capire ciò che succede, senza semplificazioni. C’è un travaglio dell’area cattolica e moderata, ancora incerta, che guarda a sinistra con molti dubbi sulla possibilità che questa alleanza funzioni, che sia rispettosa di certi valori.

C’è quindi un sistema politico che non ha ancora trovato il suo equilibrio, per questo è sbagliato, a mio avviso, guardare con diffidenza e ostilità qualunque cosa si muova al di fuori dello schema astratto del bipolarismo, che sia Dini, Di Pietro o la Lega. Invece in questa fase occorre avere un dialogo aperto con tutti. Chi ha idee le tiri fuori, e misuriamoci con esse.

Una sistemazione chiara del sistema politico può venire solo dopo.

 

Destra, sinistra e centro

In questo quadro destra, sinistra e centro sono parole convenzionali e soltanto alla fine di un processo di decantazione, di ristrutturazione del sistema esse potranno avere una loro definizione più compiuta.

Questo non vuol dire favorire un centrismo come luogo di operazioni puramente trasformiste. Ciò va sicuramente scoraggiato. Il sistema politico dovrà evolversi verso forme tendenzialmente bipolari.

Forse un sistema a doppio turno può essere più chiaro, perché la legge elettorale così come è in realtà non ha determinato una semplificazione del sistema dei partiti.

 

Le forme della democrazia

Infine sono d’accordo sul fatto che c’è il problema, che ci riguarda direttamente, delle forme della democrazia.

Una maggiore personalizzazione, un ruolo più marcato del leader, possono in parte rappresentare una tendenza oggettiva, inevitabile, anche a causa della preponderanza del mezzo televisivo.

Non ritengo però che ci si debba adattare all’idea che non c’è nulla da fare, che la vita pubblica italiana si debba reggere sul parere di dieci persone, che tutto il resto non conta o conta molto marginalmente, che i partiti non hanno più una vita democratica interna minimamente strutturata.

Mi pare questo un grosso problema che riguarda non solo i partiti, ma lo stesso funzionamento generale della democrazia, anche se si avverte una maggiore vitalità delle organizzazioni sociali, dello stesso sindacato, che nonostante una certa pesantezza burocratica, ha mantenuto una sua struttura, una sua circolazione democratica.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Il doppio turno

Concordo sul fatto che il maggioritario non implica necessariamente un presidenzialismo secco. Ma credo che “maggioritario” e “presidenzialismo” abbiano un rapporto abbastanza obbligato, anche se si potrebbe a lungo discutere sul tipo di presidenzialismo.

 

Il ruolo del leader

La leadership non è un fatto di secondo piano e oggi la politica questa dimensione dentro di sé ce l’ha; occorre evitare che diventi esclusiva ma che ci sia è fuor di dubbio.

È diffusa ad esempio la convinzione che l’Europa non esisterà finché non sarà individuabile attraverso un leader: il presidente dell’unione europea, non più il presidente di turno.

Il presidente come figura che personifica l’unione.

Con il presidenzialismo la leadership rischia di diventare esclusiva, e questo è un problema, ma la questione esiste, ed è anacronistica ogni idea di parlamentarismo anonimo, da primi anni del novecento.

 

Non tornare indietro

Insisto. Portare a termine la riforma in senso maggioritario è importante. Perché metto l’accento su questo “portare a termine”? Intanto per una ragione polemica, perché molte forze lavorano per tornare indietro.

E poi perché è l’unico sistema che obbliga, se attuato, al reciproco riconoscimento. Se non c’è questo reciproco riconoscimento il maggioritario non può esserci, perché rischia di diventare “totalitario”, regime.

E questo in un certo senso dovrebbe aiutare a risolvere un problema tuttora aperto nella politica italiana, per ragioni obiettive, la quantità e la qualità dei problemi da affrontare, e per un livello di conflittualità tra le forze politiche anomalo rispetto agli altri paesi.

Dove può stare l’errore? Nel considerare un sistema elettorale, qual è il maggioritario, la medicina per curare tutti i mali.

Quando è che è decisivo un sistema elettorale? Al momento del voto.

 

Il ruolo della società

Prima c’è la società, ci sono le associazioni, i partiti, i soggetti di rappresentanza politica, che hanno una loro legittimità, una loro presenza nella formazione dell’opinione pubblica, nel controllo degli esecutivi, nel controllo della pubblica amministrazione.

 

E del parlamento

Vorrei aggiungere una considerazione sul ruolo del parlamento.

Sono sempre più convinto, anche alla luce della mia esperienza europea, che bisogna aumentare le funzioni di controllo dei parlamenti, non quelle legislative. Ritengo infatti che l’aumento delle funzioni legislative dei parlamenti in una società complessa è un obiettivo utopistico, pressoché irrealizzabile.

 

VINCENZO MORETTI

In questo gran parlare di politica noto che non abbiamo minimamente affrontato la questione del come sarà finanziata.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

I costi della politica

Hai ragione. Il fatto è che dopo “tangentopoli”, la crisi dei partiti, non si è più parlato del costo della politica e non si capisce come ci si possa porre il problema di una ripresa dei partiti ignorando totalmente quello delle fonti di finanziamento dei medesimi.

 

L’assemblea costituente

Tornando al tema precedente, voglio ribadire, a conclusione di tutto questo lunghissimo ragionamento, che non sono per l’elezione di una assemblea costituente, perché non ritengo che il patto alla base della costituzione repubblicana debba essere sostituito da uno completamente nuovo.

 

VINCENZO MORETTI

La classe dirigente

Proviamo a introdurre in questa nostra discussione, di cui De Giovanni ha giustamente ricordato il taglio, almeno nelle intenzioni, rigoroso, con una concessione alla cosiddetta politica spettacolo.

Proprio noi quattro, assieme a Luca De Biase, giornalista, e ad Ettore Combattente, dirigente sindacale, abbiamo scritto in un documento alcune idee relative alla necessità di costruire in Italia una classe dirigente e di combattere la scelta del leaderismo come accentramento di ogni potere e decisione nelle mani di uno 0 di pochi. Su questo tema abbiamo promosso iniziative e discussioni che continuo a ritenere molto utili.

Nel corso di una di queste discussioni un vecchio militante del PCI prima e del PDS dopo, di quelli che da ragazzi hanno vissuto in prima persona le ultime fasi della resistenza, mi ha fatto questo ragionamento: «una classe dirigente è stata quella che si è costituita durante la resistenza; una classe dirigente è stata quella venuta fuori durante le lotte del 68. Nell’uno e nell’altro caso sono stati decisivi i valori, le idee, le lotte, le dinamiche sociali: oggi una classe dirigente come si costruisce, su quali basi?».

Come si costruisce? Avete pochi minuti ciascuno per provare a dire oggi come si costruisce una classe dirigente.

 

RICCARDO TERZI

Valorizzare le risorse

Io dico solo che una democrazia che funzioni correttamente deve essere in grado di costruire una classe dirigente anche senza sconvolgimenti epocali.

Certo. Momenti come quelli della Resistenza o del 1968, di grandi sconvolgimenti sociali e politici, fanno selezione, fanno emergere delle personalità forti.

Noi, oggi, dobbiamo pensare ad una selezione della classe dirigente da fare in una situazione diversa.

Per costruire questa classe dirigente dobbiamo guardare non soltanto ai partiti ma ad una realtà democratica più ampia, dalle associazioni al personale amministrativo di livello alto della pubblica amministrazione, alla società nel suo insieme.

Le risorse ci sono e si tratta di avere una politica per valorizzarle. I partiti dovrebbero fare di più una politica di promozione, di formazione, di valorizzazione di forze.

Ecco, io non aspetterei una nuova catastrofe, preferirei affrontare il problema in modo un po’ più pragmatico.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Alla questione posta da Moretti darò una risposta breve, per una ragione molto semplice.

Secondo me una risposta c’è, anche se mi rendo conto che può significare niente e può significare tutto.

Il punto più alto di unificazione

Per formare una classe dirigente bisogna avere in mente il punto più alto di unificazione della situazione contingente.

Il punto più alto di unificazione nel 1945 era la resistenza, l’antifascismo e la costituzione.

 

L’Europa

Oggi il punto più alto di unificazione è l’Europa e quindi una classe dirigente si forma se in tutte le realtà diffuse, dalla società civile al governo del paese, questo nodo Europa entra nel meccanismo delle decisioni quotidiane.

Devo dire che in questo ultimo anno siamo riusciti a fare uno sforzo rilevante per convincere il gruppo dirigente del PDS che l’Europa è una cosa che esiste e che è anche una cosa di una certa importanza.

In parte ci siamo riusciti con delle iniziative che hanno avuto un grosso riscontro. E vedo che quando questo dato non rimane un richiamo generico, cresce la consapevolezza di essere classe dirigente di governo.

 

Il governo del Paese

Naturalmente, oggi, il concetto di classe dirigente, l’idea di costruire una classe dirigente, deve essere completato dall’idea di costruire una classe dirigente per il governo del paese.

Questo allargamento della visione al di là dei confini provinciali localistici o anche semplicemente nazionali, è un elemento essenziale Questa dimensione oggi può essere anche un’esaltazione delle radici storiche da cui ciascuno di noi proviene.

 

Una nuova prospettiva

Siccome queste radici storiche dentro i quali ciascuno di noi si è formato esistono, così come i partiti, la domanda per formare una nuova classe dirigente può essere la seguente: come dare a queste radici una nuova prospettiva? Io ho indicato il terreno dell’Europa. Non puoi più formare la classe dirigente come hai formato quella del PCI, non è alle porte un grande processo di conflittualità politica dentro il quale formare e selezionare una classe dirigente di massa come sono stati l’antifascismo e la resistenza.

Hai però questi terreni su cui ti devi confrontare. E sono terreni non da poco.

 

 

5 – IL GIORNO DOPO

 

ROSARIO STRAZZULLO

Nel mezzo del cammin di nostra vita

La transizione non è ancora finita.

Ripartirei ancora una volta da qui, dopo il voto del 21 aprile, non per una sorta di tributo alle cose già dette, ma perché da qui faranno bene a ripartire tutti coloro, Prodi ed il suo governo per primi, che intendono costruire qualcosa di positivo per il futuro di questo Paese. Su questo punto lo stesso Massimo D’Alema è stato estremamente esplicito.

In che maniera riorganizzare il sistema politico? Quali le scelte istituzionali da fare? E quali quelle economico sociali, alla luce degli impegni europei? Come formare la nuova classe dirigente? Ancora una volta, come si rimette insieme la Nazione? Mi sembra il tema vero della transizione.

 

RICCARDO TERZI

Alla ricerca dell’equilibrio perduto

Penso che si debba leggere il dato elettorale come un passaggio dentro la transizione, non ancora come un punto di arrivo. È vero, come dice D’Alema, che siamo tutti un po’ più sereni, che sono fugate alcune ombre inquietanti. Penso però che il sistema politico italiano non sia ancora assestato, non abbia ancora trovato un punto di equilibrio.

È una crisi lunga, che dà a una nuova classe dirigente un compito che è anch’esso di lungo periodo, strategico. Il compito di ricostruire un tessuto sociale per molti aspetti disgregato; di ricostruire un sistema politico funzionante.

 

Il voto del 21 aprile

È evidente l’estrema importanza di un risultato elettorale come quello del 21 aprile che offre alla sinistra, per la prima volta nella storia italiana, la possibilità concreta di svolgere una funzione di governo. Stiamo attenti però a non trarne conclusioni sbagliate, perché non c’è stato nel Paese uno spostamento a sinistra significativo da parte dell’elettorato.

Se facciamo un raffronto tra i dati elettorali del 94 e quelli di oggi, notiamo che gli spostamenti sono molto modesti; se invece che con il sistema maggioritario avessimo votato con quello proporzionale avremmo parlato di sostanziale stabilità.

La novità, rispetto al 94, è tutta politica: mentre la destra non è riuscita a consolidare il proprio sistema di alleanze, c’è stata da parte del centrosinistra una gestione politica molto efficace. Massimo D’Alema ha costruito con tenacia un rapporto politico con il centro, ha costruito un sistema di alleanze molto largo. Questa è la novità. Gli equilibri sociali restano però più o meno gli stessi e restano ancora tutti presenti alcuni problemi molto complicati, a partire da quelli che emergono dal dato del Nord e dal voto alla Lega.

 

Le dimensioni elettorali della Lega

La questione Lega l’abbiamo già messa in evidenza. Abbiamo sostenuto, sostanzialmente, che la Lega non è un fenomeno superficiale, che ha delle radici profonde. È un fenomeno inquietante e pericoloso che oggi ha effettivamente aperto un problema di ricostruzione dell’identità e dell’unità nazionale.

Le dimensioni elettorali della Lega rappresentano un dato preoccupante, per molti aspetti non previsto. Esse sono la conseguenza non soltanto di una certa abilità politica e del notevole intuito di questo strano personaggio che è l’onorevole Bossi ma anche del fatto che essa ha delle basi reali, una propria precisa identità. Per questo può partecipare da sola alla competizione elettorale, perché andando da sola riconferma quegli elementi di identità. Va detto a questo proposito che è avvenuto un certo cambiamento nell’elettorato della Lega, che si indebolisce nei grandi centri, Milano e non solo, e si rafforza in quelli piccoli.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Sottovalutazione e svolta separatista

Mi pare che per l’ennesima volta ci sia stata una sottovalutazione della capacità di aggregazione della Lega, puntualmente smentita dal voto. E che si rischi di commettere lo stesso errore rispetto agli accenti marcatamente separatistici con i quali Bossi sembra deciso a “spendere” il suo successo elettorale. La “variabile” Lega diventa insomma sempre meno facile da gestire.

 

RICCARDO TERZI

La riforma federalista

Io credo che non si debba prendere sotto gamba l’iniziativa di Bossi. Il tema della secessione va affrontato con una certa nettezza. Occorre fermezza accompagnata da una strategia di riforme istituzionali che sia in grado di dare risposta ai problemi del Nord, o meglio, ai problemi dell’unità nazionale.

Ci chiedi come si rimette insieme una nazione. Abbiamo già ragionato su questo. Io sono convinto che si rimette insieme la nazione con una operazione di riforma che valorizzi tutti gli elementi di autonomia. Una riforma di tipo regionalista e federalista. Questa è la prima emergenza dopo il voto. I problemi delle diverse aeree del Paese si presentano come non facilmente componibili.

 

VINCENZO MORETTI

Il punto è proprio questo. Quali risposte dare al Nord? E quali al Sud? E come tenere assieme le une alle altre?

 

RICCARDO TERZI

Le domande del Nord e quelle del Sud

Nord e Sud sono entrambi attraversati da inquietudini e disagi profondi. Però le domande del Nord e quelle del Sud non sono le stesse, anche se ci sono alcuni elementi comuni.

 

La riforma della pubblica amministrazione

Un’operazione che valorizzi gli elementi di autonomia e un’operazione politica che punti a creare condizioni di efficienza nel funzionamento dello stato, della macchina della pubblica amministrazione possono essere certamente utili al Nord come al Sud. Sui problemi istituzionali io credo che bisogna partire da questi due punti: il federalismo e l’amministrazione.

L’agenda politica, rispetto alla fase antecedente al voto, va dunque riequilibrata: piuttosto che ripartire dalla disputa sul presidenzialismo e semipresidenzialismo partirei proprio dalla riforma federalista dello Stato e dalla riforma della pubblica amministrazione.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Le novità

In presenza di un sistema politico che vive una fase ancora molto convulsa, complicata, di assestamento, quali sono a tuo avviso le novità principali?

 

RICCARDO TERZI

Consolidare l’Ulivo

Forse la novità è l’Ulivo, che non è più soltanto una sommatoria di partiti e di partitini e comincia ad acquistare una sua autonoma forza di attrazione, una sua identità. Il fatto stesso che nel maggioritario abbia ottenuto un risultato più positivo della somma dei voti dei singoli partiti vuol dire qualche cosa.

Credo che si possa lavorare per dargli ancora maggiore visibilità. Anche se è chiaro che non è possibile pensare oggi ad un partito dell’Ulivo che superi le identità tradizionali, questo sarebbe quantomeno prematuro, sarebbe un errore immaginare che esso viva soltanto in campagna elettorale. Sta a noi consolidare, con iniziative ed elaborazioni, questa alleanza, farla diventare qualche cosa di più di un’alleanza elettorale.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Vittoria tecnica e vittoria politica

Innanzitutto una valutazione generale sul risultato del 21 aprile.

Il termine è riduttivo e non esprime tutto quello che è avvenuto, ma credo che si possa dire che si è trattato più di una vittoria tecnica che di una vittoria politica. Tutto sommato, quando Terzi prima sottolineava i meriti di chi ha saputo con efficacia organizzare il patto elettorale tra forze diverse diceva, mi pare, una cosa non lontanissima da questa.

È una vittoria che non ha risolto la transizione, che non assesta compiutamente il sistema politico: in questo senso è una vittoria in cui la dominante tecnica, cioè di accordo intelligente fra componenti prevale sulla dominante politica.

Ciò non significa ovviamente disconoscere l’importanza di tale vittoria. Oggi può finalmente riprendere una discussione, ed i tratti più affannosi del passaggio stanno alle nostre spalle. E poi c’è una esperienza di governo da “giocarsi” nel migliore dei modi.

 

Il consolidamento del maggioritario

La dimensione più politica di questa vittoria sta, forse, nel netto consolidamento del maggioritario.

Il fatto che alle 22 e 2 minuti del 21 di aprile già sapevamo che avrebbe governato Prodi e non abbiamo dovuto subire per un mese gli interventi di quaranta partiti, ognuno dei quali asseriva di aver vinto, mi pare rappresenti un salto di civiltà politica.

 

La questione Ulivo

Ho un’opinione in parte diversa da quella di Terzi, anche se certo problematica, sulla questione Ulivo. E credo che dobbiamo fare due tipi di riflessione.

Il polo non ha saputo gestire tecnicamente il maggioritario. Non ha fatto accordi di desistenza con Rauti, non ha operato tutti quegli accorgimenti che gli avrebbero dato quei 30-40 seggi in più che ci avrebbero consegnato un’Italia esattamente divisa in due.

La vittoria è più tecnica che politica proprio perché l’Ulivo, questa concentrazione di forze vincenti, è rimasto sostanzialmente una alleanza elettorale. E forse non poteva essere altrimenti dato che si `e persa l’occasione, nei due anni che abbiamo alle spalle, di mutare qualche cosa di profondo ed essenziale nella forma dei partiti e nei rapporti tra nuove forze politiche. L’Ulivo nasce da un accordo tra PDS in quanto tale, Partito Popolare in quanto tale con l’aggiunta di forze eterogenee e a volte ambigue nel loro progetto finale. E ho l’impressione che la corazza dei partiti che formano l’Ulivo sia ormai molto difficile da scardinare. Bisogna dunque lavorare a modificarla, non a metterla fra parentesi.

 

Più che altro un’emergenza nazionale

Il mio forse è un ragionamento poco sintetico, troppo analitico, che sottovaluta le possibilità che l’Ulivo rappresenti una sintesi più forte dei diversi soggetti che lo compongono, ma ho l’impressione che si è messo insieme un fronte, con varie motivazioni, su un’emergenza nazionale. Ed è del tutto possibile che le forze che sono dentro l’Ulivo si troveranno su posizioni opposte al prossimo voto. Comunque, innovare l’alleanza dell’Ulivo non si potrà fare nelle stesse condizioni di oggi. Questo è sicuro. Difficilmente si ripresenterà la stessa emergenza.

 

VINCENZO MORETTI

E il successo della Lega?

 

BIAGIO DE GIOVANNI

La Lega

La Lega c’è. E non sta nei poli. Il che significa che la questione settentrionale, l’altra faccia della questione nazionale, è ormai un dato di fatto. Anche se non credo si debbano prendere troppo alla lettera le cose che dice Bossi, è indubbio che il problema c’è. È il problema della nazione, del tenersi insieme.

 

La questione settentrionale

La Lega interpreta la necessità profonda di riforme istituzionali. Per la prima volta in forma cosciente, accanto alla questione meridionale, compare nella storia d’Italia una questione settentrionale.

E personalmente ho l’impressione che oggi la spinta sulla parola federalismo può racchiudere in sé un rischio che in realtà non è casuale perché il federalismo è nato in Italia in chiave secessionista ed ha in questo momento gli stessi caratteri.

Ma l’ho già detto prima e non intendo ritornare sul tema.

Affrontare la questione settentrionale emergente, la questione del nord-est, ha in sé una potenzialità diasporica esplosiva e rischia di diventare un modo per individuare gli elementi di spaccatura piuttosto che quelli di unità del Paese.

Che ciascuno si faccia i fatti suoi: sembra essere questo il messaggio prevalente. Esaltazione della produttività, degli elementi di benessere, rifiuto delle impalcature centralistiche burocratiche.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Ma tutto questo non coglie anche un bisogno vero di autonomia?

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Articolare l’unità dello Stato

Nessun dubbio che vi debba essere una risposta in direzione delle autonomie. Continuo a preferire la parola decentramento per una ragione storico politica. Allo stato dei fatti l’Italia è uno Stato unitario, e uno Stato unitario non si federa, è già un’unità.

Il punto è vedere come articolare questa unità, quindi come decentrare, come distinguere. Si dice autonomia delle città. E ci sono elementi di verità, come annotavo già precedentemente, ma veramente pensiamo che si possa andare verso una frammentazione municipale dell’Italia?

 

Ripensare le autonomie

Insomma ci giochiamo questa partita sul serio o invece il nostro entusiasmo federalista dipende dalla presenza di Bassolino al Sud, Cacciari al Nord, non so chi altro da che altra parte? O pensiamo che le regioni così come sono possono rappresentare le forme del decentramento che vogliamo? Se dobbiamo ragionare fino in fondo e seriamente di autonomia occorre innanzitutto ripensare le autonomie e soprattutto ripensare come il “federalismo” non assuma una valenza esclusiva e diasporica.

 

Non basta dire solidale

A mio avviso non basta più la parola solidale aggiunta a federalismo. Non basta, perché occorre comprendere come l’irrompere della questione settentrionale non abbia intrinsecamente una valenza antimeridionale.

Come si tiene insieme l’Italia, con i suoi problemi ed il suo dualismo? È o non è questa la domanda alla quale dobbiamo rispondere? Come si tengono insieme Nord e Sud? Come fare in modo che le autonomie non finiscano con l’avere una carica eversiva?

 

Un presidenzialismo che completi il maggioritario

Ultimissima annotazione.

Rimango convinto che con il consolidamento del maggioritario, verso il quale non credo si possano nutrire dubbi, la questione presidenziale prima o dopo si ripropone. Non c’è maggioritario senza presidenzialismo. Per certi versi, esso è il completamento del maggioritario.

 

RICCARDO TERZI

In Germania e in Inghilterra c’è un maggioritario senza presidenzialismo.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Questo è vero. Però tanto in Germania quanto in Inghilterra c’è comunque un maggioritario nel quale con molta nettezza è individuato il leader in cui la nazione si riconosce. Il punto è come fare per individuarli anche qui.

 

VINCENZO MORETTI

Maiora premunt?

Tullio de Mauro ha scritto che da decenni in questo Paese “Maiora premunt”. C’è sempre una ragione, un pericolo o un motivo particolare per il quale non si possono affrontare le cose con un minimo di progetto, di programmazione.

La transizione non è finita anche per questa radicata incapacità di andare oltre il contingente, la tattica politica.

Avete detto che oggi ci sono le condizioni perché si ricominci a discutere. Ma è proprio così? O ancora una volta maiora premunt? La possibilità che si possa ricominciare a discutere è fondamentale per utilizzare al meglio la maggiore serenità della nuova stagione politica e per percorrere un buon tratto di questa strada chiamata transizione.

 

Nord e Sud divisi nei bisogni

Questione settentrionale e questione meridionale: come ricordava Terzi, propongono domande ugualmente pressanti ma per molti versi diverse. Si tratta allora di individuare elementi di unificazione innanzitutto sul terreno dei valori, dei principi fondativi. Poi si possono avere risposte diverse sul terreno dei programmi, dei contenuti, e anche degli interessi in campo.

 

Il disagio del Nord

Proviamo a guardare un po’ meglio a questo disagio del Settentrione, ad andare un po’ al di là degli aspetti di protesta più immediati.

Il passaggio spesso tumultuoso da una civiltà prevalentemente agricola ad un modello iperproduttivista quale quello che caratterizza, ad esempio, vaste aree del nord-est, ha prodotto mutamenti spesso profondi nelle culture, nei modelli delle preferenze, nell’organizzazione sociale, nella qualità della vita. Fenomeni “nuovi” come l’immigrazione e la caduta dei livelli di vivibilità si sono intrecciati con tassi di abbandono della scuola dell’obbligo tra i più elevati d’Italia, giornate e ritmi di lavoro lunghe e stressanti, l’esclusione di fatto dai lavori nella scuola e nella pubblica amministrazione. “Nuovi ricchi”, venuti su a prezzo di sacrifici e di duro lavoro, che si sentono continuamente minacciati da uno stato centralista e dissipatore di risorse.

 

E quello del Sud

Contemporaneamente, abbiamo un Mezzogiorno nel quale la mancanza di lavoro, in primo luogo quello industriale, e di sviluppo tecnologico, è il problema prioritario. Ed il mancato sviluppo del Sud diventa sempre più un peso insostenibile. Per il Sud e per il Nord.

 

Elementi di tipo nuovo

Se questa è la situazione, la discussione attorno alla questione settentrionale non può ridursi semplicemente allo sforzo di assecondare e di rincorrere le spinte che da quella parte provengono. Forse bisogna introdurre nella discussione elementi di tipo nuovo. Costruendo ad esempio una diversa cultura del lavoro, un diverso rapporto tra uomo e lavoro, tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Meno lavoro, dove di lavoro c’è n’è molto; più lavoro dove c’è n’è poco. Ed una diversa idea di civiltà.

 

Le ragioni dell’impegno politico

Un’ultima considerazione. Abbiamo detto che il leader non basta, il leader da solo non serve.

Come costruire una nuova classe dirigente? Certamente, come affermava Terzi, attraverso la riforma della pubblica amministrazione ed il federalismo. Ma forse `e altrettanto decisiva la definizione di un nuovo rapporto tra i cittadini e la politica. Albert Camus ha scritto che «Quando saremo tutti colpevoli, sarà la democrazia».

Ed Henry David Thoreau che il «destino di un Paese non dipende dalla scheda che si lascia cadere nell’urna elettorale ma dal tipo di uomo che ogni mattina si lascia cadere dalla camera da letto alla strada».

La politica non è cosa che appartiene né soltanto al leader e neanche solamente ai partiti.

Come fare in modo che si ritrovino le ragioni dell’impegno politico, della partecipazione alla politica? Come ricostruire soggetti nuovi, forme nuove di partecipazione?

 

Sparigliare le carte

Avverto insomma l’esigenza di sparigliare le carte, di introdurre fattori nuovi, di evitare rituali e continue rincorse all’emergenza.

A Sud ci vuole lavoro. A Nord ci vuole federalismo. Possono essere ridotte a questo la questione meridionale e quella settentrionale? Ma se non parte una discussione vera sui caratteri, i contenuti, i programmi, quale federalismo e quale lavoro intendiamo costruire?

 

ROSARIO STRAZZULLO

Lo scarto

Personalmente vedo uno scarto tra il parlare di vittoria tecnica e la contemporanea constatazione di un importante assestamento della transizione italiana. E poi è proprio vero che il voto non ha prodotto spostamenti sociali e culturali? Giampaolo Fabris ha ad esempio affermato che dietro al voto all’Ulivo si intravede uno spostamento di orientamenti ideali e culturali, dato che con esso si manifesta probabilmente il passaggio, nella società italiana, da valori tipici degli anni ottanta, individualistici, a valori che dovrebbero meglio rappresentare l’incontro tra sinistra e cattolicesimo democratico: solidarietà, rapporto tra individuo e società, maggiore attenzione al bene pubblico.

 

Ancora sull’agenda delle cose da fare

Infine. Ritornando all’agenda delle cose da fare.

Terzi ha indicato federalismo e pubblica amministrazione. De Giovanni si è chiesto, ripigliando queste idee, come teniamo insieme il paese, consapevoli che ciò significa anche tenere insieme un dualismo.

Io credo che nell’immediato la vera questione che avrà di fronte il governo sarà quella di dire una cosa chiara sulle scelte economiche e sociali per entrare nell’Europa monetaria.

Sarà su questo terreno a mio avviso che si potrà o non si potrà dare una risposta alla necessità di tenere insieme l’Italia.

 

RICCARDO TERZI

Discutere si può, anzi si deve

È possibile riprendere una discussione in un clima più sereno, su questo non c’è dubbio.

Si tratta di vederne modi e tempi. Nel PDS credo che a questo punto una discussione anche di prospettiva e di strategia debba essere fatta, possa essere fatta, senza più l’assillo del risultato elettorale. Anche se molte delle cose di cui qui parliamo avranno bisogno comunque di tempi di maturazione.

Mi pare che concordiamo su un giudizio circa il risultato del voto: comincia a funzionare un sistema maggioritario.

 

Il centro

Anche il problema del centro a questo punto si definisce in maniera più precisa.

Personalmente continuo a ritenere che sia importante avere una iniziativa verso il centro. È stata questa una delle chiavi del successo elettorale.

Il centro non esiste più come entità autonoma, ed in questo senso non sono molto preoccupato dei pericoli di ricostruzione del grande centro, nonostante le velleità che qualcuno può nutrire. Nei fatti il sistema politico si è avviato verso una trasformazione in senso bipolare.

Questo processo fa sparire il centro come entità autonoma perché ciascuno deve ragionare nell’ambito di tale bipolarizzazione.

 

Le alleanze

Dal punto di vista della iniziativa politica, della capacità di costruire alleanze, dato che siamo giunti fino a Dini, quindi fino a forze molto lontane dalla sinistra, non vedo come si possa fare di più.

E dobbiamo riconoscere che nonostante questo il Paese è diviso sostanzialmente in due.

 

Parlare alla destra

Credo che il problema che a questo punto abbiamo, se vogliamo consolidare il risultato, è decidere se vogliamo parlare alla destra. Non mi riferisco tanto alla destra politica, con la quale peraltro va portata avanti la ricerca di intese per un funzionamento del sistema bipolare. Mi riferisco agli elettori, ai cittadini che al Nord, Centro e Sud, con motivazioni diverse, hanno votato per la destra.

Sul mutamento di clima culturale io sarei un po’ più prudente. Probabilmente è vero che il Paese ha reagito con un certo fastidio a posizioni demagogiche, populistiche, a un eccesso di rissosità politica, però le ragioni di fondo che hanno portato al successo della destra due anni fa sono ancora tutte lì, non superate.

In questo senso parlare alla destra vuol dire affrontare alcuni concreti nodi sociali, chiarire una proposta di politica economica, chiarire lo stesso tema del federalismo. Se la destra è rappresentativa di istanze reali presenti nella società, in determinati ceti, essa non sarà sconfitta solo con una battaglia di tipo ideologico.

 

La società leghista

Dietro il voto della Lega c’è ad esempio una determinata realtà sociale, fatta in particolare di piccola impresa e di lavoro autonomo, verso la quale c’è un evidente deficit di iniziativa politica da parte della sinistra.

Non si tratta di rincorrere la Lega, ma di capire quale realtà sociale c’è dietro. È la questione settentrionale che va interpretata, analizzata nei suoi diversi aspetti, nelle domande che essa esprime.

E qui vedo come centrale il tema dell’impresa, sul quale la sinistra non ha ancora elaborato una propria iniziativa con caratteri innovativi, soprattutto per quanto riguarda la nuova configurazione del sistema di imprese.

 

La rivoluzione produttiva

A sinistra si continua a ragionare pensando alla FIAT, alle grandi fabbriche, mentre in realtà il mondo del lavoro si è modificato radicalmente. C’è stata una rivoluzione produttiva di cui non abbiamo preso atto.

Il voto alla Lega lo hanno dato non solo i piccoli imprenditori, ma anche i loro operai, perché hanno esattamente lo stesso problema: una sinistra che non parla della loro condizione e che non gli dà delle prospettive.

Ciò detto credo che con la Lega dobbiamo cominciare a confrontarci con una certa nettezza, anche con durezza se è necessario. Il pericolo secessionista è infatti un pericolo reale, non una boutade di Bossi.

 

Demagogia leghista? No, grazie.

Bisogna avere una azione di contrasto forte. Anche per controbattere una serie di mistificazioni. Francamente questa idea di rappresentare la Padania come popolo oppresso non sta in piedi. Né si può accettare che Bossi parli a nome di tutto il Nord. Io dico da uomo del Nord. Bisogna reagire alle varie manovre demagogiche di Bossi. Contemporaneamente però vanno date delle risposte, sul piano economico-sociale, affrontando il tema dell’impresa e del lavoro autonomo, e sul piano istituzionale con una proposta seria di tipo federalista.

 

Una seria proposta federalista

Continuo a ritenere la formula “federalismo delle città” ambigua e sbagliata. Le città sono importanti, però non possiamo tornare a una visione municipalista. Vanno costruite delle grandi aggregazioni regionali o sovraregionali nell’ambito di un processo di riforma della macchina dello Stato.

Il governo Prodi dovrà su questo impegnarsi con una proposta seria, concreta e convincente di riforma istituzionale. Ed è necessario cominciare a fare subito alcune cose che possono essere fatte a costituzione vigente. È possibile avviare da subito un insieme di misure nel senso di una rottura dei vincoli centralistici, modificando radicalmente il sistema dei controlli, assicurando autonomia organizzativa alle regioni e agli enti locali, trasferendo risorse e competenze dal centro alla periferia, realizzando operazioni di delegificazione e di snellimento delle procedure. E soprattutto è possibile metter mano al compito davvero decisivo di una riforma della pubblica amministrazione.

 

La questione Ulivo

E vengo alla questione dell’Ulivo.

Forse il mio può essere un auspicio per un possibile futuro più che un’analisi fondata sui dati della realtà. Mi pare però di avvertire, nella coscienza della gente, e dei nostri stessi elettori, che l’Ulivo comincia a essere un elemento di identità, soprattutto per i giovani che per la prima volta quest’anno lo hanno votato. Non c’è solo la forza organizzata dei partiti della coalizione, del PDS, del PPI, di altre forze, ma c’è un elemento di novità.

C’è una potenzialità su cui lavorare e sbaglieremmo a ricondurre il tutto dentro una logica tradizionale di partito. È una operazione lunga, perché ci sono identità di partito che restano vitali e non possono essere liquidate, ma c’è comunque la possibilità di un lavoro di tipo nuovo, aperto verso il futuro, per dare all’Ulivo una base politica, ideale, programmatica, per farlo vivere come soggetto politico nuovo nella società italiana. E a mio avviso sarebbe questo un approdo molto importante, il principio di una ricostruzione strategica che dobbiamo affrontare. Tutta la vicenda storica di questa fine di secolo ci costringe ad un ripensamento radicale, e a poco servono le identità politiche del passato, perché si tratta di mettere in campo un progetto di tipo nuovo. L’incontro di culture e di tradizioni politiche diverse è l’unico modo, l’unica via efficace per tentare di costruire le risposte adeguate e necessarie in questa fase di trasformazione. L’Ulivo può essere appunto il luogo per questa ricerca.

 

Un esecutivo di buon profilo

Per quanto riguarda infine il governo, ci troviamo senz’altro di fronte ad un esecutivo di buon profilo.

Sono meno tranquillo sulla sua capacità di innovazione. E il problema della innovazione è decisivo se vogliamo parlare alla parte del Paese che ha scelto la destra.

La destra due anni fa ha vinto perché si è presentata come forza di innovazione, di cambiamento, e se la nuova maggioranza non riesce ad esprimere su questo medesimo terreno una propria capacità di iniziativa rischia seriamente di perdere consensi. Non può bastare una linea di garanzia democratica, di serietà, di rigore, perché a questo punto le domande che sono aperte nel Paese hanno in sé un elemento di radicalità e richiedono quindi qualcosa di più di un “buongoverno”.

 

Bisogno di innovazione

Concordo sulla necessità che tale capacità di innovazione si manifesti anche sul terreno istituzionale, anche se mantengo una riserva di fondo sull’ipotesi presidenzialista.

Come insegnano i casi dell’Inghilterra e della Germania, se un sistema bipolare funziona, non c’è bisogno di presidenzialismo. E del resto, come dicevamo prima, due minuti dopo le dieci del 21 aprile sapevamo già che Prodi sarebbe stato il nuovo presidente del consiglio. Un cambiamento è già avvenuto, e comincia a funzionare. Il sistema presidenzialista rischia invece di introdurre delle forzature pericolose. Comunque anche su questo terreno si può discutere.

 

Politiche istituzionali

La questione più urgente a me sembra quella relativa al federalismo ed al sistema delle autonomie. Si può istituire una commissione bicamerale con un mandato di fare un lavoro di approfondimento ad ampio raggio, su tutti i temi di riforma costituzionale, per giungere finalmente a delle conclusioni unitarie.

 

E politiche sociali

Altrettanto importante è la capacità di innovazione sul terreno delle politiche sociali.

Abbiamo dei vincoli europei. E io sono per una linea che punti a un piena integrazione dell’Italia in Europa nonostante i prezzi anche sociali che ci saranno da pagare. Occorre però una capacità nuova di iniziativa e di riforma sul piano sociale. Limitarsi esclusivamente ad un discorso di austerità sarebbe un errore grave.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

Cercherò di essere breve. Anche perché molti temi non possiamo non lasciarli sullo sfondo.

Tornare a guardare ai fatti

Non credo molto alla questione dello spostamento negli orientamenti ideali e culturali del Paese. Può darsi che ci sia una mia diffidenza su questo tema, ma così come sulla questione dell’Ulivo potremo fare un confronto tra un po’ di mesi.

Per ora riconfermo che vedo in giro, dietro a parole come solidarietà, cattolici, troppo ideologismo e troppa poca attenzione ai blocchi sociali. I valori di una nazione non si spostano perché c’è un po’ più di attenzione alla solidarietà. Trovo che sia rischioso attestarci su questo fronte. Forse più che alle ideologie dobbiamo cercare di tornare a guardare ai fatti.

Ed i fatti dicono che il consenso della Lega viene da un preciso blocco sociale. L’Ulivo ha dentro di sé componenti estremamente differenziate, Forza Italia e Alleanza Nazionale sono in parte persino eterogenee, e non a caso hanno perso. È un discorso da tenere aperto, perché complicato ed importante, però la mia impressione è questa.

 

L’Ulivo che non c’è

Sull’identità dell’Ulivo, nonostante mi interessi molto una riforma del PDS con un Ulivo forte, continuo a nutrire delle riserve.

In politica ci sono dei tempi. Ed una occasione si è sicuramente perduta. Anche qui, maiora premebant. Abbiamo scelto di mettere assieme tutto quello che si poteva. Abbiamo rovesciato la situazione politica. Ed ho sufficiente realismo per capire che questo è un fatto di grande importanza. Ma ho l’impressione che essendo stata l’operazione Ulivo sostanzialmente interna ai circuiti e alle forze già strutturate in partito è improbabile farne un soggetto a sé. A mio avviso l’Ulivo non c’è come sintesi “più avanzata” delle forze che lo compongono.

 

La riforma dei partiti

C’è per la verità un altro capitolo di enorme importanza ed è la riforma dei partiti. Cosa vogliamo, ad esempio, che il PDS diventi in questo sistema politico rinnovato? Che significa il tema posto da D’Alema di una riunificazione degli spezzoni della sinistra? Ma è un discorso da riprendere in un’altra occasione.

 

Un orizzonte strategico

Terza questione. Sento anche io che se non si riprende un filo, un orizzonte, un quadro generale strategico, in cui tutti i termini con i quali ci troviamo a confrontare si riannodano, si rischia una mera gestione dello stato delle cose che può anche avere effetti laceranti. Se non troviamo una via per tenere insieme problemi che oggi come oggi stanno tra di loro in contraddizione radicale, ci possiamo trovare in breve tempo in una situazione di ingovernabilità sociale del paese.

Non so se voi che avete più evidentemente il polso di questa realtà di quanto non l’abbia io, condividete o meno questa mia impressione.

 

Conservare non serve

Qualunque elemento di pura conservazione, per quanto forte, in questo momento è rischiosissimo, perché può portare all’acuirsi di tutte le contraddizioni. Quelle del Nord, con un ulteriore riaccorpamento e rafforzamento della Lega. Quelle del Sud, con elementi di disperazione, di ribellismo, di emarginazione. Quelle delle forze politiche, perché in presenza di una illuminata conservazione la situazione italiana non è destinata ad un’evoluzione lineare. E purtroppo ho l’impressione che difficilmente questo governo, con i suoi equilibri difficili, possa dare molto di più di una tenuta illuminata. Se riesce a dare di più, vuol dire che l’Ulivo funziona ed allora sarebbe smentito il mio pessimismo.

 

Il ciclo economico

La possibilità di elementi di conservatorismo istituzionale e politico ci sono tutti. Così come la estrema difficoltà della gestione della congiuntura economico-sociale.

Ci troviamo in presenza di una caduta del ciclo alto in tutta Europa, di un abbassamento del ciclo molto forte e di una ripresa della lira con le conseguenze positive ma anche negative che questo, come sappiamo, comporta.

Inflazione, elementi di diaspora nella gestione del dualismo, urgenza dei problemi monetari: ormai il treno è partito.

 

L’ingresso nell’Unione monetaria

La posizione che ha assunto Kohl rispetto al deficit del proprio paese rende evidente che il rinvio dell’unione monetaria è in realtà improponibile.

È il tema che sta occupando banche centrali e governi: far parte della moneta unica 0 restare solamente nel mercato unico. Sapendo che in quest’ultimo caso si resterà una forza di seconda classe, con dei vincoli assolutamente ineludibili.

Per i prossimi due 0 tre anni, al di là dei valori, sono questi i temi sui quali si intrecceranno risposte di sistema politico, sistema istituzionale e così via.

La sinistra non può limitarsi ad una difesa conservativa dello stato sociale in quanto tale, anche perché le politiche anti deficit non sono più soltanto frutto di vincoli esterni, ma sono dati dalla situazione dei vari paesi, che hanno tutto l’interesse ad evitare di scivolare in una dimensione localistica e tendenzialmente marginale.

Mi fermerei qui, nel senso che vedo questa straordinaria serie incompiuta di temi, di prospettive dentro le quali dovremmo misurare ideazioni e capacità di governo. Bisogna provare, come diceva Moretti, a sparigliare le carte.

Se rimaniamo fermi, se inseguiamo le diverse spinte finiamo in realtà con l’appoggiarci sulle cose così come stanno credendo magari di poter dare a ciascuno qualcosa.

 

Ripensare strategicamente la questione italiana

Il problema è invece come ripensare strategicamente la questione italiana, tenendo assieme vincoli, necessità, problemi, potenzialità. Perfino quelle del Mezzogiorno. Ed in questo quadro ci sono più mosse possibili di quanto una analisi apparente non mostri.

 

ROSARIO STRAZZULLO

Tagliare sì, tagliare no, ma poi cosa taglio

In Germania i sindacati, l’SPD, dicono no ai tagli di Kohl, e si va dunque ad uno scontro nel paese decisivo dell’Europa, con la sinistra sulla difensiva attorno allo slogan “no ai tagli” e con Kohl che afferma che per stare dentro l’Europa monetaria bisogna tagliare.

Personalmente ho il timore che anche in Italia il centrosinistra avrà ben poca possibilità di scelta e di innovazione. Mi sembra il tema che nell’immediato ha di fronte l’Ulivo. E, a differenza di Kohl, sullo stato sociale possiamo tagliare ancora ben poco. E forse anche ciò che De Giovanni chiamava capacità di riannodare tutti i fili passa per un chiaro segnale su questo punto. Secondo Massimo Riva questo è il punto per il quale si sfonda anche a Nord Est, tra quelli che sono o comunque si sentono nell’area del marco e pensano di potercela fare purché si liberino del Sud.

 

VINCENZO MORETTI

Tecnologie e lavoro

Vorrei tornare brevemente sulle questioni del lavoro, dello sviluppo. Terzi ricordava che la sinistra ha fatto del conflitto nella grande impresa, il cui emblema era la FIAT, un vero e proprio mito, mentre ha guardato molto poco alla piccola impresa e al lavoro autonomo.

Quando accennavo all’esigenza di introdurre elementi nuovi pensavo ad esempio a quanti affermano che nei prossimi anni le tecnologie renderanno superfluo un sacco di lavoro. Cosa sarà di coloro che avevano un lavoro e lo vedranno messo in discussione? E di quei giovani che si affacceranno per la prima volta sul mercato del lavoro? Forse un modo utile per affrontare tali problemi consiste nell’incentivazione del lavoro autonomo, dell’autoimpiego, nella possibilità di rendere formali le mille cose che oggi sono informali. E nell’avere un atteggiamento un po’ più fiducioso nel futuro, nei nuovi lavori e nelle nuove possibilità che con la società dell’informazione si renderanno possibili. Ad esempio con il telelavoro. Sono in ogni caso temi sui quali c’è bisogno di molta innovazione.

 

RICCARDO TERZI

Soltanto una brevissima considerazione. Le cose dette da Strazzullo e da Moretti individuano quali saranno nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, i temi, i nodi sui quali la sinistra si dovrà misurare, e il governo dovrà fare i conti.

 

Una politica per la Nazione

C’è bisogno di una politica nazionale, perché non può esserci un governo che dà il contentino al Nord Est e poi fa un po’ di assistenza al Sud. Ci deve essere una politica nazionale, una politica economica, una politica del lavoro, per affrontare al meglio i passaggi ardui dell’integrazione europea.

C’è bisogno di un’iniziativa che ridia il senso di uno sviluppo dinamico del sistema sociale e del sistema economico. Questo richiede molta capacità di innovazione anche da parte nostra per quanto riguarda le politica del lavoro, il mercato del lavoro, il sistema formativo, le politiche di impresa, con particolare riguardo alla piccola impresa. E tutto questo vale per il Nord e per il Sud. Dentro una visione tradizionale rischiamo di trovarci abbastanza presto di fronte ad un impatto violento. Questo può essere scongiurato se si gettano le basi per una nuova strategia di sviluppo che superi gli elementi di assistenzialismo, che faccia pagare anche dei prezzi ma dia una prospettiva sia al Nord che al Sud. Innanzitutto ai giovani.

 

BIAGIO DE GIOVANNI

L’Europa non ha alternative a sé medesima

È vero. Ci sono problemi e malumori in tutti i paesi. Compresi Francia e Germania. E non è da escludere che i sindacati e le sinistre riescano in quei Paesi ad ottenere degli aggiustamenti.

Ma che questo possa veramente spostare l’asse, la logica franco-tedesca nella quale è implicato il processo di unificazione europea, io non solo lo escludo ma spero che non sia così. L’Europa non ha alternative a sé medesima. I movimenti in atto li vedo molto strutturati. Nella stessa Francia dove c’è stato un mese di movimenti sociali i punti fondamentali comunque non sono stati messi in discussione. Io stesso potrebbe accadere in Germania dove peraltro l’impatto è minore, non tocca ancora il cuore della società.

Da noi il problema è diverso perché in Italia già siamo all’osso. Per questo è necessario introdurre elementi forti.

Come dinamicizzare il sistema italiano? È la grande questione che avremo di fronte. E sulla quale saremo impegnati.



Numero progressivo: C38bis
Busta: 3
Estremi cronologici: 1997, febbraio
Autore: Biagio De Giovanni, Riccardo Terzi, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo
Descrizione fisica: Stampa di pagina web
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: Versione pubblicata online sul blog www.nazione.wordpress.com del testo originariamente pubblicato da Edizioni Theoria (record V19). Ne è stata pubblicata una parte in “Austro e aquilone” col titolo C'era una volta un paese