DI ANDREA MARGHERI

L’avventura della rivista Argomenti umani, che così profondamente ha coinvolto Riccardo Terzi, è iniziata nel Consiglio di Amministrazione degli Editori Riuniti allora diretto da Adalberto Minucci.

Il Consiglio decise nel lontano ‘96 di liberarsi della responsabilità editoriale della rivista fiorentina Il Ponte fondata da Piero Calamandrei presso la Nuova Italia di Pippo Codignola e diretta successivamente da Enzo Enriquez Agnoletti e Marcello Rossi. La rivista navigava allora in una grave tempesta finanziaria, la decisione era inevitabile.

Discussi con gli amici più stretti, tra cui Riccardo in primo luogo, dell’ipotesi di sostituirci agli Editori Riuniti. Trovammo altri amici che assicurarono il loro sostegno e tentammo l’impresa di rilanciare Il Ponte fondando a tale scopo la Società Editoriale Il Ponte che ebbe la prima sede in via Ponte Vetero a Milano. Con Marcello Rossi avviammo una direzione collegiale che durò per circa due anni. Lavorammo non solo con la ‘rete’ consolidata di collaboratori del Ponte, ma anche con altri intellettuali provenienti da varie esperienze. Terzi, ovviamente in primo luogo, ma anche Alfredo Reichlin, Sergio Vaccà, Silvano Andriani, Alceo Riosa, Giacinto Militello, Agostino Megale, Mario Aldo Toscano, G.B. Zorzoli, Umberto Curi, Beniamino Lapadula per citarne solo alcuni. Un contributo particolare e molto gradito ci venne in quel momento da Umberto Eco che intervistò per noi Massimo D’Alema dopo le polemiche di Bergonza e da D’Alema stesso che ci inviò alcuni suoi articoli. Cominciò allora, inoltre, la collaborazione con Giorgio Ruffolo e Giacomo Beccattini, autori storici del Ponte. Molto gradite furono l’adesione e la partecipazione di Marc Lazar e altri docenti parigini, allora in contatto con la Facoltà di Scienze Politiche di Milano, che inviarono generosamente importanti contributi. Si aggiunsero poi, con altri, Enzo Roggi, Luigi Agostini, Iginio Ariemma, Walter Tocci, Marcello Villari, Antonio Duva, Umberto Carpi, Fabio Nicolucci, Roberto Speciale, Carlotta Gualco, Elio Matassi e tutto il gruppo della rivista Inschibboleth da lui fondata. Questi cenni sintetici danno solo un’idea della molteplicità e ricchezza di risorse interdisciplinari e professionali del gruppo che si andava costituendo e via via cementando.

In quella fase Terzi si impegnò soprattutto in una nuova Collana, I Quaderni del Ponte, affidati alla redazione di Milano. Fu soprattutto un lavoro di analisi della trasformazione della società italiana ed europea, delle nuove relazioni tra le classi sociali, del rapporto tra politica e società: cominciò a delinearsi allora lo schema teorico su cui abbiamo così intensamente lavorato negli anni successivi, dopo la separazione non del tutto pacifica dal gruppo fiorentino e la decisione, anch’essa molto avventurosa, di fondare Argomenti umani con redazione a Milano (prima in via Ponte Vetero e poi in via Manara) e qualche anno dopo anche a Roma in Piazza di Pietra. Mi piace ricordare che l’interesse suscitato da tale avventura ci portò nuovi e prestigiosi amici: per esempio Emilio Tadini che ci concesse l’uso libero delle sue opere per le copertine della nuova rivista.

Lo schema teorico cui ho accennato e di cui mi servirò per ricostruire il senso del lavoro di Riccardo si basa su tre punti cardinali:

  • la definizione del rapporto tra politica e forze sociali;
  • le trasformazioni del mondo contemporaneo e i segnali di crisi della democrazia rappresentativa;
  • il significato del ‘fare politica’ e il rapporto tra lotta politica e battaglia delle idee.

Sul primo punto partiamo da ciò che scriveva Riccardo nell’ottobre del 2006:

«La politica, quando ha la dignità di questo nome, non sta su un altro pianeta, in un suo mondo separato, ma sta piantata nella realtà, e quando il discorso sulla società e il discorso sulla politica sono due facce di un tutto unico e indivisibile. Questa può apparire come una ovvietà, e in effetti tutta la storia del pensiero politico ci parla dei conflitti sociali e del modo in cui essi possono essere fronteggiati e regolati. Ma da qualche tempo sembra che questa verità elementare sia andata perduta, e i partiti attuali sembrano essere inclassificabili dal punto di vista sociale, slegati dai processi che nella società si manifestano. […] Per i partiti sembra quasi che la storia come cambiamento, come trasformazione continua si sia fermata e l’innovazione si concentri solo nella gestione del sistema esistente attraverso l’impetuoso progresso tecnologico delle reti di comunicazione e di gestione. Una vendetta tardiva di Fukuyama.»

Fukuyama, in realtà, ha avuto ancora torto: quell’inaridimento della cultura politica che Riccardo sottolinea non è stato un segno della fine della storia, ma è stato esso stesso un cambiamento radicale di dimensioni, di protagonisti, di equilibri geopolitici. I partiti politici europei dei paesi occidentali sono colpiti e in alcuni casi travolti proprio dall’incapacità di cogliere la vastità e la profondità del cambiamento e di adeguarsi ad esso. Da questa incapacità traggono origine il nuovo pensiero e le nuove forme di azione politica, quelle che mettono in discussione la stessa esperienza storica dei ‘soggetti collettivi’ del passato, dei partiti di massa del secolo scorso. Con un effetto collaterale disastroso: l’azione politica rischia di ridursi alla gestione del presente, a una permanente e ossessiva propaganda elettorale amplificata a dismisura dalle reti sociali. E nel trionfo della propaganda e del chiacchiericcio social si alimentano tendenze pericolosamente regressive. Ne cito qui due.

Alla prima, Riccardo ha accennato più volte. Scriveva nel 2007: «Troppi, anche a sinistra, sembrano appassionati dal modello del leader carismatico a cui si consegna il potere di fare e disfare secondo il suo arbitrio».

La seconda tendenza è l’avanzata impetuosa, nel disorientamento e nella paura generali, di una convinzione irreale e distorcente: la convinzione che per uscire dalle difficoltà economiche e sociali, basta chiudersi in se stessi, nelle proprie identità tradizionali e nelle proprie città, respingendo da sé la percezione della nuova dimensione del mondo, delle sue contraddizioni e dei suoi conflitti.

Due tendenze regressive che hanno contribuito non poco in questi anni anche alla crisi più generale della sinistra in molti paesi, e soprattutto in Italia. Ed hanno sparso nell’opinione pubblica un pericolosissimo veleno per la democrazia rappresentativa.

Tale veleno ha fatto sì che il dialogo e il confronto tra le diverse tendenze e tradizioni ideali e culturali si sia ridotto via via al quotidiano tatticismo elettorale, abbia perso lo spessore di una ricerca dialogica sulle diverse visioni del mondo, sull’analisi delle mutazioni costanti della società, delle conoscenze, delle tecnologie. Si è appannata e quasi spenta ogni tensione a misurarsi con gli altri sul piano ideale e valoriale, partendo dalla comprensione dei motivi dei gruppi sociali, culturali, politici più vicini a quello a cui ciascuno appartiene. Nella politica che prevale oggi nel mondo occidentale le convergenze e le alleanze perdono il loro carattere di cooperazione operosa su determinati punti progettuali e in una determinata fase storica: ogni gruppo politico si proclama autosufficiente, mentre resta eternamente subalterno ai sondaggi elettorali e rinuncia a guardare al di là di questi nel tempo e nello spazio.

Riccardo odiava proprio questo immiserimento del confronto ideale e progettuale che colpiva e continua a colpire sia il sindacato sia la lotta politica. Come è noto, era molto legato a Trentin non solo per il ruolo che il grande dirigente sindacale svolgeva nella vicenda italiana, ma anche per il suo cimentarsi con lo studio approfondito di tutte le correnti del socialismo e del comunismo, comprese quelle ereticali: le tendenze, cioè, libertarie e radicali che si impegnarono nel secolo scorso a tener viva la ricerca ideale e culturale anche di fronte all’apparente trionfo del conformismo e alle drammatiche tragiche evoluzioni del «socialismo reale».

Del resto, l’attenzione di molti studiosi, cito per l’Italia gli esempi di Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Franco Fortini e Lelio Basso, si era rivolta alla straordinaria ricchezza delle correnti di pensiero che nel secolo scorso indicavano prospettive più aperte e pluraliste degli sviluppi del movimento comunista e socialista. Così operando, hanno sparso un seme che può ancora essere fecondo: può aiutare un rilancio ideale e pratico di una prospettiva progressista di sinistra di fronte alla crisi della democrazia europea, all’insorgenza del sovranismo autoritario e di nostalgie fascistoidi, di tendenze dichiaratamente razziste.

Anche su un altro versante Terzi si impegnò con particolare intensità. Il versante del pensiero sociale germogliato in una parte del mondo cattolico che cerca nell’applicazione piena degli orientamenti conciliari un contributo all’avanzamento dell’umanità sulle vie di una maggiore giustizia sociale, della certezza dei dritti umani, della cooperazione armoniosa tra i popoli. A questo proposito voglio ricordare la sua interessante analisi dell’enciclica sociale di Benedetto XVI. Era molto interessato a studiare le possibilità di incontri e compromessi sulla base di un progetto che:

«[…] ponendo al centro il tema della persona, dei suoi diritti, della sua autonomia, ponendo cioè il problema di una cittadinanza universale e inclusiva, con pari diritti e pari doveri per tutti, apra nuovi campi all’azione politica e sindacale.»

Un progetto adeguato ai tempi e alle condizioni attuali, strettamente connesso all’impegno anche costituzionale di ricercare nella certezza di un lavoro la piena dignità dell’individuo e le condizioni essenziali della sua libertà. La progettualità e la concretezza sono le basi essenziali di ogni dialogo teso ad affrontare le contraddizioni vecchie e nuove del sistema capitalistico e di rivitalizzare le forze che chiedono il cambiamento. Per questo Riccardo cercava di definire la nuova natura e la nuova dimensione delle questioni nodali che la sinistra ha di fronte. Scrive nel 2010:

«[…] Non c’è [solo] la competizione tra destra e sinistra, ma a questa si sovrappone una competizione ancora più radicale tra politica e antipolitica, tra la democrazia e la sua negazione.»

L’ultimo decennio ha visto in Italia la conferma clamorosa di questa analisi con il successo del principale movimento antipolitico e populista, e con l’effetto collaterale della smisurata diffusione del chiacchiericcio politicante, della propaganda elettorale e delle provinciali schermaglie sui social. Intanto nella realtà sociale e istituzionale si è prodotta, invece, una verticalizzazione estrema della politica che ha trasformato la rappresentanza democratica in una delega fiduciaria. A un certo punto il cittadino rifiuta tale delega per esprimere per altre vie la sua rabbia e cadendo nell’illusione di una partecipazione puramente individuale attraverso le reti tecnologiche. C’è qui un’anticipazione di ciò che abbiamo visto con il trionfo elettorale dei Cinquestelle.

Riccardo anticipò anche un’acuta analisi della Lega che indicava le ragioni profonde del suo conseguente successo, che stiamo adesso misurando. Scrive ancora nel 2010:

«La Lega è un pezzo di Medioevo che nasce dalle contraddizioni della nostra modernità e le fa esplodere rovinosamente, mettendo addirittura in discussione fondamentali acquisizioni come i principi di eguaglianza e di libertà. […] La Lega ha saputo incanalare gli umori e i rancori di questa nostra umanità dissociata in una rappresentazione collettiva, in una narrazione che racconta non solo dell’‛io’, ma del ‛noi’. Il surrogato di un’ideologia primitiva ma efficace, perché si identifica un nemico che ci minaccia. E il nemico è tutto ciò che sta fuori dai nostri confini. Il militante leghista non si sente isolato, ma parte di una crociata contro il nemico non importa se reale o immaginario e per farlo accetta l’autorità del capo.»

Dopo questa analisi Riccardo concludeva che «le forze democratiche non sono vitali, le forze vitali non sono democratiche». Il suo preciso ritratto delle forze in campo è stato confermato da tutti gli avvenimenti successivi, comprese le prove decisive delle elezioni di marzo 2018 e del governo bicolore. Si è affermato uno schema culturale di protesta e di individuazione dei nemici che nel vuoto prodotto dalla crisi profonda della sinistra e dei partiti di massa ha saputo orientare le paure di una gran parte dei cittadini e ha accomunato – nonostante le profonde differenze, l’antitesi si potrebbe dire di radici storiche e ideali e di scelte programmatiche – i due filoni del populismo italiano.

Prima, il 4 marzo, con il vantaggio elettorale dei grillini, poi, via via, con l’affermazione della visione molto più povera nella sua barbarie regressiva e razzista della Lega.

L’antidoto all’avanzata della barbarie populista, Riccardo lo trova nell’analisi che fa della ‘buona’ politica e del suo rapporto con la conoscenza e l’elaborazione ideale. Nel settembre del 2008 in un rapporto allo SPI scriveva che si è affermata nella cultura della sinistra

«[…] una «lettura» troppo disinvolta della famosa tesi di Feuerbach la quale dichiara che non basta interpretare il mondo, bisogna cambiarlo. Una lettura che ha indirizzato la tradizione culturale verso una tendenza antintellettualistica e pragmatica come se fosse sufficiente l’attivismo della volontà per venire a capo dei nodi teorici che la storia ci pone davanti. Oggi, questo tipo di pragmatismo si rivela particolarmente rischioso, proprio perché, in una situazione di cambiamento, esso finisce per agire alla cieca, senza conoscere il contesto nel quale si trova ad operare. Occorre dunque avere molto chiaro il, rapporto che lega azione e conoscenza pratica e teoria. Non c’è l’una senza l’altra. […] Ma è proprio questa scissione il dramma del nostro tempo: il sapere solo accademico da un lato e dall’altro il cinismo di un potere fine a se stesso.»

Riccardo sapeva benissimo, e lo ha più volte sottolineato, che questa dissociazione viene favorita e in un certo senso provocata da una doppia crisi: da un lato una caduta degli ideali e della progettualità di tutte le sinistre nel mondo dopo l’‛89 e lo scioglimento dell’Urss; dall’altro l’eclisse del moderno partito di massa come soggetto del pensiero e dell’azione collettivi, come struttura portante della partecipazione e della democrazia rappresentativa. Ma la storia ci ripropone in modo nuovo la sfida dell’eguaglianza, della libertà, della dignità umana contro ogni discriminazione. Solo i soggetti che ripropongono tali sfide sono diversi e chiedono ora un pensiero e una visione della società coerenti con il cambiamento. Come l’araba fenice la tensione verso l’eguaglianza, la solidarietà, la giustizia sociale si ripropone come domanda di un progetto generale, come aspirazione ideale e culturale, come comportamento pratico. L’antipolitica può anche essere provocata da una comprensibile rivolta dei cittadini contro la diseguaglianza e contro l’arbitrio del potere, ma non è mai risolutiva e può avere effetti micidiali. Può diventare cioè nella ricerca dei nemici del popolo da colpire e distruggere un moto cieco e violento verso la lacerazione del tessuto civile e l’apertura verso soluzioni autoritarie.

Il problema di fondo è che esiste un solo antidoto: la buona politica, appunto.

Riccardo così la descrive in un passo che mi sembra di esemplare limpidezza:

«La politica è il lavoro di mediazione tra i soggetti, è ciò che tiene insieme il sistema, non con la trasmissione gerarchica del comando, ma con il metodo del confronto e del coinvolgimento democratico. […] È un principio che è entrato anche nella nostra Costituzione nel nome della sussidiarietà, con la quale si riconosce la pluralità dei soggetti che possono concorrere al bene comune, è il solo valido per contrastare da un lato il corporativismo delle forze sociali e dall’altro una verticalizzazione del potere politico mortale per la democrazia.»

Nell’appassionata discussione che si accendeva nelle riunioni di redazione Riccardo contribuì molto alla visione della politica che Argomenti umani propose e sostenne. L’esatto contrario, cioè, della visione elitaria, accentratrice, personalistica, negatrice dell’autonoma capacità di rappresentarsi e di gestirsi delle forze sociali e delle comunità locali, che a molti sembrava negli stessi anni il destino moderno della sinistra nell’era delle tecnologie informatiche e delle reti. Sino alla scomparsa della stessa nozione di sinistra, sino alla separazione nel campo progressista delle sedicenti élite illuminate e moderne dal popolo arretrato.

Ma per affermare la nostra visione pur fondata e lungimirante ci voleva e ci vuole la presenza di un nuovo soggetto storico capace di azione e di costruzione teorica collettive, capace di saldare tendenze diverse ma convergenti verso l’obiettivo di una lotta per maggiore giustizia sociale, per la dignità e la libertà di ciascuno. Vorrei dirlo, concludendo, con le parole di Riccardo: «Uno spazio democratico, aperto e plurale, nel quale ciascuno può essere protagonista attivo nel confronto con gli altri e nella tensione di una ricerca comune […] condizione prima della conoscenza del mondo attuale e della battaglia politica e culturale nella società e nelle istituzioni democratiche».

Andrea Margheri
Milano, 9 aprile 2019

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