UNA CULTURA POLITICA PER IL MONDO POSTIDEOLOGICO

di Riccardo Terzi

Un partito politico si definisce in quanto offre una determinata analisi della società e prende posizione intorno ai conflitti che la attraversano e la agitano. La politica, quando ha la dignità di questo nome, non sta su un altro pianeta, in un suo mondo separato, ma sta piantata nella realtà, e quindi il discorso sulla società e il discorso sulla politica sono le due facce di un tutto unico e indivisibile. Questa può apparire come una ovvietà, e in effetti tutta la storia del pensiero politico ci parla dei conflitti sociali e del modo in cui essi possono essere fronteggiati e regolati.

Ma da qualche tempo sembra che questa verità elementare sia andata perduta, e i partiti attuali tendono a essere inclassificabili dal punto di vista sociale, slegati dai processi reali che nella società si manifestano. Non è più chiaro che cosa essi rappresentino, quali interessi, quali forze, in vista di quali obiettivi. Anche il linguaggio corrente si è evoluto nella medesima direzione, e sempre più si parla del rapporto tra “politica” e “società civile” come se si trattasse di due mondi separati ed estranei l’uno all’altro, per cui il problema è solo quello di ‘aprirsi’ alla società civile, senza che però questa società venga mai analizzata criticamente nelle sue relazioni, nei suoi conflitti, nella sua interna morfologia. Insomma, ciò che si è prodotto è una frattura tra il sociale e il politico, e sta qui, in questa scissione, la causa prima di tutti i fenomeni di crisi, perché da un lato la politica si costituisce come mera tecnica del potere, e dall’altro la società si corporativizza e si frantuma, mancando di un qualsiasi tessuto connettivo. È quindi del tutto logico che, in questa situazione, le spinte dell’antipolitica si possano dispiegare senza nessun freno, perché ciò che prevale nel corpo sociale, in assenza di una chiara competizione tra progetti alternativi, è un generale spirito di rancore e di sfiducia. Ciascuno si trova a ragionare solo sul piccolo raggio della sua esperienza individuale, e sono allora le incertezze, le paure e gli egoismi a prendere il sopravvento, perché nella vita di ogni giorno c’è sempre qualche stortura contro cui recriminare. E la politica è il capro espiatorio contro cui si scaricano tutte queste tensioni. L’antipolitica non è più solo una devianza, una degenerazione dello spirito pubblico, ma è ormai il senso comune, il modo in cui la società rappresenta se stessa.

Da che cosa dipende questa involuzione del discorso politico? Dove, e perché, si è prodotta questa rottura teorica, dalla quale la politica esce come svuotata di senso? Tutto ciò ha a che fare con la storia e con la crisi delle ideologie. Le ideologie, si sa, sono rappresentazioni sempre parziali e spesso deformanti della realtà, strumenti di azione più che strumenti di conoscenza. Ma qualunque iniziativa che voglia incidere nella realtà ha sempre bisogno di essere ideologicamente orientata e motivata, perché deve suscitare consenso e passione e deve potersi inquadrare in una determinata interpretazione della vita e del mondo. Se guardiamo attentamente alla realtà, vediamo che non c’è nessuna grande istituzione che non si regga su un fondamento ideologico, ovvero su una identità, su un insieme di valori e di simboli.

Ora, alla fine del Novecento subentra un’era di spossatezza, dopo il grande scontro ideologico che ha insanguinato il secolo, e la parola d’ordine diviene: fine delle ideologie. È cominciata, così si dice, l’epoca postideologica, pragmatica, nella quale l’unica cosa ragionevole che resta da fare è stare dentro le regole della realtà, senza cercare di forzarle, e solo così, con questo realismo rassegnato, si può neutralizzare il potenziale di violenza e di intolleranza che è proprio di tutte le ideologie. Sulle macerie del Novecento dovrebbe così iniziare una nuova storia, senza più i miti e le utopie, senza le violente passioni politiche del nostro recente passato. Torna così, anche se in modo capovolto, il mito dell’“uomo nuovo”, ed è l’uomo che si è finalmente liberato delle ideologie. Ma in realtà scatta qui un meccanismo ideologico estremamente feroce, perché è la realtà stessa che si fa ideologia, che si costituisce come un assoluto, come un principio non più negoziabile e non più sottoposto a un pensiero critico. La fine delle ideologie comporta la definitiva subordinazione del pensiero alla realtà. Non è un processo di liberazione, ma è un movimento di resa, perché non c’è più spazio per nessuna iniziativa che guardi al di là del presente. L’uomo nuovo non è altro che l’uomo che ha smesso di pensare. Ora, nel momento in cui l’ideologia dominante diviene questo pseudo-pensiero postideologico, alla politica viene meno il suo oggetto, perché sulla società non c’è più nulla da dire, ma essa va solo riconosciuta e accettata nella sua fattualità. Ai miti politici subentra il mito della “società civile”, luogo incontaminato in cui si esprime la naturale creatività delle persone, e la politica diviene allora un’incomprensibile sovrastruttura, un peso, una invadenza, una sopravvivenza del passato di cui dobbiamo liberarci, riducendone al minimo l’impatto sulla realtà. I partiti politici di oggi sono tutti, più o meno, prigionieri di questo schema teorico, e il loro problema è solo quello di essere riconosciuti, di essere visibili nella società dell’informazione, di ritagliarsi il loro piccolo spazio di potere e di privilegio, senza avere in mente nessun progetto di lungo respiro sull’organizzazione sociale e sui suoi possibili cambiamenti. Nonostante ciò che comunemente si pensa, non c’è affatto un “dominio” della politica, ma piuttosto un suo adattamento subalterno, una sua tattica di sopravvivenza dentro una realtà che le è sfuggita di mano e di cui ha perso il controllo. E forse proprio per questo i politici sono il bersaglio di una ostilità diffusa, perché superflui, perché non si capisce più dove stia la loro funzione. Nella realtà, ciò che si chiede a gran voce, che la società civile prenda il sopravvento sulla politica, è già avvenuto, e se il quadro che la nostra attuale società ci presenta è un quadro di diseguaglianze, di inefficienze, di particolarismi, ciò non è un effetto della politica, ma dell’assenza di politica. Ci stiamo riavvicinando a quello stato naturale del «bellum omnium contra omnes» di cui ci ha parlato, alcuni secoli fa, Thomas Hobbes. E in questa situazione dire, come spesso si dice: «La politica faccia un passo indietro», significa solo lasciare che la crisi sociale segua il suo corso e porti a compimento i suoi effetti distruttivi. Si è quindi determinata una situazione paradossale, perché la società pensa di essere espropriata dalla politica, mentre ciò che accade è esattamente il contrario. E la politica, quel poco che ne resta, non ha saputo elaborare nessuna risposta convincente e non riesce in nessun mondo a motivare la dignità della propria funzione. La destra se la cava con una miscela di populismo e di arroganza, e in fondo può sperare, con qualche ragione, che questo spirito anti-politico finisca per giocare a suo favore. È quindi la sinistra a essere spiazzata. Perché sinistra vuol dire politica, e progetto, vuol dire diritti, e socialità, e se questi concetti sono travolti dal generale crollo delle ideologie e delle culture politiche essa si trova infine disarmata. Nel mondo postideologico la sinistra non ha più nessuna ragion d’essere. Se essa, anziché reagire, si adatta a questa opacità del discorso politico, finisce schiacciata negli ingranaggi di un meccanismo di potere che è fine a se stesso.

Siamo quindi in una situazione di gravissima emergenza democratica, la quale solo in parte dipende dal gioco spregiudicato di Berlusconi e dal groviglio di interessi che intorno a lui si è costituito. Berlusconi è più l’effetto che la causa. E anche dopo il cambiamento politico prodotto dalle ultime elezioni, ciò che sta davanti a noi non è il ritorno a una normale e costruttiva dialettica democratica, ma è la percezione di una crisi che sta precipitando, non per la forza offensiva della destra, ma perché c’è una società allo sbando, e basta poco, anche un grillo parlante, a scatenarne l’aggressività. E tutto, nel prossimo futuro, può ancora accadere.

È in questa situazione di incombente possibile catastrofe che prende corpo il progetto del ‘Partito democratico’, come estremo tentativo di offrire una via di uscita dalla crisi. Allo stato attuale, questo progetto mi sembra essere ancora in bilico tra due possibili e opposti esiti: essere il punto di avvio di un lungo processo di ricostruzione della dimensione politica, o viceversa, essere il punto terminale della crisi, l’ultima dissolvenza della politica. Per poter risolvere questo dilemma, mancano ancora alcuni essenziali chiarimenti circa il tragitto che si intende percorrere, e manca soprattutto una risposta alla domanda cruciale: qual è l’analisi della società italiana, e come il nuovo partito intende agire dentro questa realtà e dentro i suoi conflitti. Manca quindi non un dettaglio, ma l’essenziale. E probabilmente convivono dentro il processo entrambe queste ispirazioni e solo in corso d’opera si potrà capire quale sarà alla fine la tendenza prevalente.

Un partito che «si apre alla società civile» non vuol dire assolutamente nulla. Può essere solo un’operazione di cosmesi, con qualche nome riconoscibile che faccia da “testimone”, da sponsor, senza per altro modificare i vecchi meccanismi della politica. O può anche essere qualcosa di più sostanziale, ovvero una dichiarazione di resa agli umori e ai livori della società civile, affidandosi ormai, per tutte le decisioni, alle tecniche più o meno manipolate dei sondaggi. Vi sono alcuni segnali inquietanti che sembrano propendere per questa seconda ipotesi.

Sul tema della sicurezza, ad esempio, non c’è quasi più nessuno che voglia opporsi all’ondata conservatrice che mette tutto in uno stesso sacco, illegalità e devianza, criminalità e immigrazione, invocando una generale politica repressiva, senza nessuna attenzione per i risvolti sociali del problema. Tolleranza zero: è questa la scelta del Partito democratico? Se qualcuno non è d’accordo lo dica, e lo dica ad alta voce. In una società che produce diseguaglianza e marginalità sociale, è importante sapere se questa marginalità è affidata solo all’azione repressiva delle forze di sicurezza, o se è considerata come un problema politico da affrontare con tutti i possibili strumenti di integrazione. Qual è la priorità: un vasto programma di edilizia carceraria, per poter internare tutti i soggetti pericolosi e devianti, o una efficace politica di contrasto alla povertà e di recupero sociale? Sicurezza e legalità sono valori che possono essere declinati in forme diverse, con diversi indirizzi politici. Non è affatto vero che qui viene meno la differenza tra destra e sinistra, ed è giusto pretendere che venga fatta in proposito una scelta di chiarezza. Si tratta cioè di decidere se la legalità è posta in astratto, senza collocarla nel suo concreto contesto sociale, o se la battaglia per la legalità significa in primo luogo aggredire tutto il nodo drammatico delle marginalità e delle esclusioni, di cui si alimentano tutte le organizzazioni criminali.

Veltroni va ripetendo da qualche tempo un suo slogan; il nemico è la povertà, non la ricchezza. È un messaggio suggestivo e rassicurante. Tutti ci sentiamo così liberati dai nostri sensi di colpa, e possiamo tranquillamente continuare a coltivare i nostri interessi e anche le nostre frivolezze. Ma c’è pure una ragione politica ed economica che produce le diseguaglianze, ed è un fatto che l’attuale tipo di sviluppo tende sempre più ad allargare il ventaglio delle disparità sociali. È questo un problema etico e politico che vogliamo affrontare alla sua radice, o ci limitiamo a qualche misura assistenziale? Ecco qui, in concreto, un conflitto materiale che è aperto nel cuore della nostra società, e sul quale un partito politico deve prendere posizione, per dire che questo è il prezzo inevitabile dello sviluppo, o per dire che la politica ha il compito di rovesciare questa tendenza.

C’è un altro slogan di successo che ormai tutti ripetono: bisogna favorire il merito, riconoscere cioè le qualità professionali e sostenere quei “luoghi di eccellenza” in cui queste qualità possono esprimere tutto il loro potenziale. Benissimo, è una di quelle affermazioni dalle quali è impossibile dissentire. Ma forse è il caso di riprendere la formula usata dal Psi di Craxi e Martelli nella Conferenza programmatica di Rimini: meriti e bisogni, una formula con la quale si vede non solo un lato del problema, ma i due lati tra loro connessi di ciò che sta in alto e di ciò che sta in basso nella scala sociale. Se si parla solo dei “meriti” si sceglie di non parlare dell’altro lato. Anche qui c’è un dilemma politico che va chiarito: se il problema è solo quello dello sviluppo, del successo nella competizione mondiale, lasciando al loro destino le vittime di questa competizione, o se la politica si propone di tenere insieme sviluppo e diritti, economia e socialità, investendo su un forte sistema di welfare.

È scontato? A parole sì, ma nei fatti le cose sono assai più complicate e le dichiarazioni di principio sono continuamente contraddette dalla realtà. Sotto questo profilo, il tema della politica fiscale è un significativo banco di prova. Serpeggia nel Paese un generale spirito di rivolta fiscale, che è stato alimentato da una massiccia campagna politica. Ecco che allora tutti si affrettano a dire che le tasse vanno diminuite, subito, per tutti. Anche in questo caso, c’è una ragionevolezza apparente, e c’è un consenso facile da raccogliere. Ma c’è l’altra faccia del problema, che viene silenziosamente aggirata ed elusa, ed è il rapporto tra fisco e stato sociale. Se si sceglie un lato del problema, si sacrifica l’altro. Occorre quindi affrontare il tema del fisco senza semplificazioni e senza facilonerie, avendo comunque attenzione all’equilibrio economico complessivo che è necessario per garantire la tenuta di un sistema forte di protezione sociale. Occorre quindi sapere che una drastica riduzione della pressione fiscale è possibile solo al prezzo di smantellare le istituzioni del welfare.

Ecco due precise situazioni di conflitto: politica di sicurezza e politica fiscale. Il Partito democratico, in questo conflitto, dove sta, come si colloca? Si mette al rimorchio dell’opinione pubblica, o per meglio dire di quella parte di opinione pubblica che ha la forza di far sentire la sua voce, o ha un suo progetto, una sua coerenza, un disegno che non dipende dagli umori del momento?

C’è poi una domanda preliminare, che riguarda non le singole scelte programmatiche, ma la forma della democrazia: come si prendono le decisioni? C’è un altro luogo comune che oggi viene continuamente ripetuto: la politica deve decidere, e nel mondo globalizzato è essenziale la rapidità della decisione. Questo argomento, anch’esso apparentemente ovvio, contiene un veleno nella sua coda, perché esso viene usato per mettere in discussione la complessità delle procedure democratiche, per denunciarne la lentezza, e per proporre un diverso modello, quello di un leader dotato di pieni poteri. In questo caso non c’è più un “processo” democratico, nel quale entrano come protagonisti i diversi soggetti, politici e sociali, ma c’è solo l’investitura plebiscitaria di un capo carismatico. La destra ha puntato apertamente sulla forza di suggestione di un modello autoritario e decisionista, pensando che fossero ormai mature nel Paese le condizioni per uno “strappo”, politico e culturale, per una rottura degli equilibri costituzionali. Il referendum che si è svolto sul progetto di riforma proposto dal centrodestra ha smentito in modo clamoroso questa valutazione, ed è da quel risultato che dobbiamo oggi partire, non per rifiutare in via di principio il tema delle riforme istituzionali, ma per porlo su una precisa e solida base culturale, in alternativa all’ispirazione della destra.

I corni del dilemma sono del tutto chiari: decisionismo o partecipazione, qualità democratica della decisione politica o principio di autorità, pluralità dei soggetti che concorrono alla decisione o sistema monocratico, democrazia orizzontale e inclusiva o rigida struttura gerarchica del potere. Naturalmente, ci possono essere diverse sfumature, diversi modi di contemperare i due opposti principi. Ma deve essere chiaro qual è il principio fondativo su cui si deve reggere tutto l’ordinamento. E oggi, nel momento in cui si è aperta una crisi profonda nel rapporto tra politica e società, la scelta per una democrazia partecipativa appare come l’unica strada praticabile per restituire senso e dignità alla sfera politica.

C’è bisogno della costruzione di un nuovo partito proprio per fronteggiare questa crisi, e il partito si chiama “democratico” perché questo oggi è il tema, perché si tratta di rivitalizzare una democrazia che è entrata in uno stato di sofferenza. La partecipazione popolare alle prossime elezioni primarie può essere, in questa direzione, un primo passaggio importante, ma occorre che questa ispirazione democratica sia davvero l’asse portante di tutto il lavoro successivo che il partito dovrà realizzare. Ma nel dibattito che si sta conducendo non mi sembra che intorno a questa scelta vi sia sufficiente chiarezza e determinazione.

E ho l’impressione che sia in movimento anche un’altra idea, un’altra ispirazione, sia sul fronte istituzionale, con l’assillo di trovare comunque un accordo per una “grande riforma”, sia sul piano strettamente politico, con la formula del “partito a vocazione maggioritaria”, il che sembra voler dire, se non si tratta di una banalità, che si considerano le attuali alleanze come un ingombro di cui liberarsi al più presto. L’attuale frammentazione politica è evidentemente un problema. Ma come se ne esce? Io credo che debba essere perseguito l’obiettivo di una complessiva riorganizzazione del campo del centrosinistra, consolidando i punti di convergenza e lavorando, con gli strumenti della politica, per una più forte mediazione tra i diversi punti di vista. Se si esclude questa strada, resta solo il trasformismo delle maggioranze variabili, facendo del Pd un partito centrista, la cui vocazione è solo quella di stare comunque in una posizione di governo, non importa con chi e non importa per quale politica.

La mia tesi, in conclusione, è che il Partito democratico è una grande potenzialità, ma che ancora pesano su questo progetto molte ombre e molte incognite. Può essere il modo di uscire dalla crisi, e può essere anche l’opposto, il tramonto della politica e il definitivo passaggio a una società che è guidata solo dal movimento e dalla combinazione degli interessi individuali e di gruppo, senza che sia più possibile indirizzarli verso un progetto.

Devo aggiungere, con molto rammarico, che a questo appuntamento così impegnativo la sinistra di matrice socialista arriva come esausta e svuotata, ansiosa solo di archiviare il suo passato. Nei dilemmi che prima ho ricordato, nelle alternative che ci stanno di fronte, la dialettica interna al nuovo partito non sarà quindi in nessun modo riconducibile alle vecchie appartenenze, che a questo punto sono del tutto irrilevanti. Quello che ci può essere di vitale nella nuova formazione politica non è il retaggio dei partiti storici, ma è quell’insieme di nuove energie che può essere attivato, è l’incontro di persone che vengono da storie diverse e sono decise a camminare insieme, avendo in comune un’idea forte della politica e della sua vocazione sociale. Questo processo non è nelle mani di un demiurgo, di un capo carismatico, ma è affidato al nostro lavoro collettivo, alla capacità di produrre idee e passione. Ma ci sarà bisogno, dobbiamo saperlo fin d’ora, di una lotta tenace per far crescere davvero un partito di tipo nuovo, per liberarlo delle strozzature burocratiche, per costruire quello spazio democratico, aperto e plurale, nel quale ciascuno può essere un protagonista attivo, nel confronto con gli altri e nella tensione di una ricerca comune. Il Partito democratico è solo una opportunità, che può essere colta o può essere sprecata. È il luogo, lo strumento, per un possibile lavoro di ricostruzione della politica. Ma occorre organizzare le forze e le idee perché questo lavoro venga effettivamente compiuto.



Numero progressivo: H34
Busta: 8
Estremi cronologici: 2007, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, ottobre 2007, pp. 15-25