XVII CONGRESSO, 8-11 MARZO 1979
Relazione di Riccardo Terzi, segretario della Federazione, contenuta nel volume I congressi dei comunisti milanesi. 1921-1983.
Il significato ed il rilievo politico del XV Congresso del partito risaltano con grande evidenza se valutiamo tutto l’intreccio degli avvenimenti che, su scala nazionale e internazionale, si sono svolti negli ultimi quattro anni, determinando una situazione profondamente nuova, complessa, aperta a diverse possibilità di sviluppo. Quando tenemmo il nostro precedente congresso nazionale eravamo alla vigilia di quel 15 giugno, che ha rappresentato un momento decisivo di svolta, a cui ancora oggi è necessario richiamarci per intendere appieno il significato di questa fase politica.
Abbiamo dunque la necessità di un bilancio politico complessivo, che sia condotto con rigore critico e con la capacità di guardare ai fenomeni nuovi che vanno maturando. Il dibattito congressuale ha avuto questa ampiezza di orizzonte, ha realizzato una riflessione non contingente, ha fatto emergere questioni di valutazione storica complessiva e di prospettiva strategica. Chi ha ritenuto di scorgere nelle recenti posizioni assunte dalla Direzione del partito il riflesso di una pressione emotiva e disordinata della nostra organizzazione di base, il segno quindi di una prevalente preoccupazione interna, dimostra di non conoscere affatto la realtà del nostro partito.
Si sono dette e scritte molte sciocchezze a questo proposito, cercando in ogni modo di presentare e di accreditare l’immagine di un partito alla deriva, dominato da un senso profondo di frustrazione, ansioso e nevrotico nei suoi comportamenti. In realtà il dibattito congressuale ha dimostrato un grado assai elevato di maturità politica e di capacità razionale. Certo, siamo consapevoli di avere davanti a noi problemi di grande difficoltà, di essere in una fase assai delicata e complessa, e perciò appunto vogliamo ragionare seriamente e non limitarci alla frase propagandistica, alla retorica o alla ripetizione rituale di formule. Non c’è in noi né faciloneria né disfattismo ma una discussione aperta e una volontà di ricerca. Ciò avviene nelle forme che caratterizzano il nostro regime interno senza contrapposizioni preconcette e senza spirito di fazione.
Ogni volta che si cerca di interpretare il nostro dibattito interno secondo lo schema delle correnti, si prendono inevitabilmente degli abbagli, o si inventano classificazioni ridicole. Dobbiamo ribadire con grande fermezza e con profonda convinzione il valore di questo nostro metodo, di questo costume politico, che consente a ciascuno di noi di ragionare con il proprio cervello, senza padrini e senza protettori, e che ci costringe ad assumerci interamente le nostre responsabilità al di fuori di ogni logica distorta di gruppo o di clientela. Su questi principi c’è davvero la più ampia e convinta unità di tutto il partito.
Il problema che noi dobbiamo affrontare non è quello della revisione dei principi organizzativi del centralismo democratico, che fanno parte integrante del nostro patrimonio politico e il cui abbandono aprirebbe il varco a pericolose spinte opportunistiche e disgreganti. Si tratta invece di realizzare le condizioni per una circolazione di idee sempre più ampia, per un dibattito più trasparente, non cifrato e non diplomatizzato, così da giungere in tutti i campi del lavoro del partito a scelte precise, a decisioni non equivoche, non rinunciando mai alla tenace ricerca dell’unità ma evitando di esserne paralizzati e di sacrificare ad essa la chiarezza delle direttive politiche. Ma soprattutto dobbiamo ricordare che per un grande partito operaio e di massa la sostanza della democrazia non sta nel formalismo giuridico, nell’affermazione astratta di diritti e di procedure, ma nel legame organico con l’esperienza delle grandi masse popolari, nella partecipazione attiva, nel processo che porta le classi subalterne all’altezza dei compiti di governo e di direzione. E allora, la crescita della democrazia nel partito fa tutt’uno con l’affermazione rigorosa del suo carattere di classe e con lo sforzo che deve essere esercitato in modo permanente perché ad ogni livello si esprima questo carattere nello stile di lavoro e nella composizione degli organismi dirigenti, negli obiettivi politici.
Dal complesso dei congressi di cellula e di sezione, a cui hanno partecipato oltre 20.000 compagni, escono confermati i caratteri di fondo del partito, il suo legame con i lavoratori e con le masse, ed emerge anche un’ampia e sostanziale unità attorno alla impostazione generale del progetto di Tesi. Numerose sezioni hanno presentato emendamenti alle Tesi, o hanno posto nelle mozioni politiche l’esigenza di approfondire determinate questioni. Tutto questo materiale dovrà essere esaminato con grande attenzione, ed è in ogni caso la testimonianza di un impegno politico serio e costruttivo. Con il dibattito congressuale non ci limitiamo, quindi, ad una approvazione formale delle Tesi, ma intendiamo fare emergere con chiarezza tutte le implicazioni delle nostre scelte politiche. In modo particolare l’attenzione e l’impegno si sono indirizzati verso la parte introduttiva delle Tesi, che definisce i grandi principi ispiratori della politica del partito. Si tratta di questioni vitali e decisive, che dobbiamo affrontare con grande lucidità e chiarezza teorica, non certo per fare qualche concessione ideologica a chi con inutile monotonia continua a richiederci revisioni e sconfessioni, ma per un’esigenza nostra non eludibile, per approfondire e sviluppare le fondamentali questioni di strategia che debbono guidare la nostra azione politica. Dobbiamo evitare che la discussione su questi problemi acquisti un carattere dottrinario, come se si trattasse di compilare una nuova summa ideologica, un complesso di principi assoluti e di verità definitive. Ciò sarebbe in aperta e stridente contraddizione con lo spirito e con il metodo del marxismo: «Tutta la vita sociale – scrive Marx – è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi».
In coerenza con questa impostazione così nettamente antidogmatica, noi dobbiamo impostare una ricerca che parta dalla comprensione dei fenomeni reali, dalla ricognizione concreta delle condizioni storiche determinate entro le quali ci troviamo ad operare. Solo in questa prospettiva si può intendere correttamente la ricerca di una nuova via di avanzata al socialismo: quando parliamo di una “terza via” intendiamo spingere il movimento operaio e noi stessi ad uscir fuori da ogni pigrizia dogmatica e a ricercare, con intelligenza critica, le condizioni che possono rendere possibile una trasformazione socialista nella realtà italiana ed europea. Non abbiamo un modello universale da proporre, né pensiamo cha altri lo possano fare, che la storia del socialismo sia già compiuta, che tutte le potenzialità del processo rivoluzionario si possano ormai classificare e ordinare secondo regole già conosciute. Questo atteggiamento non è nuovo per il nostro partito, ma ha le sue radici in tutta la nostra storia, nell’elaborazione della via italiana al socialismo, nella condotta pratica del partito, nell’originalità dell’esperienza che abbiamo fin qui compiuto.
Occorre ora andare ancora più avanti nell’elaborazione e sviluppare un confronto, una ricerca comune, tra tutte le forze del movimento operaio europeo, così da costruire un’idea e una prospettiva del socialismo, che qui, in Europa, abbia la forza di crescere e di svilupparsi, di suscitare un movimento reale aderendo intimamente alla cultura e alla storia in cui siamo cresciuti, ai valori di democrazia che di questa cultura sono parte essenziale e che il movimento operaio ha contribuito potentemente ad affermare e a sviluppare facendo di essi un patrimonio non rinunciabile per le grandi masse lavoratrici. Questa posizione non significa equidistanza tra le socialdemocrazie europee e la realtà storica dei paesi socialisti. Da un lato, infatti, c’è un’esperienza rivoluzionaria vittoriosa, e dall’altro c’è l’adattamento entro i confini del capitalismo. Ma, appunto, è necessario superare questa situazione storica e riportare il movimento operaio dell’Europa occidentale sul terreno della battaglia per il socialismo. Questo orizzonte europeo è uno dei tratti nuovi ed originali del progetto di Tesi. Non si tratta, per noi, di accedere alla vacua retorica europeista o all’idea del primato spirituale dell’Europa. Ma, d’altra parte, sappiamo che qui, nei paesi sviluppati del capitalismo, si svolge una partita decisiva, che noi ci troviamo a combattere nella trincea più avanzata, che pertanto tutta la prospettiva storica del socialismo può avanzare solo se è in grado di misurarsi con i problemi dell’Europa.
Da varie parti si cerca di sostenere che il movimento comunista può crescere solo sul terreno dei paesi arretrati, che l’idea stessa del socialismo può avere valore solo nelle condizioni del sottosviluppo. Ebbene, l’eurocomunismo è una sfida a tali concezioni, è la riproposizione dell’idea originaria del marxismo secondo cui il massimo sviluppo del capitalismo, il pieno dispiegamento delle sue potenzialità produttive, fa maturare la necessità storica di un nuovo e più avanzato ordinamento sociale. O forse vogliamo ridurci al ruolo subalterno di chi si limita alla solidarietà morale con le esperienze rivoluzionarie che vengono compiute altrove, al radicalismo apparente e all’opportunismo reale di chi esalta la causa dei popoli oppressi solo per nascondere la propria impotenza e rassegnazione? Siamo convinti, pertanto, di essere nel solco più autentico della tradizione marxista. Il nostro patrimonio ideale e teorico non lo affidiamo alla ricerca improvvisata di genealogie stravaganti. È un patrimonio che è storicamente determinato, che ha il suo punto di riferimento nel marxismo e nell’opera di Lenin, nella teoria rivoluzionaria e nell’esperienza storica reale che ha avuto il suo inizio con l’ottobre sovietico. Sono provocazioni ridicole quelle che vogliono ridurre il contributo di Lenin ad una sorta di variante asiatica e dispotica del marxismo e che in tutto il movimento storico rivoluzionario dell’Unione Sovietica vedono soltanto l’ombra dei“Gulag”. Non perdiamo tempo a rispondere al delirio anti-leninista che ha invaso alcuni “nuovissimi” filosofi.
E nel contempo vogliamo essere all’altezza dei tempi e non ripetitori pedanti di ciò che sta scritto nei classici, cioè mantenere quella freschezza e spregiudicatezza dell’analisi e della ricerca in cui sta la grandezza, dei fondatori del socialismo scientifico. A chi ci chiede conto della nostra identità, e anche a coloro che sembrano preoccuparsi della nostra fedeltà ad una ortodossia ideologica, possiamo rispondere con le parole del Manifesto del ‘48: «I comunisti non esigono principi particolari, sui quali vogliano modificare il movimento proletario. Essi si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; dall’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principi che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi».
Ebbene i nostri principi li traiamo appunto dall’esperienza storica reale che il movimento operaio italiano ha compiuto, e che ha dato vita a quella formazione originale che è il “partito nuovo”, nazionale e di massa, parte decisiva della vita democratica del paese. Nelle condizioni attuali, occorre esaminare concretamente come il “partito nuovo” possa svilupparsi ed estendere la propria influenza: si pone dunque una questione non astrattamente ideologica, ma politica, il partito deve cogliere i dati reali della situazione, i movimenti in atto, e deve adeguare le forme del suo collegamento con la società. Con il progetto di Tesi e con il congresso noi riaffermiamo questa continuità della nostra aspirazione ideale e questa originalità della nostra esperienza. È il congresso non di una setta religiosa, ma di un grande partito politico, che agisce nella realtà, che vuole influire praticamente sugli sviluppi della situazione. Con questa nostra presenza è necessario che ciascuno si misuri: a nulla possono valere gli esorcismi ideologici. E d’altra parte è chiaro – lo hanno riconosciuto anche i dirigenti democristiani – che la questione dei rapporti con il nostro partito si riferisce alla sfera della politica e non al regno platonico delle idee universali. Se la discussione viene portata su questo terreno politico, è già un passo in avanti, un elemento auspicabile di chiarezza. Come è detto nel progetto di Tesi, “il partito è parte della società e dello stato. Esso vuole essere, in primo luogo, espressione diretta e organizzata della classe operaia e di tutti gli strati popolari, un partito di massa e di lotta, una forza autonoma di trasformazione della società, capace di esprimere una consapevole funzione di governo. In una tale dimensione pluralista, il partito deve restare parte, non è destinato a dilatarsi a stato”. È questa un’affermazione importante, in quanto comporta la liquidazione di ogni forma di integralismo, e insieme la coscienza della nostra autonomia di partito, della nostra identità. Il superamento pieno dell’integralismo dell’idea del partito-stato è la condizione necessaria perché si sviluppino interamente nella loro autonomia, nella loro laicità e razionalità, l’azione e la lotta politica.
La nostra valutazione della situazione e delle possibili prospettive deve, in primo luogo, essere collocata nello scenario della politica internazionale e delle grandi correnti e tendenze che in essa si vanno manifestando. Il dato fondamentale che caratterizza la situazione attuale è la battuta d’arresto che ha subìto il processo di distensione e l’aggravamento di una serie di tensioni settoriali, dall’Africa al Medio oriente, al sud-est asiatico. L’equilibrio tra le due maggiori potenze mondiali appare oggi più instabile e incerto, e continua a ritmi allarmanti la corsa agli armamenti, della cui portata e dei cui pericoli l’opinione pubblica mondiale non pare essere ancora sufficientemente consapevole. Lo sviluppo della politica di distensione fra Stati Uniti e Unione Sovietica rimane una delle condizioni fondamentali per garantire un quadro internazionale di sicurezza e di pace; ciò non deve comportare una concezione bipolare, ma al contrario deve esserci da parte delle due maggiori potenze la capacità di guardare in modo aperto alle diverse forze esistenti nel mondo, alle loro esigenze autonome, e di sollecitare il loro contributo attivo per la costruzione di un più avanzato assetto internazionale, basato su relazioni pacifiche e sulla cooperazione economica tra i diversi paesi.
L’elemento di novità sta nel fatto che la dislocazione delle forze in campo internazionale appare oggi assai più complessa e contraddittoria, perché in ciascuno dei campi tradizionali (paesi capitalistici, paesi socialisti, terzo mondo) si vanno sviluppando tensioni e differenziazioni sempre più marcate. Lo sviluppo dinamico dei paesi del terzo mondo ha introdotto elementi assai positivi di riequilibrio nei confronti dei paesi imperialistici, modificando le regole di scambio che nel passato erano state come nel caso del petrolio, ma ha comportato un’accelerazione della concorrenza tra le grandi potenze e anche la formazione di potenze di media grandezza agiscono come intermediari dell’imperialismo internazionale, come è nel caso del Brasile, dello stato di Israele o dell’Iran, fino al momento della cacciata della monarchia. La vittoriosa lotta del popolo dell’Iran è un avvenimento di rilevante portata storica, e dimostra come il movimento di emancipazione dei popoli possa assumere forme e connotati diversi. Dall’abbattimento delle vecchie forme di dominazione colonialista vengono sprigionate le energie popolari che nel passato erano conculcate, e a ciò si accompagna il recupero delle tradizioni culturali e religiose di quel patrimonio nazionale che l’imperialismo ha cercato di disperdere o di commercializzare come folclore. Di fronte al rinascere della coscienza collettiva di un popolo, anche nella forma del nazionalismo o della fede religiosa, dobbiamo quindi cogliere ciò che è essenziale, il movimento di progresso che si realizza. Per questo appunto l’orizzonte dell’internazionalismo deve allargarsi. La realtà del terzo mondo e dei paesi non allineati è parte essenziale dell’equilibrio mondiale, e ad essa dobbiamo guardare con crescente attenzione. Il moto di emancipazione che complessivamente si realizza in questi paesi pur con notevoli contraddizioni, tende a spostare i rapporti di forza su scala internazionale, e costringe i paesi più sviluppati a modificare la propria collocazione e a rivedere profondamente il modello di sviluppo su cui hanno potuto fino ad ora basarsi. Anche nel campo socialista le tensioni si sono gravemente accentuate, e soprattutto è motivo di preoccupazione e di allarme il permanere di un generale conflitto politico tra l’Unione Sovietica e la Cina popolare. È evidente ormai quanto siano insufficienti le interpretazioni di carattere ideologico e quanto invece sia determinante la considerazione degli interessi nazionali e di potenza, perseguiti talora con grande spregiudicatezza. I mutamenti intervenuti nella situazione interna cinese non hanno modificato questo stato di cose, lo hanno anzi ulteriormente accentuato, pur essendo ancora difficile per noi valutare esattamente tutti gli aspetti della politica cinese. Noi abbiamo sempre mantenuto una valutazione equilibrata, e dobbiamo tuttora restare fedeli a questo atteggiamento: ma ciò non può significare una posizione di agnosticismo o una sottovalutazione irresponsabile dei pericoli che vengono dagli attuali sviluppi della politica estera cinese. È infatti evidente come i circoli più aggressivi dell’imperialismo cerchino di sfruttare il conflitto cino-sovietico per mettere in crisi la politica di coesistenza e per determinare turbamenti profondi nel campo delle forze progressiste. L’apertura dei rapporti con la Cina popolare è avvenuta nel quadro di una pericolosa ed irresponsabile manovra, con la quale si cerca di indebolire l’Unione Sovietica, di fomentare tutti gli elementi di tensione nel continente asiatico. Gli Stati Uniti d’America, usciti sconfitti dalla gloriosa guerra di liberazione del Vietnam, cercano ora una rivincita, con l’obiettivo di screditare l’immagine della rivoluzione vietnamita e di ostacolare con ogni mezzo la costruzione di una nuova società, il suo sviluppo economico dopo una lunga epoca di oppressione.
Nella vicenda della Cambogia, ad esempio, è apparsa chiara questa manovra, che ha alimentato cinicamente i contrasti nazionali esistenti e che si è avvalsa dalla copertura politica della Repubblica popolare cinese. La campagna di stampa che si è sviluppata è cosa indegna, e va denunciata. Non solo perché non possono essere giudici attendibili coloro che fino all’ultimo hanno cercato ogni giustificazione per legittimare l’intervento americano e le sue atrocità, non solo perché il regime di Pol Pot non era politicamente difendibile, ma perché in ogni caso, di fronte al travaglio di paesi che liberati dall’imperialismo e dal colonialismo si avviano oggi all’edificazione del proprio avvenire, occorre saper mantenere un grande equilibrio di giudizio, e occorre soprattutto riaffermare, quali che siano i giudizi e le critiche, il grande valore di liberazione e di progresso che ha avuto e che ha la loro lotta per l’indipendenza. Se ciò non viene detto chiaramente, se non c’è questa svolta di campo, allora lo sdegno per i travagli e per le violenze di oggi non è altro che il rimpianto del vecchio colonialismo.
Con l’aggressione cinese al Vietnam la situazione è ulteriormente precipitata, ed è motivo di profonda preoccupazione. L’iniziativa cinese è senza giustificazione alcuna, è una scelta grave, che fa sorgere interrogativi angosciosi sugli orientamenti attuali del gruppo dirigente cinese. Il fatto che il criterio fondamentale di tutte le scelte di politica internazionale sia la contrapposizione alla politica sovietica espone inevitabilmente la Repubblica popolare cinese al pericolo di una complicità oggettiva con le manovre dell’imperialismo. L’attuale conflitto nel Vietnam è il punto culminante e più grave di tale tendenza. La nostra posizione è di netta riprovazione: tutte le iniziative devono essere prese perché cessi questo conflitto che mette ancora una volta a dura prova la capacità di resistenza di un popolo glorioso. Non è accettabile una posizione di apparente equilibrio che colleghi la cessazione della guerra nel Vietnam alla risoluzione del problema cambogiano. Ciò significherebbe dare un avallo all’iniziativa cinese, alla teoria della ritorsione punitiva, e spingere tutta la situazione verso un allargamento del conflitto. Nel contempo, dovrà essere cercata la strada per uno sviluppo della situazione della Cambogia che eviti ogni ritorno ai metodi del passato regime e che assicuri la piena indipendenza nazionale di questo paese.
La causa dell’internazionalismo, nelle attuali condizioni, è certamente più difficile e impegnativa, ma proprio per ciò è quanto mai necessaria. Un offuscamento della tensione e dell’impegno internazionalista sarebbe un cedimento, una rinuncia, un abbandono di valori che sono per noi essenziali. Non si tratta di una fedeltà sentimentale alla tradizione, ma della consapevolezza razionale che il compito primario che oggi spetta alle forze rivoluzionarie è quello, principalmente, di ricostruire le condizioni minime per un’azione comune e per un avvicinamento dello schieramento imponente dei popoli e stati che si muovono nella prospettiva del socialismo. A ciò noi continuiamo a lavorare con tenacia con l’autonomia del nostro giudizio, con la duttilità necessaria, con la convinzione che le diversità hanno una base reale e vanno pertanto affrontate con realismo, senza intolleranze e senza sommarie condanne ideologiche. Siamo convinti che questo nostro comportamento non solo è l’unico coerente per un Partito comunista, ma che esso giova alla causa della pace e della distensione internazionale. Chi ci vorrebbe spingere ad atti di rottura, a gesti clamorosi, forse non ha valutato quanto sia essenziale per tutti, per l’intero equilibrio mondiale, lo sviluppo della comprensione e della cooperazione, e quali conseguenze verrebbero da un ritorno al clima della guerra fredda.
E, d’altra parte, quale credito possono avere le campagne propagandistiche sulla difesa dei diritti umani, quando l’unico obiettivo è l’agitazione contro i paesi socialisti e si ignora l’esistenza di regimi tirannici e fascisti e di forme inumane di oppressione che hanno l’avallo e l’appoggio dell’imperialismo americano? È legittimo e doveroso chiedere coerenza a quanti si vogliono schierare sul terreno della democrazia e della libertà; in assenza di tale coerenza c’è solo la faziosità inaccettabile di chi vuole comunque e con ogni mezzo screditare la causa del socialismo. La nostra posizione non è equivoca: noi consideriamo che il processo rivoluzionario che si è aperto con la rivoluzione d’ottobre sia un fatto storico di valore fondamentale, che ha segnato l’inizio di una nuova epoca, e nel contempo consideriamo che la costruzione di una nuova società socialista sia avvenuta con gravi e inaccettabili limitazioni, per cui alcuni fondamentali traguardi di libertà non sono stati raggiunti. Ma tuttavia solo nel quadro di una trasformazione socialista potrà essere stabilmente conquistata una condizione di libertà e di dignità per tutti gli uomini, e pertanto la nostra critica, la nostra disapprovazione, anche quando è necessariamente severa non può confondersi con le voci della destra reazionaria e non può mettere in ombra la grande fondamentale linea di demarcazione tra il campo del socialismo e quello dei paesi che si reggono sullo sfruttamento capitalistico. In questo senso noi apparteniamo, con le nostre posizioni autonome, allo schieramento mondiale delle forze del socialismo, e nessuno potrà farci recedere da questa collocazione, che ha per noi un valore di principio e che non può essere in nessun caso barattata.
L’obiettivo fondamentale a cui debbono tendere oggi le forze del movimento operaio e tutte le correnti democratiche è quello della difesa della pace e della distensione, che sono seriamente minacciate dagli ultimi sviluppi della situazione internazionale. A questo fine deve essere affermato con forza il principio dell’indipendenza nazionale, della non interferenza, come condizione indispensabile per un equilibrio internazionale in cui siano garantiti i diritti di autodeterminazione dei popoli. La lotta per questi obiettivi può allargarsi a forze diverse, e divenire l’occasione per una vasta ed unitaria mobilitazione. D’altra parte, le nostre posizioni di politica internazionale tengono conto della particolare collocazione dell’Italia e dei suoi interessi nazionali, e sotto questo profilo vi è la possibilità di un’ampia convergenza tra le forze politiche democratiche.
L’aspetto essenziale è l’impegno per una politica di distensione e di cooperazione internazionale, e ciò corrisponde agli interessi vitali dell’Europa, che solo nel quadro della distensione può sviluppare il proprio ruolo autonomo e può esercitare una funzione di primo piano nelle relazioni internazionali. Grande importanza può avere per l’Europa l’allargamento della cooperazione economica, sia con i paesi del campo socialista sia con i paesi in via di sviluppo, in una logica che non sia più quella della prevaricazione e della rapina delle risorse, ma del sostegno economico e tecnologico al loro sviluppo. La nuova realtà politica dell’Europa che uscirà dalle prossime elezioni del Parlamento europeo potrà rappresentare, sulla scena mondiale un momento decisivo dell’equilibrio internazionale se tra le forze democratiche si determinerà un indirizzo autonomo volto a favorire la causa della distensione, rifiutando l’idea di una collocazione subalterna, e sconfiggendo quindi quelle forze che continuano ad operare nell’ottica della guerra fredda e dell’oltranzismo atlantico. Ciò è nell’interesse oggettivo di tutti i paesi dell’Europa, e pertanto è necessario e possibile lavorare per un avvicinamento e per un’intesa tra le forze democratiche fondamentali dei paesi europei. Le prossime elezioni sono un impegno di lavoro per il nostro partito cui dobbiamo attribuire un grande rilievo, perché si apre la possibilità di un allargamento della nostra iniziativa e di un collegamento con la sinistra europea nelle sue diverse articolazioni.
Il processo di integrazione europea non è qualcosa che dobbiamo subire, ma è l’occasione per un rilancio dell’iniziativa del movimento operaio e della sinistra su scala più vasta. Vi sono certamente ritardi e difficoltà: si tratta di affrontarli con impegno, superando ogni tendenza ad una visione ristretta, chiusa nei confini nazionali, che appare ormai decisamente superata e non rispondente ai processi reali che si svolgono sul piano economico e politico. La formazione di un parlamento europeo eletto a suffragio universale è il primo passo in direzione di un nuovo potere democratico e pluriennale, che modifichi profondamente la natura che fino ad ora hanno avuto gli organi della Comunità, che hanno rappresentato soltanto gli interessi dei gruppi economici dominanti e degli stati più forti. La Democrazia cristiana e i suoi governi hanno accettato finora una posizione dell’Italia subalterna, senza nessuna difesa degli interessi nazionali. Ancora recentemente, con la frettolosa decisione di adesione allo Sme, si è confermato questo europeismo servile, a cui già sono stati pagati prezzi gravosi per l’economia del nostro paese.
La battaglia europeista non è per noi fine a se stessa, ma è il terreno per una lotta politica e di classe, per l’affermazione di nuovi indirizzi di politica economica, per un riequilibrio territoriale, per un’affermazione del ruolo delle classi lavoratrici e in questo quadro consideriamo un fatto positivo l’ampliamento della Comunità ad altri paesi mediterranei, come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, che hanno problemi affini a quelli del nostro paese, e per i quali si pone l’esigenza di consolidare definitivamente le conquiste democratiche dopo la liquidazione dei regimi fascisti. Le stesse possibilità di sviluppo della situazione politica in Italia dipendono, in larga misura, dal quadro internazionale, dal ruolo quindi che sapranno svolgere le forze di sinistra e democratiche nel continente europeo. La dimensione europea acquista pertanto un valore strategico essenziale, ed è in questa prospettiva nuova e più vasta che dobbiamo collocare tutta la nostra iniziativa politica. Il nostro partito si colloca nella realtà europea come una forza dinamica che punta ad un’aggregazione di forze per una prospettiva nuova, per un processo di democratizzazione degli organi di governo della Comunità, per una collocazione autonoma dell’Europa, per una politica di pace, di disarmo e di coesistenza, per il superamento della logica dei blocchi. Avviare questo processo è condizione essenziale e indispensabile per l’avvenire democratico del nostro paese, che può essere garantito solo nel quadro di un equilibrio internazionale in cui siano battute e liquidate le tendenze reazionarie. L’azione internazionale si lega quindi, direttamente, alla strategia di lotta del partito e del movimento operaio nel nostro paese, e nessuna separazione è possibile tra questi due aspetti.
I lineamenti fondamentali della nostra strategia sono definiti con chiarezza nel progetto di Tesi. In primo piano sta l’affermazione che il nostro partito si pone l’obiettivo della costruzione di una società socialista che sia fondata sulla democrazia politica. È una posizione netta e impegnativa, che liquida ogni possibile ambiguità. Naturalmente il discorso sulla democrazia deve essere storicizzato, per evitare di valutare tutta la complessità del processo storico secondo un metro di giudizio astratto e ideologico. Il modello di organizzazione dello stato che è risultato dalla storia dei paesi europei non può essere esportato in situazioni storico-sociali che sono affatto diverse; ma d’altra parte noi consideriamo il patrimonio politico dell’Europa, l’idea di democrazia che in questa parte del mondo è stata elaborata e sviluppata, come un punto fermo, come un’acquisizione positiva da cui non è possibile recedere, come una condizione, quindi, che è assolutamente necessario salvaguardare anche nella prospettiva del socialismo. Ciò comporta una concezione della transizione al socialismo nella quale gli obiettivi di carattere sociale e di trasformazione economica non siano isolati, ma siano visti nel quadro di una precisa e rigorosa valutazione delle questioni della organizzazione del potere e dell’articolazione democratica dello stato.
Il problema delle istituzioni politiche non è affatto secondario, e non può essere risolto con l’appello generico e talora demagogico alla partecipazione delle masse. Perciò appunto parliamo di democrazia politica, che significa libera competizione di forze politiche diverse in un quadro di certezze e di garanzie giuridiche. Insomma la parola democrazia non ha nel nostro linguaggio un significato diverso da quello di uso corrente. Non esiste un gergo comunista iniziatico che sia precluso alla comprensione comune. È questa, come già osservava Togliatti nell’intervista a “Nuovi argomenti”, una sciocchezza reazionaria. «Il linguaggio politico – scrive Togliatti – è, tra oriente e occidente, assolutamente comune. Tirannide vuol dire, qui e là, la stessa cosa. Nel regime instaurato da Stalin in determinati periodi vi erano elementi di tirannide, e furono commessi, dal potere, atti delittuosi e moralmente ripugnanti. Nessuno lo nega. Lo stesso significato ha, qui e là, la parola democrazia, cioè governo del popolo, eguaglianza dei cittadini ecc.» A oltre vent’anni dal XX Congresso possiamo considerare che sia ancora da risolvere nell’Unione Sovietica il problema della democrazia, che le speranze allora suscitate non abbiano avuto uno sviluppo conseguente.
Ma in ogni caso non pensiamo, non solo oggi ma da lungo tempo, che l’instaurazione del socialismo comporti per se stessa la risoluzione della questione della democrazia e la garanzia di un livello più alto di libertà. Come è detto nel progetto di Tesi, “la trasformazione delle strutture è condizione basilare, ma da sola non assicura i complessivi valori del socialismo e della libertà, né risolve tutti i problemi dell’uomo, né esaurisce le molteplici dimensioni dell’impegno umano”. È questa un’affermazione ricca di implicazioni, in quanto viene indicata la via di una concezione non integralistica, che rifiuta la politicizzazione assoluta e che assegna alle molteplici dimensioni dell’esperienza umana il loro valore autonomo e specifico. In questo quadro tutta la tematica del “privato” può essere impostata in modo nuovo, vedendo nella dimensione della vita soggettiva e individuale non una deviazione, non un segno di decadenza, ma un valore insopprimibile, che il socialismo è chiamato a garantire e a sviluppare. Il chiarimento interno a questi temi generali è oggi particolarmente rilevante e necessario, perché vi è in numerosi ed estesi strati sociali, che non sono mossi da impellenti necessità di carattere economico, l’esigenza di un’affermazione profonda di libertà, e vi sono talora nei nostri confronti un sospetto e una diffidenza radicati, che dobbiamo rimuovere e di cui dobbiamo dimostrare, alla luce dei fatti, l’assoluta inconsistenza. La politica di alleanze ha anche – non dobbiamo dimenticarlo – un aspetto ideale, culturale. E, sotto questo profilo, il tema del libero sviluppo dell’individualità è oggi essenziale. Questa problematica non può essere lasciata nelle mani dell’irrazionalismo reazionario o del misticismo religioso che conducono al rifiuto della dimensione politica, ma è invece per noi il terreno di un’offensiva politica, di un possibile rilancio degli ideali del socialismo.
Il secondo aspetto essenziale della nostra linea strategica è la necessità di costruire, intorno alla classe operaia, un sistema vasto di alleanze sociali, un blocco di forze che sia rappresentativo degli interessi fondamentali della società e per ciò appunto sia legittimato come fondamento di un nuovo potere democratico. Questa questione si lega organicamente a quella della democrazia politica, non solo perché l’estensione delle alleanze è necessaria per esprimere una vasta maggioranza parlamentare, ma perché le forze a cui noi ci rivolgiamo possono collegarsi positivamente al movimento operaio solo nella garanzia di un equilibrio democratico certo, che non esponga il loro ruolo sociale e la loro condizione al pericolo di una polarizzazione di classe che vanifichi e renda precarie tutte le posizioni intermedie. È quindi essenziale indicare e perseguire con coerenza una prospettiva socialista che, nel quadro di una programmazione democratica dell’economia, assicuri il permanere e la valorizzazione di settori di iniziativa privata. Il socialismo è anzitutto lo sviluppo più ampio delle forze produttive e l’abbattimento di tutto ciò che fa ostacolo a tale sviluppo. Ora, è evidente che nella situazione attuale e in una prospettiva storica di non breve periodo, l’obiettivo dello sviluppo richiede da un lato una capacità di direzione politica che colpisca gli interessi parassitari e il predominio di privilegi sociali non più tollerabili, e richiede inoltre il contributo e la collaborazione attiva di forze economiche ed imprenditoriali che hanno tuttora una funzione vitale e che sono interessate allo sviluppo complessivo delle capacità economiche e produttive del paese. In questo quadro, un grande rilievo deve assumere la ricerca scientifica, che è una delle condizioni primarie dello sviluppo, e di conseguenza la questione degli intellettuali e del loro ruolo è un aspetto essenziale della costruzione del nuovo blocco sociale. Occorre che la politica delle alleanze non sia solo dichiarata in linea di principio, ma dia luogo ad un esame approfondito e circostanziato delle proposte concrete e degli indirizzi di politica economica che possono assicurare nei fatti un’azione comune tra la classe operaia e le classi intermedie. Questo processo di costruzione di un nuovo blocco sociale implica, come è evidente, un accordo e un’intesa sul terreno politico tra forze politiche diverse.
La linea del compromesso storico è l’enunciazione di questa necessità: essa significa che la classe operaia può assumere una funzione dirigente e di governo solo nel quadro di una visione degli interessi nazionali e se è in grado di stabilire un punto di equilibrio con strati sociali che sono essenziali, che hanno un grande peso nella realtà del paese, e che costituiscono la base sociale di forze politiche moderate, tra cui in primo luogo la Democrazia cristiana. Le discussioni e le polemiche sul compromesso storico hanno determinato numerosi travisamenti ed equivoci. Da varie parti si è deformata ed immiserita la nostra proposta strategica riducendola ad un semplice patto di potere con il partito democristiano. Questo equivoco deve essere risolutamente combattuto: esso non ha nulla a che vedere con la politica del nostro partito.
In primo luogo, si tratta di non perdere di vista gli elementi di conflittualità che sono comunque destinati a permanere tra le forze politiche diverse, anche nel quadro di una solidarietà democratica e di un’intesa su alcuni obiettivi fondamentali. Tutta la campagna di stampa sul “regime” del compromesso storico, sul conformismo dominante, sull’unanimismo, è destituita di ogni fondamento, e rappresenta un rovesciamento delle nostre posizioni. Se qualche errore possiamo aver commesso che abbia in qualche misura avallato questa interpretazione, esso deve essere con decisione e con prontezza corretto. La Democrazia cristiana rappresenta un complesso di forze assai vasto e strutturato, con cui è comunque necessario misurarsi e che sarebbe un errore gravissimo respingere su una linea di contrapposizione al movimento operaio, facilitando così l’egemonia dei gruppi più apertamente conservatori e reazionari. Ma chi di noi può essere tanto illuso e superficiale da ritenere che un patto di unità nazionale faccia miracolosamente scomparire le ragioni di differenziazione e di competizione tra le due maggiori forze del nostro paese? Noi lavoriamo per un’intesa, e riteniamo sinceramente che essa sia possibile e necessaria, corrispondente agli interessi generali del paese in un momento di emergenza. La Dc sa pertanto di poter praticare questa via, di poter trovare nel nostro partito un interlocutore responsabile, anche se certamente non rassegnato e non subalterno.
Ma deve essere anche chiaro che noi non riduciamo la nostra politica all’attesa che nella Dc maturi questa consapevolezza, che non sottostiamo a ricatti e non ci lasciamo imbrigliare in una situazione di immobilismo e di stagnazione. La rottura del monopolio politico democristiano e della sua centralità è un’esigenza ormai matura e presente in un arco di forze politiche assai ampio. Se la Dc si ostina in una posizione di chiusura e di integralismo, è possibile far maturare altre soluzioni. Il compromesso storico non è una proposta di formula politica, ma anzi può comportare la possibilità di diverse soluzioni e di una loro alternanza. In ogni caso la politica di solidarietà democratica richiede che tra i partiti della sinistra e tra le forze laiche e democratiche si stabilisca una intesa più ravvicinata e più stretta, essendo questa la condizione per un’azione politica incisiva che costringa la Democrazia cristiana a sciogliere le proprie interne contraddizioni e a chiarire la propria collocazione nello schieramento politico e la prospettiva per cui lavora. La strategia del compromesso storico non deve, quindi, far perdere al partito la sua capacità di movimento, di iniziativa autonoma e manovrata.
Il dibattito all’interno della sinistra può, su queste basi, riprendere slancio, superando la contrapposizione paralizzante e schematica tra la politica del compromesso storico e quella dell’alternativa o dell’alternanza. Non c’è infatti nessuna strategia che sia giusta in assoluto e che non debba essere verificata e rettificata nella concretezza delle situazioni politiche e delle articolazioni tattiche che di volta in volta si rendono necessarie. Nelle posizioni del movimento operaio italiano vi sono alcune fondamentali acquisizioni comuni, ed è possibile sviluppare in modo più ravvicinato il confronto sui contenuti di un progetto di transizione che possa raccogliere le aspirazioni dei lavoratori e di vasti strati sociali. Al di là delle formule di governo, che possono variare, e ferma restando l’ispirazione unitaria e la difesa della solidarietà democratica, è questo il cammino che la sinistra deve compiere, nell’elaborazione e nell’azione politica, per affermarsi come nuova forza dirigente del paese.
La crisi della società italiana è giunta a un punto tale da rendere urgente e indispensabile un rinnovamento politico profondo, un’opera vasta di risanamento che deve investire tutti gli aspetti della realtà. Il tipo di sviluppo che si è avuto nel passato non è più in grado di riprodursi, essendo venute meno le condizioni che l’avevano determinato, tra le quali in primo luogo il basso costo della forza ed essendosi accumulati squilibri e distorsioni non Sopportabili. La crisi mondiale del capitalismo si ripercuote sull’economia italiana che ha avuto tradizionalmente una posizione di dipendenza dai paesi più sviluppati. Le conseguenze che vengono dalle contraddizioni interne del capitalismo e dal risveglio dei paesi sottosviluppati sono tali da comportare un mutamento profondo degli indirizzi che fin qui sono stati seguiti.
Per evitare una lunga fase di stagnazione e un deterioramento complessivo delle capacità produttive del paese, è necessario compiere, con coerenza, scelte coraggiose che consentano un’utilizzazione piena delle risorse, un’eliminazione degli sprechi, un allargamento della base produttiva. Il movimento operaio si è mosso in questa direzione, indicando come obiettivi prioritari lo sviluppo del mezzogiorno e l’occupazione, e dichiarandosi disponibile ad una politica di austerità che sia chiaramente finalizzata al raggiungimento di questi obiettivi. Perché si proceda davvero su questa linea sono necessari uno sforzo solidale delle forze politiche e un comportamento coerente del governo e di tutti gli apparati dello stato, e ciò comporta una trasformazione profonda del sistema di potere e dei metodi di governo fin qui seguiti dalle forze dominanti. Questo non è ancora avvenuto, ed è qui uno dei nodi della crisi politica attuale.
Intanto la situazione di alcune regioni meridionali è divenuta esplosiva, drammatica, e vi è il pericolo serio che sul terreno della disgregazione sociale possano operare forze che puntano a mettere in crisi l’equilibrio democratico del paese, come già si è verificato alcuni anni fa.· Va denunciata con grande energia la responsabilità grave di quelle forze che alimentano nelle regioni meridionali uno spirito antioperaio e antisindacale, e che, nello stesso tempo ; con un calcolo cinico e spregiudicato, incoraggiano tutte le spinte corporative e le rivendicazioni sindacali più anguste tra i lavoratori occupati, anche nelle categorie che già hanno raggiunto un soddisfacente livello di vita.
Mentre i comunisti hanno compiuto uno sforzo straordinario per elevare la coscienza dei lavoratori e per orientare tutto lo sforzo del movimento nella direzione delle grandi questioni nazionali, da molte parti si è cercato di ostacolare con ogni mezzo questo sforzo e di logorare il nostro rapporto con i lavoratori e con le masse. È un calcolo miope e irresponsabile, da cui possono trarre vantaggio solo le forze eversive e reazionarie. È necessario pertanto un clima politico nuovo, un rapporto di fiducia e di solidarietà effettiva tra le forze democratiche, se vogliamo evitare che le tensioni del paese divengano irrimediabili e ingovernabili. L’area dell’emarginazione si è pericolosamente allargata, investendo grandi masse di giovani, per i quali la qualificazione professionale acquisita nella scuola è del tutto inservibile e l’inserimento nel lavoro può avvenire solo in forme precarie, senza nessuna garanzia per l’avvenire. I guasti che derivano da questa situazione sono incalcolabili: non solo rimangono inutilizzate risorse umane preziose, ma si determina una situazione di malessere e di frustrazione che favorisce fenomeni di disimpegno democratico, di ribellismo, ed anche di grave corruzione morale.
La dimensione della crisi non può essere racchiusa quindi nei soli dati economici e non può valere pertanto come ragione sufficiente di ottimismo l’esistenza di qualche sintomo di ripresa produttiva. Il meccanismo economico, certamente, non è a pezzi, non si trova in una crisi catastrofica, può anche avere in alcuni settori una ripresa di dinamicità. Ma le condizioni generali della società sono prostrate, e non può essere in nessun modo accettabile l’idea di uno sviluppo economico che lasci inalterate le condizioni di emarginazione per grandi masse e che sia pagato al prezzo di un imbarbarimento della vita civile. Per questo i n primo piano stanno le questioni di ordine politico, sta il problema degli indirizzi di governo e del modo di essere dello stato democratico. La questione essenziale è quella della programmazione dello sviluppo economico, degli strumenti di cui lo stato deve disporre per assolvere a questo ruolo, della riorganizzazione di tutto il nostro ordinamento democratico e della pubblica amministrazione in funzione di questo obiettivo.
In questi anni si è avuto un grande sviluppo della vita democratica, con la formazione di nuovi organismi di partecipazione, ma tutto ciò è insufficiente e può anche dar luogo a fenomeni negativi se gli strumenti della democrazia non r i escono ad agire come organi della programmazione, dotati di poteri effettivi e di un chiaro e definito ambito di responsabilità. La moltiplicazione all’infinito degli organismi democratici non cambia minimamente la natura dello stato se tutte le decisioni fondamentali che determinano lo sviluppo del paese vengono sottratte a tali organismi, e se la macchina burocratico-amministrativa continua a funzionare nei modi del passato. La crisi della società italiana, nei vari campi, si approfondisce per l’arretratezza del sistema politico, per le gravi distorsioni provocate dalla prassi generalizzata del clientelismo, dal groviglio malsano di interessi privati e azione dei pubblici poteri. Tale crisi non può essere superata per mezzo di una rivitalizzazione illusoria di un’economia di libera concorrenza, che in realtà viene evocata solo per fini propagandistici, ma richiede che venga imboccata con decisione la via della programmazione democratica e di una riforma dello stato che sia funzionale a questo obiettivo. Ciò non riguarda solo il campo dell’economia, ma anche il funzionamento di alcuni servizi pubblici di primaria importanza, come quello della scuola, dove appunto l’assenza di qualsiasi tentativo di programmazione che colleghi la scuola alle necessità e alle potenzialità dello sviluppo economico ha dato luogo ad una crescita tumultuosa ed anarchica, che ha determinato tensioni allarmanti in tutto il corpo sociale. Il caso della scuola è assai significativo, e dimostra con chiarezza che le conquiste democratiche sono vane se non avvengono nel quadro di uno sviluppo economico ordinato e programmato : dimostra anche la necessità di una riflessione critica per la sinistra e per il movimento operaio, che non hanno visto a tempo questo problema e che non hanno contrastato nella misura necessaria le spinte demagogiche che hanno condotto l’ordinamento scolastico, soprattutto nell’università, al di là del livello di guardia. Il fatto che non sia stato valorizzato il lavoro produttivo, che al contrario sia stata assecondata la spinta verso le occupazioni impiegatizie, ha provocato una grave distorsione nell’equilibrio economico, determinando una dilatazione eccessiva in alcuni settori e una proliferazione di lavoro improduttivo, mentre restano anguste le basi dello sviluppo del paese, nell’industria e nell’agricoltura. La scolarizzazione di massa aumenta questo fenomeno se non viene reimpostato in modo diverso il rapporto tra scuola e lavoro. Il quadro non è molto diverso se guardiamo agli altri settori della società: ovunque appare una situazione di grave precarietà ed una disfunzione degli apparati pubblici, e quindi l’emergere di tensioni, di spinte corporative, ed un generale decadimento dello spirito pubblico e del livello della società civile. L’ aspetto più grave e allarmante è la diffusione della criminalità, che ha inquinato in misura gravissima alcune zone del paese, l’impunità quasi assoluta che essa riesce ad ottenere, il cambiamento qualitativo che in questo campo sta avvenendo con la formazione di un’industria organizzata che agisce su vasta scala e che ricorre ad ogni mezzo, anche a quelli più violenti ed atroci. La dimensione che ha assunto questo problema è tale da farne una questione politica di primo piano. Il clima di violenza condiziona pesantemente la vita delle città, modifica le abitudini e il modo di pensare, colpisce a fondo il tessuto civile e democratico. Se questa spirale non viene arrestata, si tratterà di una sconfitta grave per la democrazia.
D’altra parte sempre più evidente appare il collegamento tra la criminalità comune e i gruppi terroristi. Il terrorismo politico è la manifestazione culminante di una crisi sociale che ha vaste dimensioni, e la lotta contro di esso non potrà quindi avere successi effettivi e duraturi se non si lega ad una azione generale di risanamento, e ad una ripresa di prestigio, di autorità e di efficacia dello stato democratico. Nelle grandi aree metropolitane, dove si concentrano anche i fenomeni della criminalità e del terrorismo, vi è una scarsità di mezzi preoccupante da parte degli organi della pubblica sicurezza. Se da un lato è certamente migliorato il clima di collaborazione tra apparati dello stato, forze politiche, istituzioni democratiche, dall’altro però diviene necessario un piano straordinario di potenziamento e di qualificazione della polizia e delle strutture giudiziarie, per essere in grado di fronteggiare una situazione di grave emergenza.
L’atteggiamento del governo, invece, ha dimostrato insensibilità per questi problemi, e nel contempo ha ritardato l’attuazione delle leggi di riforma concordate e la revisione della legge Reale, determinando così uno stato di incertezza proprio nel momento in cui si richiede, da parte dello stato, una linea di estrema chiarezza politica. Noi confermiamo la nostra piena solidarietà alle forze dell’ordine e alla magistratura, impegnate in una prova difficilissima, che debbono poter contare sull’appoggio di tutte le forze democratiche e veder risolti in modo adeguato i problemi che riguardano la loro sicurezza e le loro condizioni di lavoro. Dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, che hanno provocato in tutto il paese un’ondata di emozione e di sdegno profondo ed unanime, le gesta criminali dei vari gruppi terroristi sono continuate, rivelando sempre più chiaramente la loro natura. L’uccisione del compagno Guido Rossa e quella del magistrato Emilio Alessandrini hanno messo in evidenza uno spostamento nell’azione e negli obiettivi delle Brigate rosse. Ormai non v’è più neppure il tentativo di creare una certa area di comprensione nell’ambito della sinistra, ma c’è l’attacco aperto a tutte le forze democratiche e al movimento operaio.
C’è quindi un mutamento nella situazione, un isolamento politico dei terroristi assai più accentuato, una volontà unitaria di risposta e di mobilitazione democratica che con straordinaria forza si è manifestata ai funerali di Genova e di Milano: è il momento in cui ogni sforzo deve essere fatto, da parte degli organi dello stato e da parte di ogni forza democratica, per colpire la rete del terrorismo, per far valere con grande fermezza l’autorità dello stato democratico. A Milano il Comitato unitario antifascista ha opportunamente modificato la propria qualificazione, indicando nella lotta contro il terrorismo uno dei suoi compiti fondamentali. L’autorità ed il prestigio che questo organismo ha conquistato nella battaglia decennale contro le trame eversive e contro le provocazioni fasciste, che ha ottenuto un importante risultato con la sentenza di Catanzaro per la strage di piazza Fontana, lo mette in grado oggi di essere il punto di riferimento unitario nell’azione di difesa della democrazia.
Non dobbiamo smarrire, per lottare nel modo più efficace contro i gruppi terroristi e per estirparne le radici, la comprensione del particolare retroterra, sociale e culturale, di cui si alimentano, che è notevolmente diverso da quello degli ambienti della destra fascista, anche se vi è una convergenza obiettiva sempre più evidente. Può ancora valere, per molti aspetti, il giudizio dato da Marx ed Engels nel 1873 sul programma della setta anarchica: «Spogliato dei suoi aspetti melodrammatici, questo programma si può così riassumere: tutte le turpitudini in cui fatalmente si agita la vita dei declassati usciti dai ceti sociali più elevati sono proclamate come modello di virtù ultra-rivoluzionarie; si pone come principio la necessità di corrompere un piccolo numero di operai, adulandoli e separandoli dalle masse con l’iniziazione misteriosa e facendoli partecipare al giuoco d’intrighi e d’imposture del governo segreto e predicando loro che nel dar libero sfogo alle loro malvagie passioni consiste il rovesciamento della vecchia società; i principali mezzi di propaganda consistono nell’attirar e la gioventù con delle falsità – menzogne sull’ampiezza e la potenza della società segreta, profezie sull’ imminenza della rivoluzione da lei preparata ecc. – e nel compromettere di fronte ai governi gli uomini più evoluti delle classi medie per sfruttarli pecuniariamente; la lotta economica e politica degli operai per la loro emancipazione è sostituita dagli atti pan-distruttivi degli avanzi di galera, incarnazione suprema della rivoluzione. In una parola, bisogna mandare avanti i mascalzoni eliminati dai lavoratori stessi nelle ‘rivoluzioni secondo il classico modello occidentale’ e mettere così a disposizione dei reazionari una banda ben organizzata di agenti provocatori».
Come si vede da questa citazione di oltre un secolo fa, il movimento operaio ha saputo assai per tempo individuare e condannare la natura del terrorismo e non ha certo bisogno di farsi aprire gli occhi da coloro che hanno oggi la sfrontatezza di farci la lezione e di attribuirci una qualche responsabilità morale. Di fronte ai pericoli che minacciano la Repubblica non sono ammissibili calcoli di parte, ma si richiedono un clima di solidarietà e un impegno concorde delle forze politiche. Molto dipende, infatti, oltre che dall’azione specifica degli organi di governo, dal clima morale del paese, dallo spirito pubblico, dalla coscienza civile che è il fondamento primo di uno stato democratico. Non credo che siano accettabili certe generalizzazioni sul riflusso che sarebbe in atto, sul ripiegamento nell’ambito della sfera privata, sulla tendenza prevalente a considerare solo il proprio “particulare”.
Ciò è vero solo parzialmente, e in molti casi si tratta di una consapevolezza più matura del rapporto, di autonomia e di distinzione, che intercorre tra il privato e il politico. Ma certamente un pericolo esiste, ed esso può divenire più acuto se non si compie per tempo quel rinnovamento politico che è necessario, se non viene indicata con chiarezza una via per uscire dalla crisi. In assenza di un cambiamento, di un segno visibile di svolta, di un impegno nuovo e unitario delle forze politiche per il rinnovamento della società e per lo sviluppo della democrazia, la crisi non può che aggravarsi e le conseguenze di ciò sarebbero gravissime in ogni campo della vita civile ed anche nella coscienza morale del paese.
L’esigenza di un rinnovamento profondo si è espressa in modo non equivoco nelle consultazioni elettorali del 1975 e del 1976. Si determinò allora un vasto movimento, una corrente d’opinione che coinvolse forze diverse della società, soprattutto nei grandi centri urbani, aprendo una breccia nel vecchio sistema di potere e costringendo tutte le forze politiche, ed in modo particolare la Democrazia cristiana, ad una riconsiderazione nel proprio rapporto con la società. Occorre tenere presente il carattere vario e composito di questo movimento, la diversità e talora anche la contraddittorietà delle motivazioni da cui scaturiva: l’elemento essenziale e duraturo è la maturazione di una coscienza civile più attenta e sensibile, non più disposta ad accettare i luoghi comuni della propaganda.
Ciò vale anche per il nostro partito: l’elettorato del 15 giugno non è stabilmente conquistato, ma pone a noi interrogativi ed esigenze nuove, e pertanto il metro di misura con cui giudicare il vostro lavoro è oggi più severo, più impegnativo; in sostanza, si tratta di verificare in quale misura siamo in grado di esercitare una funzione di direzione e di governo, di corrispondere nei fatti alle domande di rinnovamento. Su tutto ciò dobbiamo riflettere senza mitologia, senza mitizzare il 15 giugno, e senza accettare d’altro lato l’idea di un riflusso generalizzato e inarrestabile. La realtà è più complessa e non si lascia piegare entro questi schemi superficiali. Alla base della nostra avanzata elettorale, che ha avviato la nuova fase politica, stava la proposta di unità e di collaborazione democratica che noi abbiamo sostenuto come unica valida risposta alla situazione di emergenza che il paese sta attraversando. Ed è in questa prospettiva che il partito coerentemente si è mosso, facendo ogni sforzo per avviare le condizioni di un’intesa politica tra le forze democratiche.
Una strada diversa da quella che abbiamo seguìto ci avrebbe posto in un vicolo cieco, e avrebbe provocato un rapido logoramento della nostra influenza. L’errore maggiore che si possa compiere è quello di lasciar disperdere il valore e la forza di mobilitazione della nostra proposta unitaria, e pertanto la riflessione critica sull’ esperienza di questi anni deve tenere ferma la validità delle scelte generali, dell’orientamento di fondo che ha ispirato tutta la nostra azione. E ciò resta vero anche nel momento presente. Il limite che abbiamo avuto sta, piuttosto, nell’insufficiente combattività e capacità di iniziativa, nel non aver compreso con sufficiente chiarezza che la nostra strategia può avanzare solo se si tiene viva la mobilitazione popolare e se i rapporti politici non si diplomatizzano ma coinvolgono le forze reali della società. All’ unità si può giungere solo con una battaglia politica, e se invece prevale una posizione di attesa tutta la situazione arretra.
La considerazione autocritica che è legittimo fare è di non aver saputo organizzare un movimento che avesse al centro la richiesta di una politica di effettiva e coerente solidarietà democratica e che rivendicasse la piena attuazione degli obiettivi programmatici concordati. Inoltre, abbiamo dovuto fronteggiare una vasta controffensiva delle forze conservatrici, che hanno puntato essenzialmente le loro carte sul rilancio della Democrazia cristiana, vedendo in essa l’unica possibile linea di resistenza capace di assicurare la stabilità del vigente ordinamento sociale. Il partito cattolico si è mosso con accortezza, correggendo la propria immagine logorata e accettando il terreno di un confronto con le sinistre, riuscendo così a recuperare attorno a sé una parte dei consensi popolari che aveva perduto, e riuscendo nel contempo a riaffermarsi come l’unica forza politica in grado di porre un freno all’avanzata del movimento operaio. Si è ripristinata, insomma, l’efficacia dell’interclassismo, e a ciò hanno concorso anche lo sviluppo dei movimenti cattolici, la loro ripresa di vitalità, i loro collegamenti di massa. Da questo processo è derivato un equilibrio incerto, che è stato faticosamente mantenuto in questi anni, dal governo delle astensioni alla nuova maggioranza del 16 marzo.
Noi abbiamo avuto il realismo necessario, considerando gli elementi di gradualità che inevitabilmente condizionano la costruzione di un rinnovato quadro politico. Che la Democrazia cristiana non possa essere forzata oltre un certo limite, in quanto deve vincere potenti resistenze interne, ciò è comprensibile, e di ciò abbiamo tenuto conto. Era bene evidente che una parte consistente del partito di maggioranza relativa accettava la nuova linea politica solo per necessità, e con l’intenzione di portare al più presto questa medesima politica al fallimento. A Milano, è stata questa la posizione, prevalente, e ciò spiega perché, proprio nel momento in cui si andava formando una nuova maggioranza politica a livello nazionale, diveniva più rigida la posizione nella politica locale e prendevano forza le correnti moderate del partito. Ora, tutto ciò non è sfuggito alla nostra attenzione, anche se forse non è stata abbastanza ferma ed esplicita la denuncia di questa doppiezza della politica democristiana.
Ma ora vi è un mutamento di segno più profondo nel complesso della situazione politica. Non solo vi sono evidenti resistenze dei settori conservatori, ma la stessa posizione del gruppo dirigente nazionale della Dc, nonostante le dichiarazioni ufficiali di generica riconferma della linea di solidarietà, si muove ormai in un’ottica diversa e punta alla costruzione di un nuovo, più arretrato assetto dei rapporti politici. Con la sua nota finezza ed eleganza di linguaggio, l’on. Donat Cattin ha rivelato ciò che bolle nella pentola democristiana. Anche se molti hanno l’accortezza diplomatica di non ammetterlo è probabile che egli rappresenti abbastanza fedelmente lo spirito che anima gran parte della Democrazia cristiana, i propositi di rivincita e di riaffermazione di un predominio incontrastato. Il fatto è che il gruppo dirigente della Democrazia cristiana ha creduto di poterci imbrigliare in una situazione di stagnazione, svuotando la politica di unità nazionale dalle sue reali e profonde motivazioni. L’intesa con il nostro partito si è così ridotta ad uno stato di dolorosa necessità, che occorreva superare non appena le condizioni lo consentissero, e soprattutto si è mantenuta in piedi tutta l’impalcatura del vecchio sistema di potere, e quando il nostro partito ha posto l’esigenza di un cambiamento dei metodi di governo come avvenuto per le nomine negli enti pubblici, si è risposto in modo sprezzante e provocatorio senza tenere nessun conto dell’esistenza di una nuova maggioranza politica. La costituzione di un governo monocolore democristiano era accettabile solo nel quadro di un effettivo impegno unitario: se invece si tratta della continuazione del monopolio politico della Dc, allora è interesse non solo nostro ma di tutte le forze laiche e democratiche spezzare questo stato di cose.
Il tema della crisi di governo è appunto questo. Non vi sono calcoli di partito, né tantomeno c’è una nostra vocazione a riprendere il ruolo tradizionale di partito di opposizione. Noi non scegliamo di tirarci da parte, e di rinviare a tempi più favorevoli l’assunzione di una responsabilità di governo. In questa ultima fase della vita politica del paese, la presenza e l’impegno dei comunisti sono stati determinanti per ottenere alcuni risultati positivi nella politica economica, nell’attività legislativa, nella difesa della democrazia. Questo ruolo ci è riconosciuto anche da forze che sono lontane da noi, e ogni ulteriore discriminazione urta ormai contro la coscienza civile del paese. Gli stessi democristiani sono costretti ad ammettere che non ci sono ragioni di principio o ideologiche. E allora, quali motivazioni vi possono essere se non quelle, inconfessabili, del mantenimento ad ogni costo di un sistema di potere che assegna alla Democrazia Cristiana il controllo pressoché assoluto e insindacabile su tutti gli organi del potere politico? La pregiudiziale non è ideologica, ma politica, e tuttavia rimane, e si pretende insomma che il nostro partito accetti volontariamente uno stato di perenne minorità, rinunciando ad una partecipazione diretta al governo e anche, nello stesso tempo, ad un ruolo di opposizione. Non siamo battezzati, e dobbiamo restare nel limbo. Quale partito potrebbe accettare per un lungo periodo una tale collocazione?
Il grottesco della situazione è che coloro che hanno creduto di potersi identificare con lo stato e di dettare le condizioni alle altre forze politiche, vanno agitando la polemica contro di noi, che saremmo colpevoli di arroganza.
La lotta politica ha le sue regole, ma sarebbe auspicabile un minimo di correttezza e di senso della misura. La crisi politica attuale non si risolve con aggiustamenti marginali e con equilibrismi politici: essa riguarda questioni sostanziali, sia per i rapporti tra i partiti politici sia per i contenuti dell’azione di governo. Mentre la Dc ha rifiutato qualsiasi ipotesi di sviluppo dei rapporti politici, ponendo il veto anche per gli indipendenti di sinistra, anche sul terreno programmatico abbiamo registrato negli ultimi tempi un grave arretramento. I tentativi di vanificare alcuni punti qualificanti dell’accordo di maggioranza, come per i patti agrari e per le pensioni, l’esito negativo del confronto con le organizzazioni sindacali sul piano triennale, sugli impegni per il mezzogiorno e per l’occupazione, tutto ciò aveva chiaramente determinato una situazione non più sostenibile e la necessità di un chiarimento politico di fondo. Per evitare che la situazione resti bloccata, è essenziale che si sviluppi un’iniziativa coordinata della sinistra. È questo un compito urgente, a cui dobbiamo dedicarci con impegno e con convinzione. Le posizioni che ha assunto il Partito socialista in questa fase hanno reso più complessi e difficili i rapporti tra i due partiti, non per l’affermazione netta di autonomia, che è per noi fuori discussione, ma per il tentativo di fondare questa autonomia su discriminanti di carattere ideologico. Ignorando il cammino che unitariamente la sinistra italiana ha compiuto, si è riproposta una contrapposizione di socialismo autoritario e socialismo libertario che appare francamente fuori tempo e che lo stesso Psi si è incaricato di liquidare già dal momento della sua fondazione. Ma soprattutto questa riproposizione di una discriminante di principio tra comunisti e socialisti ha il duplice effetto di alimentare nella sinistra una situazione di conflittualità e di offrire alle forze conservatrici un comodo alibi per giustificare il mantenimento delle preclusioni anticomuniste. Noi dobbiamo tuttavia cogliere la questione politica reale del ruolo autonomo del Psi; senza rinunciare alla polemica contro posizioni che sono per noi inaccettabili, dobbiamo mettere in primo piano, in tutta la nostra azione politica, la questione dell’unità delle sinistre, e comprendere i termini nuovi, più articolati entro cui può realizzarsi oggi un’azione comune tra i partiti della classe operaia.
Dopo l’esito negativo dell’esperienza del centrosinistra, e di fronte ai tentativi della Democrazia cristiana di restaurare un quadro politico ormai improponibile, la possibilità di costruire una prospettiva di tipo nuovo dipende essenzialmente dall’azione delle sinistre e dalla loro capacità di regolare in modo corretto i loro rapporti, nel rispetto dell’autonomia e della diversità di ciascun partito e nella ricerca di una piattaforma comune e di un’iniziativa politica che sposti i rapporti di forza nella realtà italiana. A questo fine il ruolo del Psi è essenziale, per la sua collocazione e per la sua natura, ed un suo rafforzamento può contribuire positivamente alla costruzione di un nuovo sistema di relazioni politiche nel quale le classi lavoratrici accedano ad un ruolo di governo e di direzione. Questa questione ha grande valore anche alla luce della crisi di governo e dei suoi sviluppi. Infatti, soltanto un impegno comune delle sinistre potrebbe consentire una trattativa seria con la Democrazia cristiana, che deve rendersi conto che il suo monopolio politico non può essere oltre prolungato. L’incarico assegnato all’On. La Malfa è stato un primo segnale di questo mutarsi della situazione. Ma alle forze della sinistra è mancata la necessaria fermezza: socialisti e socialdemocratici si sono posti in una posizione di mediazione, e hanno così lasciato alla Democrazia cristiana degli ampi margini di manovra. Il rischio che oggi corriamo è quello di un deterioramento ulteriore della situazione e di una prova di forza sul piano elettorale che avrebbe il significato di una rottura della solidarietà nazionale e di un possibile ritorno al clima della contrapposizione frontale.
Per scongiurare questa prospettiva dobbiamo intensificare, in questi giorni, la nostra iniziativa politica. E dobbiamo anche avviare una discussione sulle prospettive, sul ruolo che può’ essere assunto dalle forze della sinistra, sulla possibilità di creare le condizioni per un’effettiva alternanza nel governo del paese. Il problema che noi poniamo non è semplicemente quello della partecipazione dei comunisti al governo, ma è quello della costruzione di una democrazia salda e rinnovata, all’altezza della situazione. Non è questione di formule politiche, ma di coerenza e autorevolezza dell’azione complessiva del governo e degli organi dello stato. Partiamo da una valutazione preoccupata della crisi del paese, e su questo metro debbono essere giudicate le soluzioni e le prospettive. Il rischio di un distacco crescente tra società politica e società civile, da tutti avvertito e denunciato, può aggravarsi e produrre lacerazioni profonde. L’inquietudine della società non è solo la manifestazione di particolarismi corporativi, ma è anche l’esigenza di una democrazia di tipo nuovo, trasparente nei suoi contenuti e aperta al contributo e alla partecipazione delle forze sociali. Lo stesso voto, nel referendum sul finanziamento dei partiti, ha questa duplicità di interpretazione. Se c’è sfiducia nella politica, ciò significa che la politica deve rinnovare i propri metodi. Da questo punto di vista, la condizione prima per riattivare tutte le energie positive della società è l’avvio di un’effettiva opera di moralizzazione della vita pubblica. Ciò non riguarda soltanto le pratiche illecite, i finanziamenti occulti, la corruzione, ma riguarda più in generale tutti quei comportamenti politici che danno luogo ad una sorta di “occupazione del potere”.
Quando in tutti i campi della società, nella vita economica come in quella culturale, si verifica un intervento dei partiti che travalica le loro funzioni specifiche e distorce i criteri di professionalità, creando una rete paralizzante di clientele, la conseguenza inevitabile è la frustrazione e la demoralizzazione di quelle forze che non intendono piegarsi a questa pratica avvilente. Se per la presidenza di una banca il requisito indispensabile è l’appartenenza ad una determinata corrente della Democrazia cristiana, indipendentemente dal merito e dalle capacità, e se questo sistema viene allargato ed esteso a tutti gli enti pubblici, ciò non può che provocare il predominio della mediocrità e del servilismo, e quindi il discredito delle istituzioni. Va riconosciuto che c’è anche la necessità di assicurare in modo equilibrato una rappresentanza delle diverse forze politiche, ma questa esigenza deve essere armonizzata con i criteri di capacità professionale e di correttezza amministrativa. È questa una battaglia che dobbiamo riprendere con grande energia, riproponendo in tutta la sua portata i problemi dei criteri e delle procedure per le nomine pubbliche, a tutti i livelli.
Si pone inoltre la necessità di determinare, in tutto il funzionamento dello stato, quelle condizioni di efficienza che oggi appaiono gravemente compromesse. Anche in questo caso, la responsabilità principale è nel metodo di governo instaurato dalla Democrazia cristiana, che conduce all’immobilismo e al continuo rinvio delle decisioni. Il paese ha bisogno di una democrazia salda ed efficiente, di uno stato che funzioni, di una direzione politica che individui con chiarezza gli obiettivi generali che ci si propone di raggiungere e che a questo fine sappia suscitare l’impegno e l’iniziativa dei cittadini e delle loro organizzazioni democratiche.
Il problema del funzionamento della democrazia ha acquistato un particolare rilievo dal momento in cui è stata posta all’ordine del giorno la necessità di una riforma e di un decentramento dello stato. Il passaggio di poteri alle regioni e ai comuni richiede una verifica approfondita di tutto il nostro ordinamento. A Milano la questione si pone in modo acuto data la dimensione dell’area metropolitana, data la complessità dei problemi che qui si pongono e quindi la necessità di un’efficace opera di programmazione. Gli strumenti attuali sono del tutto inadeguati, perché nessuno di essi corrisponde a quella che è la dimensione reale, oggettiva, dell’area milanese: solo con la formazione dei comprensori è stata in parte corretta questa situazione, ma tali organismi sono ancora ben lontani dalla possibilità di esercitare una effettiva funzione di governo. La forte riaffermazione del ruolo primario del comune nel sistema delle autonomie non può essere sufficiente, per due ragioni. Perché, anzitutto, non può essere trascurata la differenza profonda che esiste nella dimensione dei comuni, e perché, in secondo luogo, vi è comunque l’esigenza di un livello di governo che sia proporzionato alla dimensione dell’area metropolitana, che è la dimensione obbligata per affrontare in modo serio i problemi di fondo dello sviluppo e dell’organizzazione civile dell’area milanese. La definizione, in sede legislativa, del nuovo ordinamento delle autonomie locali non deve prescindere dalla particolarità di Milano e delle altre aree metropolitane. Se in generale è un’indicazione giusta quella di limitare le funzioni dell’ente intermedio e di far leva essenzialmente sulla regione e sui comuni, questa impostazione rischia di essere dannosa nella realtà milanese in quanto lascerebbe inalterati il predominio del comune capoluogo e la polverizzazione dei piccoli comuni, i quali non possono che subire le ‘conseguenze di scelte che vengono prese altrove. Occorre dunque un livello adeguato, espressione diretta della volontà popolare e dotato dei mezzi e dei poteri necessari per esercitare una funzione di programmazione che non sia separata dalla necessaria gestione di alcuni servizi che per loro natura trascendono la dimensione comunale. Obiettare a questo progetto istituzionale le ragioni della partecipazione dal basso significa sostituire al ragionamento la demagogia. Nessuna persona ragionevole può pensare che una rete diffusa di comitati di quartiere possa risolvere i problemi dello sviluppo di Milano. Sul tema della partecipazione, che è questione reale e rilevante, vi è stata molta retorica, ma in realtà poco è stato realizzato. Solo con la nuova amministrazione di sinistra è stato avviato dal comune di Milano un processo effettivo di decentramento delle funzioni, ragionando sulle cose e tralasciando le astratte e fumose teorizzazioni. Forse in questo consiste il “grigiore” che ci viene rimproverato. Ma non crediamo che i cittadini milanesi rimpiangano la “filosofia della partecipazione” in cui si era specializzato l’On. Borruso.
La democrazia è concetto privo di senso se non viene legato a funzioni e a poteri reali e definiti. La crisi di molti organismi dipende da questa carenza di funzioni, e dalla frustrazione che ne consegue. Il meccanismo complicato che si è costruito nella scuola rischia di incepparsi per questa ragione. E allora, si tratta di affrontare il problema della democrazia e della partecipazione senza improvvisazioni demagogiche e senza mitologie. Il criterio fondamentale che dobbiamo cercare di seguire è quello che valorizza la democrazia come organizzazione della volontà generale, che si rivolge quindi al cittadino nella pienezza delle sue funzioni e dei suoi interessi. All’impostazione, di origine cattolica, che frantuma la vita democratica in una pluralità di organismi settoriali, dobbiamo opporre il concetto classico della “repubblica”, dell’interesse comune e generale, della partecipazione alla vita complessiva della collettività. In ciò consiste la grande tradizione democratica europea. “È necessario dunque – scrive Rousseau nel Contratto sociale – per avere veramente l’espressione della-volontà generale, che non vi sia nello stato nessuna società parziale e che ogni cittadino non pensi che secondo il suo giudizio”. Nelle condizioni della società attuale possiamo misurare tutte le conseguenze negative che vengono dall’esistenza delle “società parziali”, ovvero dalla costituzione di organismi corporativi.
Certo, la società moderna è una società complessa e articolata, e pertanto si pone la necessità, nei diversi campi, di forme di controllo democratico. Ma tutto questo deve essere ricondotto al momento unitario che è rappresentato dalle assemblee elettive. Se non si chiarisce bene questo aspetto, lo sviluppo della partecipazione può concorrere ad un’ulteriore accelerazione dei processi di corporativizzazione: allora scompare il cittadino, scompare la dimensione politica, e vi sono soltanto interessi costituiti che si organizzano e che si ‘fanno valere come tali, condizionando e limitando il potere delle assemblee democratiche. Lo sviluppo democratico deve essere invece organizzato a partire dal comune, riconducendo ad esso tutta la complessità dei problemi, esaminando nel concreto quali possono essere le forme di decentramento e di consultazione democratica.
Nella città di Milano occorre perseguire con grande decisione e coraggio la linea del decentramento, così da costituire nei diversi quartieri delle vere e proprie municipalità, attorno a cui si organizzi attivamente la vita democratica dei cittadini. È questo uno dei problemi che deve qualificare la nostra piattaforma per le prossime elezioni amministrative del 1980, che saranno anche la prima occasione per l’elezione diretta dei consigli di zona. Sappiamo che si tratta di una prova difficile, ma ad essa ci dobbiamo preparare con fiducia e con spirito combattivo. Qualche dirigente democristiano sembra dare per scontata un’affermazione trionfale del suo partito. Ma su quale base viene fondata questa previsione? In questi quattro anni la Dc milanese ha dimostrato una straordinaria povertà di idee, e si è ridotta ad una opposizione accanita e talora isterica, cercando solo di raccogliere qualsiasi elemento di malcontento, senza badar e troppo alla coerenza politica e alla serietà delle argomentazioni. Non ci sembra che si possa parlare di una ripresa di egemonia da parte della Dc, che in realtà non ha ancora trovato un suo equilibrio interno e che è sottoposta al continuo travaglio delle correnti e delle lotte personali. Noi dunque ci presenteremo all’appuntamento elettorale senza alcun complesso di inferiorità, chiedendo che venga confermata la scelta politica del 15 giugno. I partiti dell’attuale coalizione possono legittimamente presentarsi con un bilancio positivo, riproponendo la loro candidatura alla direzione politica della città e della provincia. E uno sforzo deve essere fatto per associare altre forze politiche, come il Partito repubblicano che nel complesso ha esercitato un’opposizione seria e costruttiva e che potrebbe ulteriormente contribuire alla formazione di una vasta e rappresentativa maggioranza politica. Non abbandoniamo, certo, l’idea di un rapporto positivo anche con la Democrazia cristiana, ma ciò dipende da quanto questo partito saprà correggere le posizioni fin qui assunte, sul piano politico e su quello programmatico. Chiediamo che anche le altre forze politiche della maggioranza, il Psi e il Psdi, assumano fin d’ora l’impegno ad una riconferma della coalizione, così da impostare una battaglia politica chiara, capace di mobilitare i lavoratori e le forze di progresso attorno ad un comune programma di rinnovamento.
La posta in gioco è di grande rilievo, se pensiamo che dopo il 15 giugno sono stati conquistati dalle forze di sinistra 69 nuovi comuni e che attualmente esercitiamo una funzione diretta di governo su un’area che comprende il 76% della popolazione della provincia. Il bilancio di questa esperienza è nel complesso positivo, ed è stato compiuto ovunque Un grande sforzo per realizzare una politica di rinnovamento e per consolidare i rapporti di unità e di collaborazione tra le diverse forze che hanno partecipato a questa nuova esperienza amministrativa.
Per quanto riguarda la situazione politica regionale, l’equilibrio che si è creato appare tutt’ora fragile e inadeguato. Il permanere di una pregiudiziale nei confronti del nostro partito impedisce il raggiungimento di un’effettiva solidarietà e corresponsabilità delle forze democratiche: continua infatti ad esserci uno scarto fra l’accordo programmatico su cui si è formata la maggioranza e l’azione pratica della giunta, che tende a riprodurre i metodi delle passate gestioni. Tuttavia, noi non riteniamo che sia in questo momento auspicabile l’apertura di una crisi politica, e lavoriamo per il regolare svolgimento della legislatura, a condizione che siano mantenuti gli impegni programmatici, che vi sia un rapporto di correttezza tra i partiti politici, che la nostra presenza nella maggioranza non si riduca ad una partecipazione accessoria e subordinata, ma sia tale da concorrere effettivamente alla definizione delle scelte politiche. In vista delle prossime elezioni, si tratta ora di garantire il funzionamento della regione e di realizzare gli impegni del programma; ma si tratta anche di lavorare per uno sbocco politico diverso e più avanzato, per il superamento dell’attuale formula politica, che ha inevitabilmente un carattere di transizione e di provvisorietà. Di fronte al permanere di veti e di pregiudiziali da parte della Democrazia cristiana, altri possibili schieramenti possono essere costituiti.
Il lavoro svolto in questi anni dalle amministrazioni di sinistra è un’importante e utile base di partenza e dovrà essere meglio valorizzato e illustrato, rendendo conto in modo preciso delle condizioni in cui l’amministrazione pubblica era stata lasciata dalle precedenti giunte di centro-sinistra. Alla politica empirica e personalistica affidata all’iniziativa, non sempre apprezzabile e corretta, dei singoli assessori si è sostituito uno sforzo complessivo di programmazione che ha interessato i fondamentali settori dell’intervento pubblico: la politica del territorio, i trasporti, la scuola, il commercio. È questa una fondamentale questione di metodo di governo: solo se vengono impostati in modo chiaro i programmi dell’intervento pubblico si dà una garanzia di oggettività ai cittadini e alle forze sociali e si elimina l’arbitrio del favoritismo, delle trattative personali, degli accordi con determinati gruppi economici, tutto ciò insomma che ha caratterizzato nel passato il cosiddetto “rito ambrosiano”.
Per il prossimo futuro noi dobbiamo porre al centro le questioni dell’organizzazione della vita civile, nella città e nel comprensorio milanese. Vi è su questo tema una grande disponibilità di impegno ed una grande sensibilità da parte di varie organizzazioni sociali, culturali, giovanili. Una battaglia contro i fenomeni di decadimento e per una forte ripresa del tessuto civile associativo e culturale può mobilitare l’iniziativa di forze diverse e suscitare un clima nuovo di fiducia e di partecipazione. Basti pensare allo straordinario successo delle iniziative culturali del comune di Milano e della provincia per valutare le grandi potenzialità che possono essere messe in campo. Dobbiamo predisporre, a questo fine, un vasto programma politico, che affronti le questioni dell’iniziativa culturale, dell’associazionismo democratico, dello sport, del rinnovamento dei quartieri degradati, della politica per la gioventù coinvolgendo in quest’opera i consigli di zona, i comuni del comprensorio e le diverse associazioni democratiche. In questo come in altri campi, si tratta di incoraggiare e di sorreggere l’iniziativa di forze diverse. L’intervento pubblico non può essere sufficiente e risolutivo, ma deve avere una funzione di stimolo, indicando obiettivi e inquadrando in un programma politico l’iniziativa autonoma di associazioni e di gruppi privati. Su questa strada dobbiamo procedere con decisione, facendo appello al contributo di tutte le forze sociali ed economiche: solo in questo quadro di collaborazione e di confronto aperto possono essere risolti i grandi problemi sociali, a partire da quello della casa, che richiede, per essere affrontato seriamente, la mobilitazione di grandi risorse finanziarie. Dobbiamo quindi metterci subito al lavoro per costruire, insieme con le forze reali che operano a Milano, un programma che abbia questo carattere aperto, non un programma di partito ma una piattaforma unitaria dei cittadini e delle organizzazioni sociali e democratiche. Se alla scadenza dell’ottanta ci prepariamo con una nostra elaborazione organica, che affronti contestualmente i problemi dell’assetto istituzionale e delle alleanze politiche, dell’organizzazione civile e dello sviluppo economico, se su questi temi già da oggi costruiamo un’iniziativa politica aperta e sviluppiamo il confronto della società, allora io credo che davvero possiamo guardare con realistica fiducia alle prospettive politiche del prossimo futuro.
La costruzione di un nuovo blocco sociale e politico può procedere se vi è la capacità, da parte del movimento operaio, di elaborare una proposta di sviluppo per la società italiana, che abbia in sé una potenzialità di unificazione e di mobilitazione di forze sociali diverse. Non c’è dubbio che in questo ultimo periodo passi importanti sono stati compiuti in questa direzione. La scelta della linea dell’austerità ha rappresentato un momento di grande maturità e consapevolezza del movimento dei lavoratori, che ha dimostrato di saper valutare le grandi esigenze nazionali e di saper sconfiggere al proprio interno le posizioni di carattere corporativo e le spinte ad un esasperato rivendicazionismo. È una battaglia, questa, non ancora conclusa definitivamente, ma già sono rilevanti e di grande valore i risultati che sono stati conseguiti. I miglioramenti intervenuti nella situazione economica e la sensibile riduzione del tasso di inflazione non sarebbero stati possibili senza il contributo determinante del movimento operaio. Questa parziale schiarita non deve però essere sopravvalutata, e non può valere come alibi per una linea che punti al ripristino del vecchio meccanismo economico. Certe frettolose dichiarazioni sulla fine dell’emergenza hanno un troppo evidente significato politico: si tratta di chiudere la pagina della politica di solidarietà nazionale, di dare il ben servito ai comunisti e alla classe operaia, e di governare con i criteri e con i metodi del passato. Ciò è inaccettabile non solo dal punto di vista politico, ma anche e soprattutto perché non è stato compiuto un effettivo risanamento e stanno ancora davanti a noi, irrisolti, i grandi problemi della crisi della società italiana. La politica dell’austerità non può essere intesa né come un atto unilaterale di rinuncia, né come un’indicazione di un modello di stagnazione. Al contrario, essa rappresenta lo strumento necessario per rilanciare lo sviluppo su basi diverse, assicurando un’utilizzazione razionale delle risorse ed eliminando gli squilibri sociali e geografici, le inefficienze e i parassitismi, che condannano il nostro paese ad una condizione di arretratezza e di sottosviluppo.
Il concetto di austerità, in sostanza, non appartiene alla sfera morale, ma a quella politica ed economica. La classe operaia, pertanto, non trova rifugio e consolazione in un ideale monastico di rinuncia e di distacco dal mondo, ma ha l’ambizione di porsi come guida di un’azione politica che assicuri al paese il massimo sviluppo delle forze produttive, commisurando a tale obiettivo le proprie rivendicazioni di classe. Ora, da questo punto di vista, la ripresa economica in atto è solo un segnale parziale e provvisorio, un primo risultato, ancora assai incerto, a cui deve far seguito un’azione più generale di rinnovamento dell’apparato produttivo e di rilancio dell’economia nazionale.
La questione del mezzogiorno, della sua arretratezza, crescente divario rispetto alle zone industrializzate è indubbiamente il dato più grave e ciò richiede politica che abbia come obiettivo prioritario il superamento di questo stato di cose. Dobbiamo riconfermare grande evidenza la nostra impostazione meridionalistiche è uno dei cardini indispensabili dell’azione del movimento operaio. D’altra parte, però, dobbiamo guardarci manovra che viene condotta per scaricare sul movimento operaio e sul complesso delle forze economiche del nord responsabilità esclusiva della questione meridionale. Una tale concezione finirebbe per offuscare le vere responsabilità politiche e determinerebbe una meccanica e non associazione secondo cui lo sviluppo del sud avvenire solo arrestando la dinamica produttiva delle regioni più avanzate. Così non è perché la condizione prima essenziale è la capacità e l’impegno effettivo del governo ad operare per creare nelle regioni meridionali le condizioni, non solo economiche ma di organizzazione civile, per una loro rinascita e per una linea di sviluppo. Le operazioni di trasferimento industriale al sud, pur necessarie, non possono essere di per sé sufficienti, se non vi è una politica complessiva ed organica di risanamento.
La nostra proposta per l’economia milanese non deve essere, pertanto, una proposta di blocco e di stagnazione. Vi è stata negli ultimi anni una parziale ripresa che si è basata sull’elasticità del sistema economico, soprattutto nelle piccole e medie imprese, e sui rapporti con il mercato internazionale. Questa ripresa deve essere consolidata e garantita attraverso una programmazione economica che, ferme restando l’autonomia e la responsabilità dell’impresa, sia in grado di orientare gli investimenti e di coordinare lo sviluppo economico con gli obiettivi che riguardano l’occupazione, lo sviluppo dei consumi sociali e il riordino della pubblica amministrazione. In una realtà come quella milanese si tratta di assicurare uno sviluppo equilibrato e regolato, eliminando ogni forma di assistenzialismo e di spreco. In questo quadro assumono rilievo alcuni problemi di primaria importanza: il risanamento del sistema delle partecipazioni statali, l’efficacia di una politica fiscale e rigorosa, il controllo sul mercato del lavoro, la riforma del sistema creditizio, il sostegno alla ricerca scientifica.
Affrontare contestualmente tutte queste questioni è essenziale per un risanamento dell’economia milanese che sia funzionale allo sviluppo generale del paese e che si inquadri in una politica seria di programmazione. Si tratta infatti di utilizzare razionalmente le risorse esistenti con una politica che colpisca severamente il fenomeno scandaloso delle evasioni fiscali, e che restringa i margini della rendita bancaria a vantaggio degli investimenti produttivi; di razionalizzare l’intervento pubblico, attualmente appesantito da bardature burocratiche improduttive; di affrontare il complesso problema del lavoro nero e del doppio lavoro, che ha gravi effetti negativi sia per l’occupazione sia per la forza contrattuale delle organizzazioni sindacali; di favorire uno sviluppo intensivo e qualificato nei settori tecnologicamente più avanzati, così da mantenere una posizione competitiva sul mercato internazionale. Questi obiettivi possono essere raggiunti solo se si afferma il metodo della programmazione, vincendo le resistenze dei gruppi industriali, tuttora chiusi in una difesa corporativa e in una visione solo aziendalistica.
L’esempio più evidente è dato dalla questione della mobilità del lavoro, che può essere risolta nella realtà milanese senza difficoltà insormontabili, se ci si muove con decisione sulla linea di un confronto costruttivo tra le forze economiche e sociali e di un’affermazione del ruolo di direzione e di programmazione del potere pubblico. In assenza di ciò, si determinano situazioni di grave tensione, come è avvenuto per la vicenda, tuttora irrisolta, dell’Unidal.
La seconda essenziale condizione è l’instaurazione all’interno delle imprese di un nuovo sistema di relazioni, che consenta ai lavoratori di avere tutti gli elementi di informazione e quindi di partecipare alle scelte, di discutere con spirito costruttivo sugli investimenti, sulle scelte produttive, sulla politica per l’occupazione, sulla organizzazione del lavoro, e così via. Noi non riteniamo di dover percorrere in Italia la via della cogestione perché riteniamo ‘più corretta l’esistenza di una dialettica tra le parti sociali, tale da garantire sia l’autonomia dell’impresa sia quella delle organizzazioni sindacali. Ma certamente possono essere compiuti passi significativi per determinare un nuovo clima di rapporti e per realizzare una “democrazia industriale” che assegna ai lavoratori e alle loro organizzazioni un ruolo di primo piano nella vita complessiva delle imprese. In ogni caso, è su questo terreno nuovo che la classe operaia deve cimentarsi, ponendosi come protagonista dello sviluppo economico, e sviluppando quindi tutte le iniziative, come le conferenze di produzione che la portano ad affrontare non solo il problema della salvaguardia delle proprie condizioni di lavoro, ma quello, più impegnativo, della costruzione di una nuova politica economica. In questo quadro è essenziale il contributo dei tecnici e dei quadri dirigenti, il cui ruolo deve essere valorizzato, contrastando le tendenze a forme di egualitarismo e di appiattimento, e mettendo invece in evidenza i valori della professionalità. Una linea di sviluppo, come quella che ho cercato qui di illustrare, è il terreno concreto su cui si può realizzare una politica di alleanze con i settori del ceto medio, con alcune forze imprenditoriali, con il tessuto economico che è interessato ad una politica di progresso, di sviluppo delle forze produttive, di riqualificazione del sistema economico.
Ciò riguarda anche, nella realtà milanese, il settore del terziario, che acquista sempre più peso, e il cui sviluppo corrisponde ad una esigenza fisiologica di un’economia moderna ed avanzata. Noi abbiamo contrastato il processo di terziarizzazione, in quanto esso tendeva a svolgersi in forme parassitarie e speculative, stravolgendo l’equilibrio della città e sfruttando, con operazioni spregiudicate, le posizioni di rendita. Ma sarebbe assurda una posizione ideologica e di principio contro il settore terziario, o contro la creazione di grandi infrastrutture che sono ormai necessarie per un’economia sviluppata, e di cui dobbiamo valutare con oggettività le convenienze economiche, i possibili tempi di realizzazione, la compatibilità con le risorse e con le esigenze nazionali. È con questo spirito che i comunisti partecipano alla discussione sul piano di sviluppo della regione lombarda, ed è in questo quadro che noi valutiamo positivamente alcuni importanti progetti, come il potenziamento dell’aeroporto della Malpensa, la ristrutturazione dei mercati generali di Milano, la terza linea della metropolitana.
Uno sviluppo di tipo nuovo e qualificato comporta un elevamento generale del livello di efficienza della pubblica amministrazione e dei servizi. È ricorrente la denuncia delle forme di corporativismo e della scarsa produttività, e in questa denuncia vi sono indubbi elementi di verità. Ma sarebbe miope, oltre che ingeneroso, scaricare sui lavoratori la responsabilità della situazione e affrontare il problema con qualche predica moralistica. Si tratta invece di operare per una qualificazione delle capacità professionali per la creazione di nuove condizioni di efficienza e di funzionalità: in assenza di ciò, in assenza di un ruolo sociale qualificato, vi può essere solo la rincorsa rivendicativa tra le diverse categorie. La struttura sociale ed economica che caratterizza l ‘area milanese si contraddistingue, anzitutto, per l’estrema varietà e complessità delle funzioni e dei ruoli sociali. La nostra politica deve tener conto di questo aspetto, e deve indirizzarsi con una proposta positiva al complesso vasto ed eterogeneo degli strati sociali intermedi. A queste forze ci dobbiamo rivolgere, considerandole nel loro complesso e stabilendo relazioni con le loro organizzazioni elettive.
È un fatto positivo che nel settore del commercio s i sia avviato, almeno parzialmente, un processo di riunificazione associativa, ed in generale è in questa direzione che si tratta di operare, tenendo conto delle condizioni nuove che oggi esistono, della possibilità di un discorso aperto e della liquidazione delle discriminazioni politiche che sono state operanti nel passato. Questo orientamento deve affermarsi anche nella conduzione degli enti pubblici, che potrebbero avvalersi assai utilmente del rapporto delle categorie professionali, rompendo la prassi inaccettabile e pericolosa della lottizzazione tra le forze politiche. La questione delle alleanze sociali assume dunque, sotto ogni aspetto, un valore essenziale nella nostra politica, soprattutto in una realtà come quella milanese. Contrapporre a questa esigenza il tema delle forze emarginate sarebbe un errore grave: le due questioni sono distinte e non ha senso una definizione di priorità.
La classe operaia, proponendosi come forza dirigente di un processo – di sviluppo, intende affrontare i problemi della società italiana nella loro interezza: i problemi delle aree arretrate come quelli delle zone più sviluppate, i problemi dei disoccupati come quelli delle forze produttive. Sarebbe del tutto privo di senso introdurre nel nostro dibattito una qualificazione di destra o di sinistra a seconda del sistema di alleanze su cui si pone l’accento. D’ altra parte, la condizione che è in ogni caso necessaria è la capacità nostra di indicare e di realizzare una linea di sviluppo capace di restituire piena dinamicità al sistema economico e di assorbire pertanto la forza lavoro utilizzata. Il problema dell’emarginazione ha però altri e più complessi risvolti, anche in una realtà dove vi è una tenuta del sistema produttivo. Infatti il dato fondamentale non è solo il diritto al lavoro, ma sono altrettanto determinanti le condizioni della vita civile, l’assetto dei servizi, il livello complessivo di organizzazione della società. Non c’è dubbio che da questo punto di vista siamo ancora ad uno stadio di grave arretratezza in molte zone della nostra provincia, e che da ciò sono alimentati fenomeni preoccupanti di disgregazione, che colpiscono anzitutto le nuove generazioni. La presenza di un movimento autonomo della gioventù che ponga i problemi del lavoro e della condizione civile, così come l’iniziativa delle forze femminili per l’occupazione e per i servizi sociali, possono acquistare un ruolo importante e qualificare l’azione complessiva del movimento operaio per una politica di sviluppo che porti ad un livello più alto tutta l’organizzazione vita civile.
Su questo complesso di problemi l’iniziativa delle forze politiche ed il confronto delle posizioni sono ancora troppo limitati e saltuari. È questo un indice negativo che dimostra una certa ristrettezza di orizzonte delle forze politiche, troppo assorbite dai problemi che riguardano la distribuzione del potere. Sta a noi sollecitare un confronto sui contenuti, sugli indirizzi di politica economica, sulle prospettive che si intendono realizzare nella realtà milanese. Il movimento sindacale ha, in questi anni, allargato notevolmente l’area del proprio intervento, e tende a prendere posizione su tutto l’arco delle questioni politiche, imponendosi come interlocutore obbligato per i partiti e per le istituzioni. È questo un processo positivo in quanto supera ogni ristrettezza corporativa e mette evidenza la connessione esistente tra fabbrica e organizzazione sociale e il ruolo che può assolvere in ogni campo la classe operaia. Il rapporto tra sindacato e partito si pone, pertanto, in’ termini nuovi e richiede un’affermazione più spiccata di reciproca autonomia. A tale regola ci vogliamo attenere con rigore, confermando il valore di tutto il processo che in questi anni si è sviluppato e che ha definito in termini nuovi la fisionomia ed il ruolo delle organizzazioni sindacali.
Se nel complesso vi è stato questo avanzamento positivo, si sono però anche manifestate difficoltà nel processo unitario, a cui occorre dare una risposta concreta. In sostanza, è apparsa alla prova dei fatti debole e illusoria l’idea che il movimento sindacale, una volta allentati i rapporti con le forze politiche, potesse trarre dalla propria vita interna una dinamica di progressiva unificazione e di superamento delle diverse impostazioni e matrici politiche. C’ è un dato permanente, il pluralismo politico e ideale che inevitabilmente si riflette anche all’interno del movimento sindacale, e pertanto l’unità non può configurarsi che come la risultante di un processo complesso di confronto, di mediazione, attraverso l’esercizio di una libera democrazia interna. Per evitare che la strategia unitaria sia paralizzata e bloccata è necessario adeguare le sue forme a questo dato strutturale ed organizzare quindi una vita democratica interna che consenta la piena espressione delle diverse posizioni e l’assunzione di responsabilità da parte dei lavoratori. Un rilancio della prospettiva unitaria può avvenire solo con la valorizzazione piena degli strumenti di democrazia costruiti direttamente dai lavoratori e con il superamento di accordi verticistici e di regole che precostituiscono il rapporto tra le diverse componenti sindacali. Altrimenti vi è il rischio di una burocratizzazione e di uno svuotamento della funzione dei consigli di fabbrica e degli organismi territoriali. Che senso ha, ad esempio, decidere in partenza che negli organismi unitari nessuna delle tre confederazioni deve disporre della maggioranza assoluta? La democrazia, per essere tale, non può essere manipolata, e l’unità del movimento non può essere affidata alla logica dei numeri, ma implica piuttosto, da parte di tutti, un’ispirazione politica ed un metodo di comportamento che sia tale da garantire le minoranze e da assicurare, in ogni caso, la ricerca tenace e convinta di una posizione di equilibrio e di unità.
All’interno del movimento sindacale la presenza dei comunisti deve essere improntata a questa logica di confronto aperta, che può anche richiedere, su questioni essenziali e di linea strategica, una lotta politica chiara contro concezioni che riteniamo dannose per l’insieme del movimento dei lavoratori. Il nostro punto di riferimento è l’impostazione generale decisa all’assemblea dell’Eur. Posizioni che siano antagonistiche rispetto a questa linea debbono essere combattute con impegno e con fermezza. Soprattutto deve essere decisa e assai ferma la lotta contr o le tendenze alla disgregazione del movimento, contro le forme di organizzazione frazionistica, contro i tentativi di creare un’area di agitazione massimalistica e qualunquistica; e in modo ancora più intransigente dobbiamo stroncare ogni tendenza che possa fornire una copertura a gruppi che operano sul piano del terrorismo e dell’illegalità organizzata. La forza ed il prestigio del movimento sindacale debbono essere messi al servizio dello sviluppo democratico del paese. Questa scelta è condivisa dalla stragrande maggioranza dei lavoratori. Nei momenti più aspri tensione e di pericolo, il peso della classe operaia stato determinante. Anche sul terreno della politica mica, l’azione sindacale è essenziale per il superamento della crisi, e ogni sforzo deve essere fatto perché si affermi una linea costruttiva, adeguata all’emergenza della situazione. Le lotte per i rinnovi contrattuali, che interessano numerose categorie, vanno considerate in questo quadro più generale, come un momento importante di avanzamento della condizione operaia, di affermazione del ruolo dei lavoratori nella società italiana.
Alle organizzazioni sindacali che sono impegnate in questa prova deve andare tutto il nostro sostegno politico, per una conclusione rapida e positiva delle trattative. Deve essere battuto il tentativo dei settori più chiusi del padronato di impostare il confronto con il sindacato nei termini di uno scontro aspro e di puntare ad una rivincita e ad un logoramento delle forze del movimento sindacale. In un momento di crisi politica come quello che stiamo attraversando, la coerenza e la chiarezza di linea del movimento sindacale costituiscono per le forze politiche un obbligato punto di riferimento, e possono quindi incidere sulla situazione e concorrere ad una svolta negli indirizzi di governo che corrisponda alle esigenze generali della società italiana.
La realtà di Milano, per le sue caratteristiche economiche, sociali, civili e culturali, rappresenta per la nostra azione un terreno fecondo e particolarmente avanzato. È infatti possibile qui più che altrove individuare i lineamenti di uno sviluppo democratico moderno, di una organizzazione sociale progredita, di una civiltà del lavoro che valorizzi l’apporto della professionalità e della scienza. Le lamentele sul declino e sulla decadenza di Milano sono fuori luogo; esse non sono altro che la reazione rabbiosa dei gruppi parassitari che hanno potuto nel passato far valer e incontrastati le loro posizioni di privilegio a detrimento degli interessi della collettività. Che sia finita l’epoca in cui valeva come unica legge quella del massimo profitto e che ci sia oggi un minimo di regolamentazione dello sviluppo, è questo un fatto che non possiamo che apprezzare positivamente. Milano si trova in una fase di trapasso, certamente non facile ma ricca di potenzialità nuove.
Anzitutto, come già abbiamo più volte ricordato, lo sviluppo di Milano deve essere visto nel quadro delle necessità nazionali, eliminando ogni residuo di quel gretto municipalismo ambrosiano che è stato l’alimento e la cultura dei gruppi dominanti. Nel momento in cui tutto il paese è impegnato in uno sforzo arduo per risolvere i suoi problemi storici, le sue arretratezze organiche, Milano deve essere in prima fila in questa prova di solidarietà nazionale, anche perché il suo ruolo è destinato a deperire se il paese va verso lo sfascio, se non si avvia finalmente uno sviluppo più equilibrato e razionale. Venuto meno lo sviluppo distorto del passato, causa di contraddizioni sociali acutissime, si tratta ora di fissare dei nuovi e più validi parametri, ed essi possono essere rintracciati essenzialmente nella democrazia e nella scienza. Il controllo democratico sullo sviluppo, attraverso un sistema agile ed efficiente di organi rappresentativi, garantisce, entro i limiti del confronto tra le forze politiche, che le scelte siano corrispondenti agli interessi generali. Ma ciò può essere fatto in modo rigoroso solo se ci si avvale, in ogni campo, della competenza specialistica e dell’analisi scientifica. I problemi dello sviluppo non possono essere affrontati con il dilettantismo politico, dietro cui troppo spesso si nascondono complicità e corruzioni.
Pensiamo, ad esempio, ai problemi della difesa dell’ambiente, alla lezione di Seveso, alla situazione di incuria in cui sono tuttora lasciati i problemi fondamentali per un’organizzazione razionale dello sviluppo. Questioni di questa natura richiedono un approfondimento scientifico, e non possono essere risolte con il ricorso a referendum popolari. Ciò è ridicolo ed assurdo per le decisioni di un piano energetico nazionale, così come è stato assurdo e irresponsabile affrontare la questione di Seveso lasciandosi condizionare dagli umori dell’opinione pubblica e dai calcoli elettorali di qualche notabile locale.
Bisogna dunque introdurre nel funzionamento della vita democratica delle garanzie di rigore, per impedire che la democrazia, come spesso avviene, si risolva nell’elettoralismo più spregiudicato e nella manipolazione dei consensi. Occorre dunque stabilire in modo organico una collaborazione tra il potere pubblico e i tempi di elaborazione scientifica. È una questione complessa, ma è urgente che sia affrontata, se vogliamo impedire che per incapacità o per calcolo politico siano compromesse le possibilità del nostro sviluppo. Vi sono forze ingenti che possono essere utilizzate e mobilitate a questo fine. Il rapporto fra politica e cultura diviene uno dei nodi centrali su cui dobbiamo lavorare. Per configurare correttamente questo rapporto, è evidente che bisogna partire dal riconoscimento pieno dell’autonomia della cultura e della scienza, che per loro natura non possono essere piegate ad uso strumentale. Ma d’altra parte è da rifiutare quella concezione dell’autonomia per cui la cultura si rinchiude in un ambito separato e rinuncia ad ogni intervento che possa sconfinare nel terreno riservato della politica. L’autonomia della cultura, così spesso decantata dalle forze conservatrici, diviene così un fatto di neutralità che consente di l’ordinamento sociale e politico al riparo dell’intervento critico della ragione.
Vi è invece bisogno di un impegno culturale e scientifico che, senza timore di interferenze, sia un elemento permanente di stimolo, di sollecitazione critica, così da portare ad un livello più alto il dibattito politico e la coscienza civile del paese. Ciò è necessario anche per creare in tutto il corpo della società una coscienza collettiva che sia improntata a criteri di razionalità. Siamo in presenza, infatti, di una crisi di valori e di identità culturale, da cui prendono vigore spinte irrazionalistiche di varia natura, il cui contenuto politico è, in ultima istanza, il rifiuto della moderna civiltà industriale. Si t ratta di fenomeni e di tendenze che dobbiamo valutare con attenzione, in quanto esprimono, sia pure in modo distorto, un’esigenza di nuova eticità, una volontà di trascendere i limiti del presente e di rifuggire dalle condizioni di alienazione che contraddistinguono la società borghese. Non c’è dubbio che nel rifiorire del movimento cattolico non c’è soltanto il segno di una controffensiva di destra, ma anche un travaglio complesso in cui sono presenti istanze di rinnovamento, esigenze che si rivolgono alla pienezza della personalità umana, tensioni morali autentiche. Ma tutto questo movimento rischia di approdare ad un esito negativo, di restaurazione conservatrice, e di fronte a ciò la cultura laica e democratica deve essere in grado di fornire risposte più convincenti e più rigorose. «La filosofia – scrive Hegel -, poiché è lo scandaglio del razionale, appunto per ciò è la comprensione del presente e del reale; non la ricerca di un al di là, che sa Dio dove dovrebbe essere». È appunto in questa direzione, nel senso di una cultura della, realtà, che dobbiamo operare, non già per rimanere rinchiusi nell’orizzonte delle cose date, ma per realizzare un’azione pratica ed efficace di trasformazione che si possa avvalere di tutte le possibilità che sono fornite dalla conoscenza scientifica. È urgente e necessaria una vasta azione di battaglia culturale, organizzando tutte le forze disponibili, e operando non in circoli chiusi e ristretti, ma a contatto con la realtà, con l’esperienza delle masse, con i problemi della società moderna. Il partito ed il movimento operaio debbono sempre più attrezzarsi per questo compito, sapendo che da esso dipende l’esito della battaglia politica e la possibilità di realizzare un’effettiva egemonia. Potremmo parlare, a questo proposito, della necessità di una cultura di massa, a condizione che ciò sia inteso nel senso più rigoroso, senza cedimenti populistici e senza la mitologia di culture alternative, le quali non fanno che riprodurre lo stato di minorità delle classi subalterne. La nostra politica non è tesa a creare delle oasi di cultura proletaria, ma ad intervenire nel vivo delle istituzioni culturali esistenti, nelle università, nei centri di ricerca, nell’editoria, nei grandi mezzi di informazione, sollecitando in ciascuno di questi campi l’impegno democratico delle forze intellettuali, nel rispetto della loro autonomia. La battaglia sul fronte culturale ha la sua massima importanza in relazione agli orientamenti delle nuove generazioni, che si trovano più facilmente esposte a sollecitazioni irrazionali. Naturalmente ciò dipende innanzitutto dalla collocazione oggettiva, dal carattere precario ed incerto che assume l’inserimento dei giovani nella società e nell’attività produttiva.
Su questo terreno oggettivo crescono posizioni di rifiuto generalizzato, di individualismo estremo, e anche di culto per la violenza. Quanto possa essere pericolosa e densa di conseguenze negative questa situazione di distacco, di separazione di vasti strati giovanili rispetto ai valori di progresso democratico di cui è portatore il movimento operaio, è a tutti evidente. Vi è la minaccia di un generale arretramento e di uno sbandamento profondo. E tuttavia non possiamo accettare giudizi di frettolosa e moralistica condanna, perché in tutto questo movimento confuso vi è anche, indubbiamente, una spinta positiva a ricercare in modo nuovo, fuori dai miti e dai luoghi comuni, il proprio avvenire. La saldatura con le nuove generazioni richiede quindi una penetrazione culturale maggiore, uno sforzo di ricerca, un’attitudine critica che ci metta in grado di lasciar cadere tutto quanto vi possa essere di ossificato anche nella nostra cultura e nel nostro modo di pensare. Non servono la retorica e l’appello volontaristico, ma si richiede un uso aperto e misurato della ragione, che inviti alla ricerca, all’esame oggettivo della realtà, all’individuazione delle possibilità che possono essere dischiuse, nella vita collettiva come in quella individuale.
In sostanza, il movimento che è necessario compiere è quello che conduce dall’ideologia alla politica, ovvero, per usare un’espressione classica, dall’utopia alla scienza. Questa necessità si pone per le forze che si nutrite dei miti dell’estremismo ‘e che ora, se non vogliono sboccare nell’avventurismo e nella provocazione, debbono appunto riproporsi il problema della politica in termini più realistici. Così, analogamente, le forze di orientamento cattolico possono svolgere un ruolo positivo se non si mettono nel vicolo cieco dell’integralismo religioso, se alla politica, che è il terreno del confronto e della ricerca di una possibile convergenza tra diverse. Se non si compie questo processo, ritorno a un clima di intolleranza e verso i diversi movimenti che si sviluppano realtà sociale, noi dobbiamo quindi svolgere, come politico, un’azione che indirizzi questi movimenti, nella loro autonomia e particolarità, ad un rapporto con la vita politica, con gli istituti democratici, con le grandi forze popolari organizzate, perché solo così possono esercitare una funzione reale e contribuire alla trasformazione della realtà.
Il movimento delle donne, ad esempio, che ha avuto negli ultimi anni uno sviluppo nuovo ed originale, si è trovato di fronte concretamente a questa questione, all’esigenza di correggere la tendenza ad una posizione separata, ad una concezione chiusa della problematica femminile. L’azione di rottura e di sollecitazione critica condotta dai gruppi femministi ha avuto indubbiamente una funzione, a condizione però che il movimento non si fermi al livello della denuncia, ma sia in grado di costruire un’azione organizzata e duratura sul terreno politico. La questione femminile è infatti un problema di carattere politico generale, che riguarda tutto il complesso dell’organizzazione della soci età, che richiede quindi interventi concreti in una pluralità di direzioni: nel mercato del lavoro, nella formazione professionale, nell’organizzazione dei servizi, e così via. Una visione settoriale non aiuta ma anzi r allenta il processo di emancipazione.
Più in generale, tutta la tematica dei movimenti autonomi di massa deve essere ricondotta entro una visione politica unitaria. Un modello di società che sia basato su un sistema rigido di autonomie, su un complesso di comunità chiuse ed autosufficienti, condurrebbe inevitabilmente ad un sistema di tipo corporativo, nel quale i partiti politici si riducono a svolgere una funzione di mediazione e di regolamentazione equilibrata delle tensioni sociali. Per questo, lo sviluppo dei movimenti di massa richiede uno sbocco politico e pone la questione del modo di essere e dell’iniziativa del partito politico.
Il problema fondamentale che il nostro partito ha dovuto affrontare negli ultimi anni è quello della piena assunzione di una capacità dirigente. È questo il compito nuovo e impegnativo che ci è stato posto con urgenza dagli sviluppi della situazione politica e dall’espansione della nostra area di consenso elettorale. Questo passaggio non è stato facile, ed è del tutto comprensibile che si siano dovuti scontare difetti di impreparazione. All’attenzione dell’attuale congresso deve essere riproposto con forza questo problema, in tutta la sua dimensione, ed è questo il necessario filo conduttore dell’analisi che deve essere compiuta dello stato del partito e del lavoro realizzato in quest’ultimo periodo. A questo esame ci dobbiamo accingere con spirito critico, con tutta la severità necessaria.
Ma è essenziale aver chiaro il metro di giudizio che deve essere usato: dobbiamo cioè esaminare in quale misura il partito ha saputo essere forza di direzione nel complesso della società milanese, in quale misura ha retto ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità. Per questa ragione sono di scarso aiuto e finiscono per essere devianti quelle considerazioni critiche che hanno come punto di riferimento il passato, il ruolo di opposizione che abbiamo esercitato, lo stile di lavoro che allora ci ha contraddistinto. Guardare al passato e alla tradizione non è il requisito che si richiede ai comunisti.
La questione a cui dare risposta è invece quella che riguarda la possibilità e i modi di una nostra avanzata come forza di governo e di trasformazione. È questa la lotta in cui siamo impegnati. In questo quadro si pongono numerose e complesse questioni, in quanto, come è ben noto a ciascuno di noi, non c’è direzione politica senza una capacità di elaborazione, di rapporto con la società, di organizzazione del consenso, di risoluzione pratica dei problemi. Si dice talora, con un’espressione abbastanza infelice, che il partito si è appiattito sulle istituzioni. Se con ciò si vuol dire che abbiamo dato troppo peso ed importanza ai problemi dell’amministrazione e del governo locale, si tratta allora di un giudizio inaccettabile ed errato. Sarebbe stato davvero curioso che dopo il 15 giugno non avessimo affrontato con il dovuto impegno questo ordine di problemi, e dobbiamo piuttosto domandarci se, dopo l’euforia del risultato elettorale, c’è stata in tutto il partito la consapevolezza sufficiente della portata compiti nuovi che dovevano essere assunti. Che senso allora parlare di “appiattimento”? Un tale giudizio ha solo l’effetto di accentuare i ritardi del partito, di offuscare la novità dei problemi che ci stanno di fronte.
In sostanza, dietro questa teoria sta il convincimento che nell’azione amministrativa non si possono ottenere risultati di effettivo rinnovamento, e che pertanto il partito debba assicurarsi una sua autonomia ideale e affidare la sua forza di massa non al lavoro che sa svolgere nel presente, ma piuttosto alla promessa di un futuro indefinito rivolgimento. Una tale scissione tra il presente e la prospettiva è la negazione del carattere di fondo che il nostro partito ha assunto come forza positiva, capace di affrontare e di risolvere i problemi reali del paese e delle classi lavoratrici. Ovviamente si pone anche un problema di autonomia dell’azione del partito, in quanto esistono altre forze con le quali collaboriamo nell’azione di governo, e quindi la nostra linea programmatica non può essere pienamente espressa all’interno degli accordi unitari, e perché, più in generale, la nostra azione dirigente si svolge su un piano più ampio di quello amministrativo.
Ma, appunto, si tratta di una autonomia che sollecita e richiede un impegno maggiore del partito, e che non può significare una rinuncia alle nostre responsabilità, una presa di distanza dalle questioni di governo. L’ azione autonoma del partito deve essere l’esplicazione, in tutti i campi, di una funzione dirigente, il che comporta anche un rapporto con le nostre delegazioni nelle giunte e con i gruppi consiliari che non sia di delega, ma che si basi invece sul confronto permanente, sulla verifica, sull’ assunzione comune delle scelte di indirizzo politico. L’azione amministrativa è infatti insufficiente se non si inquadra in un’iniziativa politica di più vasto respiro che sia sorretta dall’azione di massa e dalla mobilitazione del partito. E allora occorre valutare secondo questo criterio l’azione di governo che abbiamo svolto, nella convinzione che sta qui, non altrove, il banco di prova del nostro lavoro. La discussione sul partito di lotta e di governo ha significato solo in questo quadro. Se i due aspetti del problema sono separati o contrapposti, allora non saremo né l’una cosa né l’altra, – saremo capaci solo di una linea politica confusa e stentata.
La necessaria riconversione del partito come forza di direzione e di governo implica, in primo luogo, una più elevata e puntuale capacità di elaborazione. Non ci possiamo accontentare di indicazioni generiche, ma dobbiamo prendere posizione in modo preciso su un arco assai vasto di questioni ed avere tutta la chiarezza necessaria nella definizione delle nostre proposte. Per ottenere questo risultato è necessario che il dibattito all’ interno degli organismi dirigenti del nostro partito acquisti una maggiore concretezza, che le riunioni siano convocate per decidere, che le opinioni diverse si confrontino e che siano chiare ed impegnative per tutti le conclusioni operative che datale confronto risultano. Lo sviluppo della democrazia interna è un’esigenza che si pone nel senso di una maggiore operatività e chiarezza delle decisioni: non è questione di una generica partecipazione, ma di un corretto funzionamento degli organismi e delle loro prerogative. Ma, soprattutto, la questione da affrontare è quella che riguarda il rapporto del partito con la società, i suoi canali di comunicazione, gli strumenti di cui dispone per esercitare un’influenza e per organizzare un’azione politica di massa.
Noi disponiamo di una rete organizzativa vasta e capillare, costituita dalle 470 sezioni territoriali, di fabbrica e di categoria; e disponiamo soprattutto di migliaia di quadri e di attivisti che danno al partito, con dedizione e disinteresse, il loro contributo di lavoro, il loro impegno di lotta. È questo il nostro elemento di forza rispetto a qualsiasi altro partito politico. È questa “macchina organizzativa” che ci ha consentito di reggere nelle situazioni più difficili e di raggiungere le posizioni attuali. Mentre altri partiti debbono affidare il loro rapporto con la società ai mezzi di informazione di massa e alle campagne pubblicitarie, noi possiamo invece far leva sullo sviluppo di un grande lavoro organizzato e capillare. La sezione è lo strumento politico fondamentale per tutto il nostro lavoro. Dobbiamo partire da questa convinzione, e su questa base costruire una adeguata politica organizzativa. È la sezione il tramite del nostro collegamento con la società, lo strumento che realizza praticamente la linea politica del partito e che la verifica alla luce della realtà, nella concretezza dei rapporti politici e di classe. Nel momento in cui il partito assume compiti di direzione, anche il lavoro delle sezioni deve essere portato ad un livello più alto, e deve essere misurato con il metro della capacità di governo, della funzione dirigente che in tutti i campi dobbiamo proporci di realizzare. È questo il cammino da percorrere, lo sforzo che a tutto il partito viene richiesto. La sezione, pertanto, deve divenire un organismo politico più vivo, attento a tutti gli aspetti della realtà, capace di relazioni con tutte le forze reali della società, un centro di iniziativa politica e non solo di propaganda.
È questo il carattere del “partito nuovo” configurato da Togliatti, che acquista oggi nuova attualità. «Partito nuovo è un partito della classe operaia e del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con un’attività positiva e costruttiva. La classe operaia, abbandonata la posizione unicamente di opposizione e di critica che tenne nel passato, intende oggi assumere essa stessa, accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico. Partito nuovo è il partito che è capace di tradurre in atto questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla in atto attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione». A questo orientamento dobbiamo oggi ispirarci per affrontare problemi del partito e della sua organizzazione.
Perché la sezione corrisponda pienamente a questa esigenza occorre, da un lato, esaminare il suo modo di il suo stile di lavoro, adeguare i suoi strumenti, dotarla dei mezzi necessari, e occorre inoltre che tutto il lavoro del partito abbia effettivamente la sezione come sua base fondamentale. La formazione di organismi intermedi non deve avvenire a detrimento del ruolo delle sezioni, e soprattutto è necessario che il maggior numero possibile di quadri mantenga un rapporto stretto con la sezione, che si ponga fine a quella tendenza per cui nell’esperienza politica dei compagni la sezione è solo un apprendistato, in attesa di altre e diverse responsabilità. Con il congresso dobbiamo compiere una scelta chiara di politica organizzativa, e da essa trarre tutte le conseguenze necessarie.
L’ obiettivo è quello di potenziare le nostre strutture di base, di ricostruire una rete capillare di cellule, di estendere l’attivizzazione dei compagni, di ripristinare pienamente lo stile di lavoro basato sull’attivismo organizzato e sul collegamento di massa. Una realtà sociale come quella in cui oggi ci troviamo ad operare richiede, evidentemente, forme nuove di iniziative di propaganda. Anche il nostro partito deve adeguare i propri strumenti, utilizzando tutte le possibilità nuove di comunicazione. Ma ciò che dobbiamo rifiutare è la tendenza al partito d’opinione, alla democrazia manipolata e illusoria che si affida soltanto al messaggio dei grandi mezzi di informazione e che annulla ogni momento di partecipazione reale. Anche da questo punto di vista noi siamo una cosa diversa dalle altre formazioni politiche, e questa diversità è una delle ragioni della nostra forza.
La nostra organizzazione, dopo aver raggiunto il massimo della sua espansione nel ‘76, ha subìto negli ultimi due anni un calo degli iscritti, e tuttora registra difficoltà, soprattutto nel reclutamento di nuove forze. Vi sono difetti organizzativi che possono e debbono essere corretti con tempestività. Già nel corso del tesseramento di quest’ anno la più accurata attenzione per i problemi di organizzazione ha consentito di recuperare numerosi iscritti. Ma lo sforzo maggiore deve essere dedicato alle difficoltà e ai ritardi di ordine politico, che in modo particolare riguardano il nostro rapporto con le nuove generazioni e lo sviluppo della nostra iniziativa verso gli strati sociali del ceto medio.
La FGCI ha compiuto recentemente la scelta di una riforma organizzativa, puntando ad essere un’organizzazione di massa, aperta alle molteplici esigenze del mondo giovanile, e a consolidare così una sua collocazione autonoma rispetto al partito. Si tratta di una scelta giusta, che va incoraggiata e sostenuta. Nella realtà milanese la FGCI ha conquistato un ruolo politico di rilievo, è stata al centro dell’iniziativa e del movimento della gioventù, confrontandosi apertamente con le altre forze e dimostrando un’autonoma capacità di mobilitazione. Soprattutto sulle questioni di politica internazionale, l’iniziativa dei giovani comunisti è stata il punto di riferimento unitario per le forze democratiche: nella solidarietà con i popoli oppressi, nel sostegno alla lotta del popolo iraniano, e oggi nella lotta per la pace e per la distensione. È però necessario che tutto il partito dia prova di un impegno, nuovo e straordinario, per affrontare le questioni del mondo giovanile, i problemi del lavoro e dell’occupazione, quelli della scuola e dell’organizzazione civile, quelli dell’orientamento ideale e del dibattito culturale. Per un partito rivoluzionar io, il rapporto con la gioventù e la capacità di organizzar e la parte più avanzata e combattiva delle nuove generazioni sono condizioni essenziali, e nulla deve essere trascurato per superare le difficoltà e per ridare slancio alla nostra iniziativa. Soprattutto in questo campo ogni errore di chiusura e di settarismo è particolarmente deleterio. Dobbiamo essere pronti a discutere e a confrontarci senza dogmatismi, senza paternalismo, cogliendo tutto quanto vi può essere di slancio autentico e di passione politica nell’esperienza delle nuove generazioni, nel loro travaglio, nella loro ricerca.
Per quanto riguarda la seconda questione, dobbiamo registrar e il fatto che il nostro lavoro verso i ceti intermedi è ancora episodico, che manca un ‘attività organizzata, un impegno generale del partito. All’enunciazione della strategia delle alleanze non corrisponde un lavoro adeguato, e non solo per le difficoltà oggettive, ma anche per una sottovalutazione politica, per il permanere di posizioni di diffidenza e di settarismo. L’ iniziativa politica verso i ceti medi, soprattutto nella città, richiede anche l’organizzazione di centri d’iniziativa, di carattere economico e culturale, che funzionino come sedi di elaborazione e di confronto. Vi sono infatti forze rilevanti che, pur escludendo la scelta della milizia politica, sono disponibili ad un rapporto con il nostro partito, ad un confronto, e che ricercano quindi le sedi e le occasioni per una migliore conoscenza della nostra politica e per dare ad essa il loro contributo autonomo di elaborazione.
In questa direzione dobbiamo assumere nuove iniziative, rivolgendoci in particolare alle forze dell’intellettualità tecnica, ai dirigenti industriali e ai professionisti, che sono parte cospicua della realtà sociale milanese, e che possono trovare nel rapporto con il movimento operaio una possibile riqualificazione del loro ruolo sociale.
Una tendenza positiva e invece in atto per quanto riguarda la presenza delle donne nel partito e la loro partecipazione all’attività politica. Vi è qui la possibilità di realizzare nuovi sensibili progressi, in quanto esiste una maturazione politica che riguarda grandi masse, nel passato escluse dalla vita politica e oggi consapevoli di poter assolvere ad un ruolo e di doversi impegnare per l’acquisizione piena di una posizione di dignità e di parità nel complesso della vita sociale. È un movimento profondo, di importanza storica, che muta profondamente la fisionomia della società italiana. Sta ormai tramontando definitivamente il modello di civiltà basato sulla sottomissione della donna, sul suo ruolo servile, sulla sua posizione di passività. Ciò ha una importanza rilevantissima per il processo di trasformazione della società, e assume pertanto un valore strategico nell’azione del nostro partito, che deve essere, a tutti gli effetti e senza incertezze di sorta, in prima fila nella battaglia per l’emancipazione femminile e per l’abbattimento di ciò che fa ostacolo, nella realtà oggettiva e nei comportamenti individuali, al pieno dispiegamento di questo processo.
Tutto questo deve riflettersi nella vita interna del partito, dando alla presenza femminile un rilievo di primo piano, non solo nel necessario lavoro differenziato, ma nell’insieme complessivo della nostra iniziativa politica, ad ogni livello.
Abbiamo insistito sulle nuove responsabilità di governo del partito, sull’ elevamento di capacità e di qualità del nostro lavoro che da questa nuova collocazione discendono. La classe operaia deve essere protagonista di questa politica, deve assumere pienamente un ruolo di direzione nel complesso della vita del paese, e deve quindi in primo luogo essere la forza fondamentale del nostro partito. A Milano la nostra organizzazione ha mantenuto una fisionomia di classe, pur nel quadro di una visione aperta, non operaistica, e di un progressivo allargamento dell’influenza del partito. Vi è una rete solida di organizzazioni di fabbrica che può ulteriormente estendersi, e che soprattutto deve esercitare nei luoghi di lavoro una funzione di primo piano, conquistando pieno diritto di cittadinanza e affrontando nella loro complessità i temi del rinnovamento economico e politico del paese. L’organizzazione politica nella fabbrica, non solo per noi ma per tutti i partiti che abbiano un legame con i lavoratori, è un risultato a cui dobbiamo tendere con il massimo impegno, elaborando un complesso di proposte concrete che possano regolare l’esercizio dei diritti politici nei luoghi di lavoro. E inoltre deve essere proseguito lo sforzo, politico e organizzativo, per un collegamento tra fabbrica e territorio, per saldare l’iniziativa del partito in una visione unitaria al centro della quale stia il ruolo dirigente della classe operaia.
La situazione politica in cui ci troviamo è impegnativa e richiede una mobilitazione di tutte le nostre forze. Quali che possano essere gli sviluppi della vicenda politica immediata, è necessario che nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, venga organizzata una grande campagna di massa, che ovunque vengano predisposte iniziative per illustrare le posizioni politiche del partito. Deve essere sventata e respinta la manovra di chi, deformando i fatti e capovolgendo il senso reale delle cose, cerca di attribuire le ragioni della crisi all’irrigidimento dei comunisti. In realtà, come è evidente, si cerca da parte della Dc e delle forze conservatrici di determinare una situazione di isolamento del nostro partito e di liquidare la politica di unità nazionale. D’altra parte, la gravità della situazione internazionale, i pericoli di allargamento dei conflitti ·in corso richiedono con urgenza una vasta ed unitaria mobilitazione per la difesa della pace e della coesistenza.
Il nostro congresso si deve chiudere pertanto con un impegno di lavoro, che deve essere immediatamente predisposto da tutte le nostre organizzazioni. Ciò non ci impedirà di discutere in modo approfondito, di prendere in esame le questioni di carattere generale e d’impostazione strategica che sono parte del progetto di Tesi. Aver chiara la prospettiva è una delle condizione per affrontare in modo corretto, con sicurezza di giudizio, i problemi del presente ed i compiti di lavoro immediati.
Nell’organizzazione dei nostri lavori congressuali una funzione importante spetta alle commissioni, che potranno approfondire i diversi aspetti della nostra linea politica e assicurare anche una più ampia partecipazione dei delegati. In ogni caso dovremo giungere a decisioni chiare, a direttive politiche precise. Ciò è assolutamente necessario per affrontare la situazione attuale e per prepararci alle scadenze che ci attendono. Il nostro partito ha saputo, in questi anni, portare avanti in modo originale la propria elaborazione e su questa base ha conquistato una posizione di grande prestigio nella vita politica nazionale. Si illude chi pensa di poter cancellare questo dato della situazione italiana. Noi guardiamo alle prospettive con una fiducia ragionata, e soprattutto con un rinnovato impegno di lavoro.
La presenza ed il contributo dei comunisti sono necessari per portare il paese fuori dalla crisi e per avviarlo verso una prospettiva di rinnovamento; a questo noi lavoriamo con la pazienza e la tenacia di chi è sicuro delle proprie ragioni. Questa fiducia ci viene dal fatto che guardiamo alle cose con intelligenza critica, e soprattutto dal rapporto che abbiamo con le grandi masse, dalla verifica politica che questo rapporto ci consente in ogni momento di realizzare. Se sappiamo unire l’intelligenza politica e l’azione di massa resteranno disarmati e delusi i teorizzatori del nostro logoramento.
«La teoria si trasforma in forza materiale non appena penetra tra le masse». Su entrambi i fronti chiediamo al partito un impegno eccezionale: il rigore dell’analisi, la spregiudicatezza della ricerca, la passione intellettuale, e, insieme a ciò, il lavoro di massa, la mobilitazione quotidiana, l’organizzazione instancabile della lotta per lo sviluppo democratico e per la trasformazione socialista, in Italia ed in Europa.
Busta: 14
Estremi cronologici: 1979, 8 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Volume, b/n, ill., 819 pp.
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: Gianfranco Petrillo (a cura di), “I congressi dei comunisti milanesi. 1921-1983”, Franco Angeli, 1986, pp. 601-653