XIX CONGRESSO DELLA FEDERAZIONE MILANESE DEL PCI

Atti del XIX congresso della federazione milanese del PCI

Con un intervento di Riccardo Terzi, della segreteria della CGIL Lombardia

In questo nostro congresso sono aperti interrogativi e problemi di eccezionale difficoltà. Abbiamo alle spalle una stagione assai travagliata, segnata da alcuni gravi insuccessi politici del partito in cui bisognerà analizzare più a fondo le ragioni, senza rifuggire dalle necessarie considerazioni autocritiche. E, soprattutto, è posta in questione lo prospettiva politica della sinistra e del movimento operaio per le profonde trasformazioni che stanno avvenendo su scala nazionale e mondiale e per lo dura offensiva di destra che tende a colpire, non solo le conquiste sociali, ma i valori ideali sui quali lo sinistra ha costruito le proprie basi di consenso. C’è bisogno per questo di un congresso che sia guidato da uno spirito di ricerca e di sperimentazione. Il pericolo maggiore è l’inerzia burocratica, lo ripetizione passiva di formule e di ideologismo ormai svuotati di senso. Misurando con questo metro il nostro dibattito congressuale io avverto uno scarto, un ritardo, lo mancanza di una discussione radicale che faccia i conti con le radici della crisi che attraversa lo nostra politica. Le tesi approvate dal Comitato centrale si muovono lungo una linea di consolidamento di riconferma, quasi ignorando il fatto che siamo stati spinti alla decisione inusitato del congresso anticipato; né questo limite viene superato dagli emendamenti che sono stati resi pubblici. Il fatto che si sia concentrata l’attenzione, anche sulla nostra stampa, intorno all’esito di questi emendamenti non ha certo giovato a far decollare un vero dibattito politico. Il punto più fecondo delle tesi sta nella dichiarazione per lo prima volta, così esplicita, di una nostra collocazione come parte integrante della sinistra europea. Questa affermazione libera il campo da antiche barriere ideologiche e porta il dibattito al cuore del problema, al destino della sinistra nei paesi capitalistici sviluppati, alla necessità, quindi, di ridefinire una identità politica, un insieme organico di obiettivi, una risposta programmatica forte e coerente alle strategie neoliberistiche. A questa posizione politica deve corrispondere una prassi conseguente: lo ricerca sistematica di forme e sedi di confronto e di elaborazione politica comune fra le forze della sinistra democratica in Europa. Sono presenti e attive molte spinte che vorrebbero deviarci da questa rottura e che tendono a rimettere in discussione le posizioni politiche che abbiamo conquistato negli ultimi anni. È importante chiarire per questo come ci atteggiamo di fronte alle importanti novità che sono emerse nella politica del nuovo gruppo dirigente sovietico. Si sta tentando un processo di modernizzazione della società sovietica, di superamento della stagnazione burocratica che ha caratterizzato il periodo precedente. Se è miope e insensato negare queste novità e gli effetti positivi che esse possono determinare sulla politica mondiale, sarebbe però altrettanto sbagliato affrettarsi in una manovra precipitosa di ritirata dalle posizioni di principio che abbiamo assunto, perché i problemi di fondo strutturali sono ancora tutti sul tappeto e non basta il dinamismo e l’intelligenza di un leader a ricomporre un dissenso che non era e non è contingente. Quando abbiamo posto lo famosa questione della spinta propulsiva, abbiamo espresso un giudizio sulla capacità di quel sistema politico e sociale di agire come punto di riferimento dinamico per l’insieme delle forze progressive nel mondo; e davvero non c’è motivo per ribaltare questa posizione. Per questo, non solo giudico non condivisibili alcuni emendamenti, ma vorrei esprimere una riserva sostanziale sulla posizione che ha tenuto lo nostra delegazione al congresso del PCUS e su alcune dichiarazioni di sostegno incondizionato al nuovo corso sovietico che sono state espresse dal compagno Pecchioli. Ma il punto politico su cui, in particolare, vorrei che si impegnasse il nostro dibattito, è quello della proposta politica e di governo che noi oggi dobbiamo prospettare al paese. Non risolviamo questo problema con l’invenzione di formule che appaiono tutte poco convincenti e poco praticabili. Francamente, lo discussione sul governo di programma o sul governo costituente mi sembra esser del tutto nominalistica, disancorata dalla realtà, non commisurata ai processi reali che stanno avvenendo. Davvero pensiamo di esser alla vigilia di un nostro ingresso nell’area di governo e che si tratta ormai soltanto di definirne le modalità o di concordare i punti programmatici su cui costruire un’intesa politica? Se c’è un pericolo di destra all’interno del partito, io lo vedo qui in questa vocazione governativa fine a se stessa. Il fatto che i rapporti di forza e di potere si sono spostati, che il movimento operaio è stato costretto sulla difensiva, che è stato sconvolto il tessuto unitario nel movimento di massa e nel governo locale e c’è dunque un lavoro preliminare di ricostruzione e di rilancio di una nuova unità e solidarietà di classe, come base oggettiva da cui partire per ridare fiato all’azione politica della sinistra. Per questo considero più realistico, più produttiva, più capace di suscitare iniziative e movimenti-reali una proposta di alternativa che sia prospettata limpidamente senza subordinate tattiche. L’essenziale è tener ferma una prospettiva di fondo; lo costruzione di un assetto di potere nuovo, antagonistico al sistema politico imperniato sulla centralità e sull’egemonia del partito democristiano; sulla disponibilità a verificare senza-rigidità quali possono esser i passaggi e le tappe intermedie.

Le stesse tensioni presenti nella maggioranza di governo e le riflessioni nuove che affiorano nel PSI dimostrano che il problema di un nuovo assetto politico è virtualmente aperto, anche se è impossibile oggi anticipare i modi e i tempi che potrà avere questo processo. Mi rendo conto che anche queste formule di alternativa, unità della sinistra, rischiano oggi di esser logore. Non servono a molto, se sono usate come predicazioni, se non si traducono in un programma di lavoro concreto, se non si individua un preciso terreno di lotta. Finché restiamo nell’ambito della politica pura, rischiamo di muoverci in un circolo vizioso, in quanto un partito come il nostro può pesare politicamente solo in quanto esprime un movimento reale che riesce ad attivare le forze dinamiche e progressiste della società italiana. Ridefinire l’alternativa vuoi dire esattamente questo, cogliere la dinamica delle forze in campo, l’evoluzione dei rapporti di classe, individuare i punti di scontro oggi decisivi sui quali concentrare la nostra iniziativa, per realizzare concretamente una dislocazione più avanzata degli equilibri politici. È indicativo, a questo proposito, quanto è avvenuto nel campo sindacale. Dalla rottura dello scorso anno fino al recente congresso della CGIL. A me sembra che questo congresso abbia segnato un punto di svolta, abbia davvero posto le condizioni per uscire dalla crisi, ma questo è avvenuto perché non ci si è limitati a predicare l’unità, ma si è compiuto uno sforzo impegnativo di innovazione delle politiche sindacali, delle analisi dei cambiamenti, di ricostruzione di un fronte di lotta a partire dai luoghi di lavoro. Ciò può aver effetti politici assai importanti e positivi e già se ne vedano i primi segni. Anche la nostra discussione congressuale sulla questione sindacale non può che partire da-questi fatti nuovi, senza indugiare oltre su forzature critiche che sarebbero oggi ancor meno comprensibili e apparirebbero come un tentativo fuori tempo di imporre al sindacato una tutela dall’esterno o come una scelta di linea tutta agitatoria che si rifiuta di fare i conti con la complessità politica e sociale del mondo del lavoro. Sul piano politico abbiamo la stessa esigenza: la necessità di ridefinizione dei fini e del blocco di forze sociali a cui ci indirizziamo. Un programma essenziale che non sia l’elenco generico delle cose auspicabili, ma la scelta di precise discriminanti. La prima essenziale condizione per l’alternativa è la capacità nostra di fissare priorità, coerenze e render chiara la nostra immagine di grande forza riformatrice ed è su questo terreno, invece, che abbiamo registrato oscillazioni ed incertezze. In alcuni casi una prudenza eccessiva, in altri una tendenza a rincorrere discutibili spinte corporative, come è accaduto sulla legge Visentini e sul condono edilizio e su molti temi come, ad esempio, su quello della riforma istituzionale abbiamo la più completa confusione delle linee. Allora che senso ha l’enfasi copernicana sui programmi, se nemmeno tra di noi è chiaro di quale programma si tratta. C’è dunque un’opera vasta, difficile, di elaborazione politica e programmatica che è necessaria per ridare vigore, forza e credibilità alla politica di alternativa democratica. Ma perché il partito si impegni con slancio in questo lavoro bisogna dire con chiarezza che siamo a un passaggio critico, che dobbiamo avere la capacità di rimetterci in discussione e bisogna creare le condizioni per un confronto interno che sia davvero libero aperto, senza impacci e senza preclusioni. Non è ancoro così, a mio giudizio, nonostante i passi in avanti compiuti. Anche nelle tesi registriamo la sovrapposizione di due piani di discorso non coincidenti: da un lato il riconoscimento della legittimità del dissenso, del valore che ha la presenza nel partito di una pluralità di idee, di culture, di contributi; dall’altro l’affermazione che la vita interna del partito si regge sul principio dell’unità, introducendo così una formula nuova che reinterpreta e in sostanza rafforza l’idea del centralismo democratico. L’unità non può essere un principio, un valore aprioristico, ma solo il risultato auspicabile, ma non obbligato, di un confronto pluralistico aperto. Ma soprattutto resta, al di là delle formule, dei documenti politici ufficiali, una costituzione materiale, un insieme di regole non scritte, ma operanti, che limitano la democrazia di partito e la costringono entro vincoli rigidi. Ciò fa sì che il principio dell’unità si risolva nel principio della incensurabilità dei gruppi dirigenti. Vorrei essere inteso bene su questo punto, che so essere per tutti noi un punto delicato; io non ho nessun proposito di contrapposizione, di critica astiosa e pregiudiziale, ma mi domando, se al partito serve una unità fragile, compromissoria o se non sia invece più proficua una discussione di verità, di chiarezza, se non sia oggi necessario scavare in profondità dentro di noi, dentro questo corpo politico, così vario e complesso che noi oggi siamo, per ritrovare insieme le ragioni dell’unità del partito e anche della solidarietà fra compagni, in un confronto politico schietto senza sotterranee faziosità. Se non risolviamo questo problema, se non costruiamo nel partito condizioni nuove, perché tutti senza esclusione alcuna possano sentirsi partecipi delle decisioni politiche, noi rischiamo che si moltiplichino fenomeni silenziosi di abbandono e di disimpegno; o peggio rischiamo di allevare la generazione pavida di calcolatori che ogni volta commisurano i comportamenti alle convenienze. Con il congresso, possiamo dimostrare la piena maturità democratica del partito e questa è una condizione indispensabile, non solo per migliorare il regime interno, ma per poter parlare con più forza e più prestigio alla società italiana, per essere pronti a cogliere tutti gli elementi di cambiamento che in essa maturano. Non sarà un buon congresso se ci dovessimo limitare a ratificare decisioni già prese, perché nessuno può negare che abbiamo molti problemi da approfondire, molte incertezze da chiarire. La vitalità di un congresso si misura da questo, dalla capacità di una discussione non diplomatizzata, non burocratica. Questo, compagni, dipende solo da noi.


Numero progressivo: V11
Busta: 20
Estremi cronologici: 1986
Autore: AA. VV.
Descrizione fisica: Volume, b/n, 353 pp.
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Atti del XIX congresso della Federazione milanese del PCI”, pp. 162-165