VERSO LA CIVITAS DEI
La chiesa di Benedetto XVI
di Riccardo Terzi
Nel momento in cui la questione religiosa è tornata a essere centrale nel dibattito e nello scontro politico, sollevando una nuova ondata di integralismo più o meno strumentale, può essere utile la lettura dell’ultima enciclica di Benedetto XVI, Spe salvi, per cercare di cogliere dall’interno qual è il punto di vista della Chiesa e quale il tragitto su cui intende camminare.
Credo che molti resteranno un po’ smarriti e delusi, sia quanti hanno scelto strumentalmente la Chiesa cattolica come l’avamposto di una nuova crociata contro la razionalità moderna e contro lo spirito di libertà che essa ha prodotto, sia quanti vorrebbero trovare la conferma di una svolta oscurantista compiuta col nuovo pontificato e di un attacco frontale alla laicità dello Stato. L’enciclica non conferma né smentisce queste interpretazioni, perché essa si muove su un terreno essenzialmente religioso, e il problema che si pone è quello della salvezza cristiana, del destino e delle prospettive della fede nel mondo moderno. La politica sta solo sullo sfondo, come un contesto di inevitabile contingenza e provvisorietà, che resta comunque estraneo alla dimensione religiosa della vita.
In questo senso, non si può affatto parlare di integralismo, perché fede e politica stanno su due diversi piani, e il loro incontro resta occasionale. Ci possono essere convergenze, ma non mai una piena aderenza dell’una sfera all’altra. Non ci può essere dunque una politica cristiana, né è mai possibile tradurre la fede in un sistema strutturato e definito di norme politiche. Mentre l’integralismo è l’idea che la religione è il fondamento certo dell’intera vita civile, l’enciclica fa l’operazione opposta, avendo cura di tenere ben distinti i due piani. «La società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria, essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata». Il movimento della fede è quindi qualcosa che trascende tutte le condizioni date, che si proietta oltre la trama della materialità storica, ed è solo in questa capacità di “andare oltre” che si può rintracciare l’autentico spirito cristiano, il quale non può mai essere pienamente riconciliato con il mondo.
Partendo da questa impostazione, la critica che viene rivolta alle varie dottrine politiche moderne, dall’illuminismo al marxismo, non riguarda tanto il loro contenuto concreto, quanto piuttosto il fatto che esse restano totalmente calate nell’immanenza del mondo, e cercano di dare una risposta terrena a quella fondamentale speranza di giustizia che solo in una prospettiva religiosa può trovare la sua adeguata realizzazione. Il messaggio della Chiesa, nella sostanza, non è quello di opporre a una politica radicale una politica moderata, ma è quello di dire che ci sono domande alle quali la politica non può rispondere. È questo un punto molto importante, perché ciò che si critica non è la radicalità dell’azione politica, ma solo il fatto che essa ha preteso troppo dalle sue forze, e non ha fatto a sufficienza i conti con la più profonda dimensione dell’uomo in quanto soggetto di libertà, pensando che si potesse dare “liberazione” dell’uomo attraverso un intervento sulle strutture economiche e sulle istituzioni politiche, come se ciò fosse sufficiente a liberare l’umanità delle forze negative e distruttive che la attraversano. Condivisibile o no che sia questa critica, che è filosofica e non politica, l’importante è che la Chiesa non dice: tornate indietro, al vecchio ordine. Ma dice piuttosto: guardate oltre, oltre la dimensione del politico.
La preoccupazione della Chiesa è quindi quella di salvaguardare la sostanza del messaggio cristiano, e di rilanciarne la forza emotiva nel contesto, per molti aspetti ostile, di una società secolarizzata, che tende a rinsecchire la religiosità, trasformandola in un rito, in un adattamento passivo a norme di cui si è perduto il significato. Con ciò, è evidente, si apre anche un conflitto tra la Chiesa e la società moderna, tra il discorso religioso e il discorso politico, o per meglio dire si determina una situazione di permanente tensione e di sfida, perché la politica è svalutata alla radice come il campo del relativo, e il destino dell’uomo si compie solo nel momento in cui al relativismo del mondo subentra la certezza in una salvezza oltremondana.
Non a caso è Agostino il pensatore cristiano più citato nell’enciclica, il teorico della Civitas Dei, il più radicale nel pensare la salvezza cristiana come un atto di rottura con il mondo civilizzato, come un anelito verso qualcosa di ignoto, che trascende tutti i contenuti concreti della vita terrena. Il punto di vista cristiano è un rovesciamento di tutti i criteri mondani, a cui si oppone il bisogno indefinito e inconoscibile di un assoluto. «Non possiamo cessare di protenderci verso di esso e tuttavia sappiamo che tutto ciò che possiamo sperimentare o realizzare non è ciò che bramiamo. Questa “cosa” ignota è la vera “speranza” che ci spinge e il suo essere ignota è, al contempo, la causa di tutte le disperazioni come pure di tutti gli slanci positivi o distruttivi verso il mondo autentico e l’autentico uomo».
Se la Chiesa stessa riconosce che l’oggetto della fede è l’ignoto, che cosa possono obiettare i razionalisti? Si tratta di due piani diversi, che non possono né incontrarsi né scontrarsi, e ciascuno ha, al suo interno, la sua propria legittimazione. Si tratta dunque, a me pare, di un’enciclica che si muove in un ambito essenzialmente religioso, e in questo ambito non ho nessuna competenza per entrare. Saranno i cattolici a giudicare se essa corrisponde o no alle esigenze della religiosità nel mondo moderno.
Comunque, se è così, se questa interpretazione è fondata, siamo di fronte a qualcosa di sostanzialmente diverso da quell’impressione di invadenza clericale che molte recenti posizioni della Chiesa avevano suscitato. C’è qualcosa di nuovo, una più accentuata dimensione mistica dell’esperienza religiosa, non del tutto prevedibile in un teologo razionalista come papa Ratzinger. In questo contesto, non può sorprendere l’affermazione radicale che «chi non conosce Dio, in fondo è senza speranza», perché appunto qui si tratta solo di una riflessione intorno alla fede, e nell’ottica della fede ogni altro discorso, ogni altra verità parziale, ha in sé i germi del fallimento, perché non coglie ciò che è sostanziale. La fede ha sempre questa presunzione di infallibilità. Essa è fede proprio perché pensa di poter attingere alla verità per una via diversa e più diretta rispetto a tutti i procedimenti della normale umana razionalità.
Questi argomenti, ovviamente, possono convincere solo chi è già convinto. E questa enciclica parla agli uomini di fede, per rafforzarli nella loro identità, e indica quindi una Chiesa più preoccupata di difendere se stessa, la sua interna coesione, che non di estendere la sua influenza nel mondo.
Certo, resta da capire meglio il rapporto tra questa impostazione, tutta centrata sul recupero della religiosità, e le manifestazioni pratiche della gerarchia ecclesiastica, che tendono sempre più a invadere il campo della politica. La Chiesa resta come in bilico tra due possibili prospettive, tra la necessità di riattivare le sue sorgenti spirituali e la necessità, più terrena, di consolidare le sue posizioni di potere, e nei fatti è spesso questa seconda ragione a essere quella prevalente. C’è sempre tra queste due anime una complicata dialettica interna. L’enciclica, quindi, alla luce dei fatti e dei comportamenti concreti, non può essere interpretata come una effettiva svolta. Eppure essa contiene, in embrione, se la leggiamo senza preconcetti, alcune nuove possibilità e può aprire un nuovo orizzonte. In particolare, è interessante il modo in cui il tema della fede cristiana viene declinato dal punto di vista sociale.
La preoccupazione principale del pontefice è quella di contrastare una concezione individualistica della salvezza, come se si trattasse solo di un fatto personale e privato, ed egli insiste perciò, a più riprese, sul carattere comunitario e sociale della speranza. «La relazione con Gesù è una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi. L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere “per tutti”, ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri». L’individualismo sta corrodendo anche il corpo della Chiesa, e con ciò si perde e si deforma il significato della “salvezza”, la quale può essere data solo nella relazione con l’altro, nell’incontro e nell’apertura reciproca tra persone che si sentono come parti di una comunità. E la speranza cristiana – questa è la conclusione – è una speranza di giustizia, è la speranza in un riscatto, non individuale ma dell’intera collettività umana, che ponga fine alle ingiustizie del mondo.
Intorno a questo nodo cruciale della giustizia, si svolge nell’enciclica un dialogo sorprendente con l’ateismo, di cui si colgono le radici morali e il suo significato di protesta contro l’ingiustizia: «un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere non può essere l’opera di un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio». La “protesta contro Dio” ha una sua giustificazione, una sua motivazione etica. Naturalmente si tratta, per la Chiesa, di un moralismo deviato, che infine produce, con la sua presunzione di autosufficienza umana, nuove e più gravi sofferenze. Ma si riconosce che c’è un terreno comune, un comune fondamento morale, il quale consiste appunto nella necessità di costruire nel mondo un ordine giusto, nel non rassegnarsi al dominio della forza. «Io sono convinto» conclude Ratzinger «che la questione della giustizia costituisce l’argomento essenziale, in ogni caso l’argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna».
Dentro l’involucro di una rigida concezione religiosa, che intende la fede come l’unica possibile via di salvezza, dobbiamo cercare di vedere di quali contenuti e di quali materiali storici concreti si intende alimentare questa fede. E qui troviamo, nell’enciclica, alcuni spiragli interessanti, nel rifiuto dell’individualismo e nella centralità dell’idea di giustizia. Starà ai cattolici lavorare su questi spiragli, allargarli, trasformarli in un discorso più concreto e impegnativo, traducendo le affermazioni di principio in una pratica sociale conseguente. E sta a noi tutti creare le condizioni per un cammino convergente e non farci trascinare in una assurda guerra di religione.