UNA SOLITUDINE TROPPO RUMOROSA?
di Riccardo Terzi
La scelta del Partito Democratico di presentarsi da solo alle prossime elezioni ha una evidente efficacia tattica, sia perché essa consente di valorizzare il profilo originale della nuova formazione politica, rendendo pienamente visibile la sua forza innovativa, sia perché abbiamo alle spalle l’esperienza disastrosa di una alleanza estremamente frammentata e sempre in bilico, che doveva affrontare ogni passaggio politico con una complicatissima mediazione interna. Nel momento in cui quell’equilibrio faticoso si è infine spezzato, non si può pensare di rimetterlo in piedi e non si possono certo vincere le elezioni riproponendo una formula ormai logorata.
C’è l’eccezione dell’accordo elettorale con il movimento di Di Pietro, ma questo non cambia la sostanza, anche perché la prospettiva dichiarata è quella di una confluenza politica dopo le elezioni. Il Partito Democratico sta gettando le basi per una sua ulteriore espansione, per un coinvolgimento di nuove forze. In questa direzione è importante la presenza di esponenti radicali nelle liste elettorali del partito, così come, su un altro versante, lo spostamento di ampi settori della CGIL che al Congresso dei Ds avevano sostenuto la mozione di Mussi. Insomma, il nuovo partito sta prendendo forma e sta allargando i suoi consensi.
Ma se tutto ciò è chiaro e convincente sotto il profilo tattico, restano aperti molti interrogativi sul futuro del nostro sistema politico, di cui sarebbe bene cominciare oggi a discutere. Ciò che non convince è l’eccesso di enfasi con cui spesso viene motivata questa scelta solitaria. Si potrebbe dire, prendendo a prestito il titolo di uno straordinario libro di Hrabal: Una solitudine troppo rumorosa. Troppo rumorosa, perché esaltata oltre il suo significato contingente, come se fosse possibile, da ora in avanti, non occuparsi più di alleanze e di convergenze, come se tutto ciò fosse solo il retaggio di una vecchia politica. Quando Veltroni dice: ora siamo liberi, sento riaffiorare un antico integralismo di partito, l’idea che non si debbano mai fare compromessi e mediazioni. E ricordo la dura fatica che abbiamo dovuto sempre affrontare per tenere sotto controllo queste spinte all’autosufficienza, per arginare ciò che allora veniva chiamato settarismo. So bene che i contesti sono diversi, e non intendo attribuire a Veltroni uno spirito settario che gli è sostanzialmente estraneo. E tuttavia c’è sempre il rischio di mettere in moto un processo che poi ci sfugge di mano. Se si punta troppo sull’orgoglio di partito («boria di partito» la chiamava Gramsci), ne vengono sempre dei frutti avvelenati.
Per questo, occorre chiarire bene il senso di ciò che oggi stiamo facendo, per evitare di trovarci alla fine con tutti i ponti tagliati alle nostre spalle e senza più nessuna capacità di dialogo con le altre forze politiche, avendo ormai introiettata l’idea di dover restare estranei a qualunque manovra politica, a qualunque mediazione.
Una prima domanda riguarda il nostro rapporto con la cosiddetta sinistra ‘radicale’, o massimalista, la quale a sua volta sta tentando un’operazione di ricomposizione unitaria dei suoi diversi segmenti. La mia personale opinione è che sia utile una ristrutturazione complessiva del campo della sinistra, che sia quindi necessario riconoscere le differenze e tenere aperta una sfida tra diverse e non componibili opzioni strategiche, ma a condizione che il filo del dialogo e della ricerca delle possibili convergenze non venga spezzato, che si intenda l’intero processo più nel senso della complementarietà che dell’opposizione. Non per un riflesso nostalgico, non per rinverdire il mito dell’unità della sinistra, ma per una considerazione di realismo politico, per il fatto cioè che un esito di rottura avrebbe l’effetto di accentuare nell’uno e nell’altro campo i difetti di unilateralità e le spinte centrifughe, in una direzione moderata o in una direzione estremistica: governabilità fine a se stessa o all’opposto totale incapacità di fare i conti con le responsabilità di governo. È già accaduto spesso nella nostra storia che da una scissione escano due posizioni egualmente sbagliate e infeconde, proprio perché unilaterali e incapaci di cogliere l’insieme del processo politico. Anche se il Pd nasce con una diversa ispirazione, come forza di unificazione e non di divisione, resta pur vero che una frattura a sinistra c’è stata, e c’è quindi una difficile frontiera che va presidiata, cercando di favorire un’evoluzione positiva, una maturazione dell’intero campo della sinistra verso una moderna visione di governo, che sia consapevole delle nuove emergenze sociali che dobbiamo fronteggiare.
È questo un punto politico molto rilevante nella prospettiva strategica: pensiamo di esserci finalmente liberati di un peso, di una vecchia zavorra ideologica ormai inservibile, o continuiamo a essere interessati a una ricerca comune? È evidente che ne discendono diverse e opposte strategie politiche. E da ciò dipende anche il profilo sociale che assumerà il Partito Democratico, il rapporto che esso saprà stringere col tema del lavoro e con le sue rappresentanze sociali. Un partito non si definisce mai solo per quello che esso dichiara di essere, ma per l’insieme delle sue relazioni, per come si rapporta con le diverse forze in campo, e in questo senso tenere aperto o no il discorso con la sinistra radicale ha un effetto diretto sull’identità e sulla natura del nuovo partito. Non è un tema elettorale immediato, ma è decisivo per la futura prospettiva.
La seconda domanda, più complessa, riguarda l’evoluzione dell’intero sistema politico, il senso che si intende dare al superamento di questa lunga e inconclusa transizione nella quale continuiamo a essere impantanati. L’autonomia elettorale del Pd può essere il passaggio verso due diverse traiettorie, che cercherò qui di schematizzare nella loro opposizione.
Una prima opzione è quella di un’estrema semplificazione del sistema politico, verso un modello bipartitico all’americana. In questo caso, la solitudine non è solo rumorosa, ma minacciosa e aggressiva, perché tutto ciò che non si adatta a uno schema rigidamente bipolare merita di essere distrutto. Il partito «a vocazione maggioritaria» diviene, secondo questa interpretazione, il rappresentante esclusivo di una competizione bipolare, facendo piazza pulita di tutte le posizioni intermedie e di tutte le articolazioni di un sistema politico pluralista.
È l’esito a cui spinge il referendum sulla legge elettorale, il quale non corregge gli effettivi difetti della legge attuale (premio di maggioranza, liste bloccate), ma in qualche modo li esaspera cercando di forzare l’intero sistema verso un modello bipartitico, in quanto il premio di maggioranza non spetta più alla coalizione, ma solo alla lista di partito più votata, indipendentemente dalla soglia dei consensi elettorali conseguiti. La stessa Corte Costituzionale, pur ammettendo il referendum, ha espresso molte riserve sulla legittimità di un tale eventuale risultato, perché ne può venire un’alterazione molto profonda del gioco democratico. La posizione del Pd verso il referendum non è stata affatto chiara, ma piuttosto incerta e oscillante, e ciò dimostra come attualmente convivano diverse posizioni, diverse idee sul futuro. Ora, il referendum è rinviato, ma non è rinviabile un chiarimento circa gli indirizzi strategici del partito. Non possiamo all’infinito galleggiare tra posizioni diverse e contraddittorie.
La seconda possibile opzione è, all’opposto, quella che punta a un sistema meno rigido e più flessibile, che resta sempre aperto a possibili nuove evoluzioni e combinazioni, secondo i principi classici della democrazia parlamentare. In questo caso, l’autonomia elettorale preannuncia l’idea di un pluralismo partitico non preventivamente ingabbiato nello schema bipolare. Si va da soli alla competizione elettorale non per una presunta autosufficienza, ma per poter costruire in modo ponderato le alleanze possibili. È questo il senso del sistema tedesco: proporzionale senza premio di maggioranza, sbarramento al 5%, libero gioco parlamentare tra le forze più rappresentative.
A me sembra questa la soluzione più adeguata, più aderente alle caratteristiche storiche dell’Italia, perché semplifica senza forzature eccessive e tiene conto della pluralità delle culture politiche. Naturalmente, le soluzioni tecniche possono essere le più disparate, ma è importante avere in mente un modello chiaro e coerente, evitando di mescolare senza una logica principi tra loro contraddittori. Il Pd dovrà necessariamente prendere posizione, e chiarire in quale direzione intende operare, sapendo che il sistema elettorale non è una tecnica neutrale, ma incide sulla natura stessa dei partiti politici. Se prevale la prima opzione, diviene inarrestabile la spinta verso una democrazia plebiscitaria e personalizzata, dove tutto ruota intorno alla scelta del leader, e il partito è solo l’agenzia elettorale, una struttura tecnica di servizio che non può avere vita propria. Ma allora, se dovessimo imboccare questa strada, perché mai avremmo dovuto contrastare la riforma costituzionale proposta dal centrodestra? Io credo, in sostanza, che il partito democratico può avere un futuro solo se esclude decisamente questa prospettiva e lavora, con determinazione e coerenza, per l’altra possibile opzione. Anche questo è un discorso per il futuro, perché ora la competizione elettorale si svolge con le vecchie regole. E tuttavia è inevitabile che tutto il tema degli assetti istituzionali si riproponga a breve termine, e sarebbe bene arrivare a questo appuntamento con un’idea, con una linea politica, senza improvvisazioni.
Ma occorre, allora, liberare il campo da alcuni miti e da alcune suggestioni. Il primo mito è il seguente: devono decidere i cittadini, non i partiti. Si tratta di un puro sofisma, perché in una democrazia complessa i cittadini possono avere un peso solo all’interno degli istituti della democrazia rappresentativa, e quindi i partiti politici sono lo strumento, l’unico disponibile, per organizzare la partecipazione democratica. Ciò era chiarissimo in uno dei massimi teorici del liberalismo politico, Hans Kelsen: «È chiaro che l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale, non potendo esercitare una reale influenza sulla formazione della volontà dello Stato». È venuto meno il fondamento di questa verità, o non accade piuttosto che questa impotenza dell’individuo isolato sia oggi ancora più drammaticamente evidente? E, quindi, resta attualissima la conclusione di Kelsen: «Solo l’illusione o la ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici». Se il meccanismo della democrazia rappresentativa viene messo in crisi, non si annuncia un futuro di maggiore libertà, ma si prepara il terreno per il dominio di ristrette e incontrollate oligarchie. E questo passaggio non è solo una virtualità teorica, ma è un processo che già in larga parte si sta realizzando. Ecco che allora diviene necessario reagire con decisione a questa ondata della demagogia antipolitica, a questo mito di una società civile che si sostituisce alla democrazia dei partiti. Un segno inquietante di questa involuzione della vita democratica è la «personalizzazione» della politica, ovvero il fatto che la competizione non è tra idee, tra progetti, ma tra persone, tra capi politici. Non è il partito che esprime un leader, ma è il leader che dà forma al partito. Questa è la novità che ci offre la società postideologica: ci siamo liberati del dominio delle idee per cadere sotto il dominio di un rapporto servile di fedeltà alla persona. Sotto questo profilo, trovo desolante il fatto che anche il Partito Democratico scelga di ‘personalizzare il suo simbolo elettorale con la dicitura «per Veltroni presidente». Il nostro ordinamento costituzionale esclude l’elezione diretta, e il tentativo di introdurla surrettiziamente, per via di fatto, senza porre mano a una più complessiva riforma, apre nel nostro sistema una contraddizione che rischia di incepparlo, perché c’è da un lato una norma, e c’è dall’altro il comportamento pratico dei soggetti politici che agiscono fuori e contro la norma costituzionale. La Costituzione viene così aggirata. Si agisce «come se» ci fosse un sistema presidenziale, senza averlo elaborato nei suoi meccanismi e nelle sue garanzie, col risultato di travolgere gli istituti della democrazia parlamentare, senza avere costruito una alternativa. Rischiamo così di essere in una condizione di pericolosissimo vuoto istituzionale, nel quale contano solo i fatti compiuti, gli atti di forza, le pulsioni di un plebiscitarismo non regolato.
È giusto pretendere che il Partito Democratico non partecipi a questo processo dissolutivo, ma lo contrasti. Ma, per ora, non è stata ancora detta una parola chiara. Si dice solo che la democrazia deve poter decidere. Ma come, con quali regole? E quali sono i soggetti abilitati a partecipare alla decisione? La decisione viene spesso invocata come un argomento critico contro la democrazia, contro le sue procedure troppo lente e complicate, e contro la possibilità di sottoporre al vaglio del consenso popolare questioni che sono per loro natura troppo complesse. Ma il Partito Democratico non è nato proprio sulla base di una spinta partecipativa e popolare, e non dovrebbe quindi stare in prima fila nella battaglia per una piena democratizzazione di tutte le istituzioni politiche?
Il nostro atto fondativo sono state le primarie, una costruzione democratica dal basso, e questa deve continuare a essere la nostra bussola, perché sta qui la forza di un progetto che cambia le vecchie regole della politica. A proposito, perché non si sono fatte le primarie per la scelta dei candidati? Ragioni tecniche, si dice. Francamente, non è un argomento né convincente né accettabile. È un grave passo indietro, speriamo solo provvisorio, solo dettato dal carattere ancora troppo fluido e informale che hanno tutte le strutture del partito.
Il secondo mito è quello del bipolarismo. Un sistema politico ben organizzato tende a bipolarizzarsi, a organizzarsi cioè intorno a due principali alternative, ma ciò è affidato al processo della politica, che ha i suoi tempi e anche le sue oscillazioni, mentre non può funzionare un bipolarismo che sia imposto d’autorità, con meccanismi elettorali vincolanti, e che pretenda perfino di essere un «principio», un valore assoluto. Tutto ciò che va nel senso di una più razionale organizzazione dell’offerta politica, aggregando le forze tra loro più omogenee, e contrastando la frammentazione, va indubbiamente incoraggiato. Ma quando il bipolarismo diviene un dogma, diviene l’oggetto di un culto feticistico, entriamo allora in un campo che non ha più nulla a che fare con la razionalità politica. E produce, di conseguenza, proprio perché fondato sulla fede e non sull’osservazione dei fatti, conseguenze negative non calcolate. È quello che è accaduto nelle ultime legislature, con coalizioni raccogliticce e sgangherate, e con l’imperativo morale di una loro contrapposizione totale e assoluta. Guai a chi avesse voluto tentare un dialogo anche solo parziale! I ‘guardiani’ della Seconda Repubblica erano pronti a pronunciare il loro definitivo verdetto di condanna. Si può finalmente sperare in un cambiamento del clima politico.
Che oggi, in questa campagna elettorale, il vincolo del bipolarismo si allenti e che si presenti agli elettori un quadro più articolato e plurale è un fatto che introduce maggiore chiarezza. Se, ad esempio, qualcuno si propone di riorganizzare un centro moderato, si può discutere dell’efficacia del progetto, se ne possono contestare i contenuti e i programmi, ma sarebbe davvero assurdo contestarne la legittimità.
Le diverse forze, diversamente distribuite lungo l’arco politico, dovranno poi misurare i loro rapporti, le loro possibili convergenze, dialogando là dove è possibile e opponendosi dove è necessario. E il Partito Democratico deve saper parlare in diverse direzioni, alla sinistra, ma anche al centro. Questo significa che i processi politici devono restare aperti, devono potersi adattare alle situazioni che cambiano, senza che sia uno scandalo un qualsiasi mutamento nel sistema delle alleanze. Si può impedire, con la sfiducia costruttiva, che si apra una crisi al buio, ma non si deve impedire al Parlamento di costruire, quando siano maturi, nuovi equilibri. Il Partito Democratico, che è destinato ad avere un ruolo centrale nella vita politica italiana, non deve essere il custode di un bipolarismo dogmatico, ma può proporsi di essere la forza che riapre una dialettica feconda tra tutte le forze politiche, riaffermando il rispetto dei principi costituzionali e rivalutando il ruolo del Parlamento e della democrazia rappresentativa.
Questo è il punto che va chiarito, nella prospettiva strategica che si aprirà dopo le elezioni. La tattica elettorale c’è, ed è efficace, e ne va dato pienamente atto a Veltroni. Aspettiamo di capire quale è il senso di marcia di una strategia che guarda al futuro.
Busta: 8
Estremi cronologici: 2008, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: “Argomenti umani”, marzo 2008, pp. 18-28. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 245-253