UNA POSSIBILE POLITICA PER MILANO

di Riccardo Terzi

Milano ha sempre avuto un rapporto critico e conflittuale con la politica. Non è un dato di oggi, ma una costante della storia milanese, solo brevemente attraversata da qualche tentativo infruttuoso di insediare a Milano il centro della politica nazionale.

Secondo questa tesi, non c’è oggi una crisi, una decadenza della politica, ma solo la conferma di una vocazione impolitica della città. E una tesi non affatto scontata, e anzi per molti versi controvertibile. Dovremo confrontarci con la tesi, opposta a quella qui sostenuta, secondo la quale Milano anticipa la politica nazionale: il centrosinistra, Craxi, la Lega, Berlusconi. E dimostrare che si tratta solo di tentativi abortiti, e che la politica nazionale ha preso, in tutti questi casi, un altro indirizzo.

All’origine c’è un dato sociale, strutturale. Milano è una città socialmente differenziata e policentrica, in cui agisce, una pluralità complessa di soggetti sociali e di centri di potere. È l’opposto di Torino, città classicamente fordista, imperniata sulla grande fabbrica e sul conflitto di classe che dalla fabbrica si irradia sull’intera società circostante. Milano ha una precoce vocazione post-fordista: impresa diffusa, nuove professionalità, lavoro autonomo, terziarizzazione, già negli anni settanta sono al lavoro tutti questi processi, e il risultato è un universo sociale radicalmente trasformato. Prima che diventassero di moda le teorie sul post-fordismo e le analisi sociologiche del Nord-Est, Milano aveva già consumato una rottura con la vecchia civiltà industriale.

Il corrispettivo sul piano politico è la debolezza dei grandi partiti ideologici di massa, e la prevalenza delle forze intermedie, laico-socialiste, meglio aderenti a questa struttura sociale multiforme. C’è il rifiuto della radicalizzazione di classe, per far valere le ragioni di un ceto intermedio diffuso e composito, e c’è il rifiuto delle grandi costruzioni ideologiche, nel nome di una visione pragmatica e secolarizzata.

Anche la politica, quindi, segue un suo binario intermedio, moderato, rifuggendo dalle forti contrapposizioni ideologiche. Milano è l’unica città che non abbia mai avuto né un sindaco democristiano né uno comunista. E ciò avviene proprio nel momento in cui tutta la politica nazionale si regge su questi due poli e sulla loro competizione. È un segno dell’anomalia di Milano e della sua distanza dalla politica nazionale. Quello che accade qui non rientra negli schemi politici dominanti, ma li aggira e li elude, cercando di costruire un equilibrio locale fondato su altre premesse e su altri valori.

Non si tratta di un’opposizione al governo centrale, ma piuttosto di un modo di sottrarsi alla sua egemonia e di ritagliarsi un proprio spazio di autonomia. Milano non contrasta Roma nel suo ruolo politico dominante, ma cerca piuttosto di non farsi inglobare nella sua logica e di tenersi aperti degli spazi di movimento. La sua ambizione non è politica. Milano vuole essere la capitale dell’economia, e in questo contesto la politica ha un ruolo solo sussidiano.

Non c’è primato della politica, ma preminenza della società civile. Non si è formato, in queste condizioni, un ceto politico forte, e i politici locali svolgono, spesso anche in modo egregio, una funzione di mediazione, al servizio dei grandi interessi organizzati. Sono, quando va bene, buoni amministratori che regolano il traffico della società civile. Quando i sindaci di Milano tentano il salto politico, candidandosi a un ruolo nazionale, vengono tutti rapidamente marginalizzati e ridimensionati, perché entrano in un meccanismo che funziona secondo regole del tutto diverse.

Tra Milano e Roma resta un divario, una difficoltà di comunicazione. E il divario sta esattamente nel diverso ruolo che vi gioca la politica. Possiamo leggere così il rapporto tra Nord e Sud: dove la società civile è forte, la politica è messa in secondo piano, e viceversa in una struttura sociale fragile si punta essenzialmente sull’investimento politico. Si stabilisce cosi, tra Nord e Sud, quasi una suddivisione concertata dei ruoli: meridionalizzazione della politica e concentrazione al Nord delle attività produttive. È un equilibrio precario, che ha retto per tutta una fase storica, fino a quando non sono esplose nuove e violente contraddizioni. L’equilibrio si rompe quando divengono troppo alti i costi pagati in termini di inefficienza del sistema. Scoppia allora la rivolta del Nord contro l’assistenzialismo statale, e tra i cittadini si radicalizza una posizione di rifiuto verso una pubblica amministrazione inefficiente e verso un sistema politico corrotto. Si entra così in una fase di convulsa transizione politica, nella quale siamo tuttora immersi, senza che si veda il punto di arrivo.

Ma facciamo un passo indietro, e torniamo a riflettere sulla storia politica di Milano. Possiamo capire i problemi di oggi solo se ci è chiaro il percorso storico che abbiamo attraversato. Milano ha prodotto alcuni importanti progetti politici, ma il loro comune destino è stato quello di fallire l’obiettivo. Quando Milano tenta la carta politica, e si candida a un ruolo di guida nazionale, va incontro a un sostanziale fallimento, e riprende allora forza la sua anima impolitica, la sua vitalità tutta immersa nella dimensione economica e civile, senza un’idea di Stato, senza un progetto, senza una capacità di egemonia. Se analizziamo tutti quei passaggi che sono spesso citati per dimostrare la capacità di anticipazione politica di Milano, vediamo che si tratta di passaggi irrealizzati, di tentativi abortiti.

Il centrosinistra dei primi anni sessanta è stato il primo tentativo di modernizzazione del paese: esso si reggeva su uno sviluppo strategico dell’industria pubblica, su una politica di programmazione economica e su un allargamento delle protezioni e dei diritti sociali. Ma è noto che dopo una prima fase di slancio riformatore si entra nella lunga stagione del “doroteismo”, di una gestione moderata e clientelare tutta incentrata sul ruolo onnivoro del partito-stato. Il sistema delle partecipazioni statali, fortemente insediato nell’ area milanese, subisce così una serie di distorsioni politiche, diventando uno strumento di potere per alcune correnti democristiane.

Milano, che poteva candidarsi a essere la guida della nuova stagione riformatrice, rimane spiazzata perché prende il sopravvento una logica partitocratica nazionale.

Anche le aspettative di autonomia che nascevano dal nuovo ordinamento regionale vengono presto deluse. Con la regione non si innesca un vero processo di autogoverno e di programmazione territoriale, ma si alimenta un meccanismo burocratico che appesantisce ulteriormente la pubblica amministrazione. Il centrosinistra prende quindi un indirizzo politico assai lontano dalle esigenze di innovazione e di modernizzazione di Milano e del Nord. E la continuazione, in altra forma, del vecchio centralismo statale. Aldo Moro, che diviene il vero garante del nuovo equilibrio politico, ha molti meriti, ma certo non quello del dinamismo riformatore. Il suo problema è quello di conservare e allargare l’egemonia della Dc in una linea di continuità e di stabilizzazione. La novità sta solo nella nuova e prudente apertura politica alla sinistra, in quella che si è allora chiamata la «strategia dell’attenzione». Ma la struttura del potere e il funzionamento dello Stato non vengono sostanzialmente modificati.

Mantenendo la Democrazia cristiana su livelli elettorali modesti, Milano si difende dall’invadenza del partito-Stato e riesce a salvaguardare un suo ambito di autonomia. È sempre più il comune il luogo dell’identità politica dei milanesi, non lo Stato, non la politica nazionale, né ancor meno la nuova istituzione regionale. Quello che accade, quindi, negli anni del centro-sinistra non è un processo di anticipazione, secondo cui il modello milanese si afferma a livello nazionale, ma è un processo difensivo: non Milano che conquista la politica, ma Milano che si difende dalla politica.

Con Craxi c’è l’unico vero progetto politico, che a partire da Milano punta a rimodellare l’intera vita politica nazionale. Oggi si tende a vedere solo i lati deteriori e a liquidare il craxismo come un episodio, alla fine sradicato, della criminalità politica. In realtà la dimensione di Craxi è quella di un leader politico consapevole e determinato, che riesce a impostare una strategia efficace di sfondamento ai danni dei due maggiori partiti, fino ad assumere una posizione di leadership nazionale. Ma qui interessa non il giudizio complessivo, ma il rapporto di questa vicenda politica con Milano. E vengono allora alla luce aspetti sconcertanti. Con Craxi si ribalta per la prima volta il rapporto tra Milano e Roma: non si tratta solo della figura del leader, ma del gruppo dirigente che lo sostiene, delle relazioni con il mondo economico, della cultura politica che esprime, del suo forte radicamento nella città. Eppure, accade una cosa del tutto imprevista.

Il craxismo sfonda al Sud, sbaraglia le vecchie clientele democristiane e ne costruisce di nuove, mette alle corde il PCI anche nelle sue roccaforti, ma ha un punto debole: Milano. A Milano il PSI rimane stazionario. C’è il successo amministrativo dei sindaci, ma in quanto sindaci, in quanto rappresentanti dell’autonomia milanese dalla politica nazionale. Milano cerca di difendersi anche da Craxi. E da Milano parte l’offensiva contro il nuovo partito dominante, con le inchieste della magistratura e con un sostegno crescente dell’opinione pubblica. Il paradosso è che il tentativo più ambizioso di affermare l’egemonia di Milano fallisce non per le resistenze del Sud, ma perché a un certo punto gli crollano le basi di consenso proprio nella sua originaria roccaforte. Milano non segue Craxi nella sua avventura politica, ma ne diffida, e alla fine lo disarciona. È una vicenda esemplare, unica nella sua eccezionalità. Ed essa ci illumina sullo spirito pubblico milanese, impolitico fino al punto di bocciare anche il leader che aveva cercato di incarnare il primato di Milano nella politica nazionale.

E c’è, nei meccanismi collettivi del ricordo, un accanimento. Si salvano i sindaci socialisti, Aniasi, Tognoli, assai meno Pillitteri che è il cognato del despota. E per il despota c’è solo l’ingiuria. È solo una reazione alla corruzione? Ma, come si sa, la corruzione viene scoperchiata quando viene meno il consenso politico, e la magistratura ha potuto agire perché i meccanismi del consenso erano già logorati.

Assai diverso è il caso della Lega. Le sue basi non sono a Milano, ma nelle periferie lombarde e venete. È il mondo dei piccoli comuni, delle vallate di montagna, di una società tradizionale e arcaica che si sente minacciata nei suoi valori, è qui il terreno di coltura della Lega. Ma alla Lega si offre, per una congiuntura politica favorevole ed eccezionale, l’occasione di governare Milano. Nel vuoto lasciato dal crollo del craxismo e nella tradizionale diffidenza per la sinistra, Milano si affida a un sindaco leghista. Non è una scelta non è l’accettazione di una ideologia politica, ma solo la speranza, che da un personale politico nuovo, non compromesso con il passato, possa sortire qualcosa di positivo. È un atteggiamento tutto pragmatico. E questa occasione irripetibile viene del tutto bruciata, proprio perché pragmaticamente fallimentare. La Lega non è riuscita a entrare in rapporto con lo spirito della città, e non ha capito che i milanesi chiedevano a Formentini di essere il sindaco, il continuatore di una tradizione di autonomia municipale e di efficienza amministrativa, e non il portavoce di un messaggio di secessione, di una inafferrabile identità etnica della Padania. La Lega ora è tornata nelle valli, e la sua avventura milanese non ha ormai nessuna possibilità di essere ritentata. È stato solo un episodio, non un’esperienza politica significativa. Un episodio che non ha lasciato tracce, se non, forse una ancora più accentuata diffidenza per le promesse demagogiche della politica e per i piazzisti di ideologie miracolose. Formentini non sarà esecrato, ma non sarà neppure ricordato; ed è la sorte peggiore che possa toccare a un politico. Non è la fine della Lega, che ha sue motivazioni e un suo radicamento forte, ma altrove. Il futuro della Lega, se c’è, non passa da Milano.

Infine, c’è il caso di Berlusconi. È una vicenda tuttora aperta, e quindi non è ancora possibile nessun giudizio conclusivo, ma sono possibili solo congetture, necessariamente aleatorie. Ma a una prima domanda si può già oggi rispondere: Berlusconi è il continuatore del progetto craxiano, come sembrano ritenere molti autorevoli commentatori politici? La mia risposta è negativa Craxi pensava a una operazione di grande politica, Berlusconi all’inverso cerca di cavalcare gli umori dell’antipolitica. E in questo è certamente più capace di interpretare lo spirito pubblico dei milanesi, la loro tradizionale diffidenza verso la politica.

Craxi era un leader politico, Berlusconi è un agitatore. Può in larga parte coincidere la platea elettorale di riferimento, ma il messaggio è del tutto diverso, e diversi sono gli effetti, politici e psicologici. Il successo di Berlusconi sta nella sua capacità di rappresentare le frustrazioni e i rancori di una società nevrotizzata, tutta presa nel vortice della competizione e del successo personale. Il movimento non è tenuto insieme da una proposta politica, ma dal livore di chi pensa di essere una vittima della politica. Ed è naturale che tutto ciò possa essere una buona occasione per tutti coloro che, a vario titolo, non sopportano i vincoli della legalità.

Non si vede il passaggio dall’ agitazione alla politica, dal movimento di protesta all’azione di governo. Per cui sorge il dubbio che l’iniziativa di Berlusconi debba restare, per questa sua strutturale fragilità politica, al livello della propaganda, del movimentismo, senza costruire uno sbocco politico adeguato. La breve esperienza di governo non è stata brillante, e nuovi assetti politici si sono successivamente strutturati e consolidati. La Milano berlusconiana, se continuerà a essere tale, finisce così per essere tagliata fuori dai grandi processi politici, nazionali ed europei, chiusa in un atteggiamento velleitario di protesta.

La mia impressione è che si tratti di una politica di corto respiro, che può avere qualche fiammata di consenso, ma non una prospettiva strategica. In ogni caso, se il problema di Milano è quello di recuperare un ruolo politico, Berlusconi non aiuta a risolvere questo problema, proprio perché alimenta ed esaspera quello spirito impolitico che ha fin qui impedito a Milano di avere una parte decisiva nella politica nazionale. Può essere diversa la funzione del sindaco Albertini, che si può riallacciare alla tradizione di autonomia municipale, se avrà l’accortezza di non farsi troppo condizionare dalle logiche di schieramento, proponendosi come un punto di riferimento della società civile milanese e non come il portavoce di una ideologia di partito. Ma con ciò non accadrebbe nulla di nuovo, perché è esattamente ciò che ha caratterizzato tutta la storia politica milanese: una debolezza politica nazionale e una forte autonomia municipale. Si torna così al punto da dove si è partiti.

Ma se guardiamo alla società italiana e alla sua evoluzione da un altro punto di osservazione, sociologico e culturale, anziché politico, è certamente vero che Milano ha anticipato il processo complessivo. Superamento del dualismo di classe, struttura economica post-fordista, laicizzazione e deideologizzazione della politica, autonomia della società civile, passaggio dalle grandi appartenenze collettive alla cultura dei diritti individuali: tutto ciò rappresenta ormai una tendenza generale, e tutte le forze politiche sono costrette a misurarsi con questo mutamento e a ridefinire le proprie basi culturali.

Tra Milano e l’Italia c’è oggi sicuramente meno distanza che nel passato. In questo scenario mutato, Milano dovrebbe poter disporre di nuove chances, perché agisce in un contesto generale di modernizzazione che è congeniale alla sua storia e al suo sistema di valori, Tuttavia, c’è come un senso di crisi e di declino. Io non credo che sia del tutto pertinente parlare di declino, perché c’è una società dinamica e in movimento. Ma ciò non è più sufficiente, e le moderne società complesse richiedono una capacità di “fare sistema”, di far funzionare con efficacia le connessioni politico-istituzionali e sociali, richiedono quindi un governo politico. E richiedono una strategia, e quindi un’identità, un sistema comune di obiettivi e di valori sui quali far convergere le diverse iniziative. Tutto questo a Milano non è avvenuto. Non c’è un’identità comune, non c’è un sistema territoriale coeso, e non c’è una politica capace di coordinare e di indirizzare le dinamiche sociali. Non un declino quindi, ma una situazione inceppata. Inceppata non dalla politica, ma dall’assenza della politica. E la conseguenza di quel percorso storico che abbiamo cercato di descrivere, segnato da fallimenti politici e da ricorrenti fughe nell’impolitico. Questa storia è ormai una palla al piede, di cui dobbiamo liberarci.

Costruire una politica vuol dire costruire un’identità, un riferimento a valori condivisi che costituiscono la società come comunità. Il problema è superare la frantumazione corporativa degli interessi, i quali si neutralizzano reciprocamente impedendo la realizzazione di qualsiasi progetto politico. Al problema dell’identità si sono tentate diverse risposte, le quali tutte appaiono però oggi eccessivamente parziali e unilaterali. La risposta classica della sinistra vede il fondamento della politica nel lavoro. Oggi questa identificazione appare assai problematica, in generale e a Milano in particolare, perché la realtà del lavoro si è sfrangiata e disarticolata. E Milano, come abbiamo detto, ha cessato già da molto tempo di essere una tipica città industriale a struttura fordista.

C’è un sindacato forte e influente, ma non può essere che un soggetto parziale, che rappresenta gli interessi di una parte della società. E qualsiasi progetto politico, anche di sinistra, deve necessariamente andare oltre questa parzialità. Nel vuoto della politica, dopo il terremoto di tangentopoli, altri importanti punti di riferimento sono stati la chiesa ambrosiana e la magistratura, a cui si accompagnano le due idee-forza della solidarietà e della legalità.

La solidarietà è essenziale, ma è insufficiente come base per la costruzione di un progetto politico. Né d’altra parte la Chiesa può sostituirsi alla politica, ma può essere solo un’autorità morale che accompagna e sollecita la politica, verificandone gli esiti pratici sotto il profilo della giustizia e della difesa della dignità della persona.

Il concetto stesso di solidarietà è un concetto morale più che politico. Esso non ci dice quali politiche economiche e sociali adottare, quali assetti istituzionali, quali strategie di sviluppo. Ci dice solo che tutte queste scelte dovranno essere giustificate dal punto di vista dei diritti delle persone, e che dovranno essere giudicate con questo metro. Ma, in fondo, è esattamente ciò che dice la nostra Costituzione: la politica e l’economia devono essere orientate alla difesa dei diritti. È un principio essenziale, ma non è né può essere una proposta politica strutturata che definisce i mezzi in rapporto ai fini.

Un discorso analogo si può fare per la legalità, che è una condizione della politica, ma non ci dice nulla nel merito delle scelte politiche concrete. La magistratura ha svolto una funzione importante, ma non può andare oltre, e anzi sarebbe assai pericolosa un’invadenza di campo. E certe pulsioni giustizialiste, alla ricerca dell’eroe vendicatore, spingono di fatto verso esiti autoritari: la politica è in sé corrotta, e occorre un’autorità superiore che garantisca l’ordine dello Stato. Da Saint-Just a Di Pietro, è un passaggio piuttosto spericolato, e si finisce nel grottesco.

Della Lega ho detto, e del suo tentativo fallito di dare a Milano un’identità sulla base di un’appartenenza etnica e di un progetto politico separatista. L’innesto fortunatamente non è riuscito, né poteva riuscire, perché Milano è sempre stata un crocevia di culture, capace di assimilare, e di integrare le diversità. Né può offrire alcuna risposta il movimentismo berlusconiano, il quale non fa altro che alimentare tutte le spinte dissolutive della comunità, nel nome di una competizione senza regole, Berlusconi esiste politicamente solo se e fino a quando Milano non si dà un’identità politica. E se il messaggio di Forza Italia vince, Milano resta una città senza anima.

Se la parte critica è abbastanza agevole, quella propositiva si presenta assai problematica. Come rispondere al problema dell’identità? Le identità non si inventano, non si costruiscono in astratto, ma si scoprono scavando nei processi reali che fanno la storia di una determinata comunità. Milano è la città della società civile forte che diffida della politica. Ed è la città dell’integrazione, delle differenze che convivono, delle relazioni internazionali, dell’apertura verso l’Europa e il mondo. Cerchiamo qui, in questa storia, i tratti di un’identità possibile.

Milano non sarà mai capitale politica: La sua insocievolezza politica deve essere temperata, ma non può essere estirpata. E forse si può tentare qui un rapporto nuovo di politica e società civile, più aperto, più attento alle autonomie, al pluralismo sociale: una politica che non comanda, che non impone il suo primato, ma dialoga con la società e l’aiuta a realizzare i suoi fini. E soprattutto Milano può essere il ponte con l’Europa, il luogo strategico da cui passano le reti lunghe dell’integrazione internazionale. Per svolgere questa funzione deve puntare a risultati di grande eccellenza in tutti i settori decisivi: l’economia, la cultura, l’ambiente, la progettazione urbana, le infrastrutture. Non è solo la riproposizione dell’idea della «capitale economica», perché la costruzione dell’integrazione europea ha una dimensione ben più complessa, politica, culturale, civile. Se non sarà Milano, saranno altri a svolgere questo ruolo. E allora davvero ci sarà decadenza e declino.

Identità e progetto politico comune non significano annullamento delle differenze, consociativismo, confusione delle parti politiche. Ma certo è necessario che vi sia capacità di comunicazione, di intesa su alcuni obiettivi fondamentali. La politica non è la rissa, e il bipolarismo non è l’incomunicabilità e la contrapposizione fine a se stessa. La politica, quando è davvero tale, è confronto di alternative possibili dentro un universo di valori condivisi. E l’identità è il risultato del confronto e della ricerca di obiettivi comuni. Dobbiamo ricostruire queste condizioni, oggi assenti. La debolezza dei partiti li spinge all’estremizzazione, alla propaganda, all’agitazione. Un partito forte e consapevole delle sue ragioni sa di poter dialogare con tutti, senza rischi. Ma un partito debole dovrebbe sapere che l’esasperazione propagandistica lo condanna a non uscire mai dalla sua debolezza.

Ci può essere finalmente qualcuno che a Milano prenda in mano con serietà le sorti della politica e che apra un confronto, a tutto campo, sulle questioni che sono davvero decisive e strategiche? Solo cosi Milano può uscire dall’impasse, e riprendere il suo cammino. Chi saprà fare questo, chiunque sia, avrà in mano le chiavi del futuro.



Numero progressivo: H61
Busta: 8
Estremi cronologici: 1989, settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Il Ponte”, settembre 1989, pp. 130-138