UNA INTELLIGENZA NEL PCI MA FUORI DALLA LINEA EREDITARIA
Recensione di Giancarlo Bosetti del libro “La pazienza e l’ironia”
Riccardo Terzi, La pazienza e l’ironia, Ediesse 2011
Ho trascurato i libri di molti ex dirigenti del PCI pur avendone trovati di interessanti e riflessivi, perché spesso, anche quando non erano divaganti ed elusivi, l’ambizione auto-giustificatoria e le recriminazioni nei confronti di avversari interni, vivi e morti, li rendevano qualche volta noiosi e, quasi sempre, inutili. A differenza di molti giornalisti e politici in pensione che, attraverso questi libri, ravvivano nella loro memoria le lotte incandescenti della loro gioventù (ingraiani contro amendoliani, Craxi contro Berlinguer, D’Alema contro Occhetto e poi Veltroni, socialisti di sinistra contro socialisti di destra, e così via), e forse per le stesse ragioni, ogni volta tendo a ritrovare, più che il calore, una gelida e disperata passione, un nuovo noioso tentativo di continuare una medesima battaglia tra superstiti, o fantasmi, come se avesse ancora il senso di allora. È molto diverso il caso di Riccardo Terzi, che fu segretario del PCI milanese negli anni Settanta e poi dirigente sindacale, il quale ripubblica alcuni suoi scritti di un trentennio con il titolo, eloquente, La pazienza e l’ironia.
Terzi si scansa dalla qualifica di “dissidente” che non ha mai voluto venisse fraintesa come una professione permanente. Eppure la sua storia ha le caratteristiche, chiare e distinte, di una divergenza di vedute strategica nei confronti del gruppo dirigente berlingueriano, su posizioni moderate e riformiste (parole allora inutilizzabili a sinistra), che indicavano un’altra via realmente possibile, e che lo escludevano dalla linea ereditaria della leadership, a differenza da quanto accade per tanti, da Fassino a D’Alema, da Livia Turco a Bassolino e diversi altri, delle seconde e terze file, che hanno continuato ad avere ruoli di rilievo o a sedere in parlamento. Terzi non era troppo a sinistra o troppo a destra, semplicemente rifiutò la politica del compromesso storico con determinazione, alla fine degli anni Settanta, sostenendo la necessità di un’alleanza con i socialisti su una piattaforma di politiche sociali che avevano al centro il lavoro e il “movimento operaio”, quando ancora tutti, compreso Craxi, lo chiamavano così.
Mitezza del carattere e anti-protagonismo sono i tratti della figura di Terzi, il che spiega perché capitava di raccogliere, al termine delle riunioni del Comitato centrale del PCI, e sulla stampa, apprezzamenti unanimi per “l’intelligenza” del giovane dirigente milanese, ma anche perché poi svariate figure, spesso mediocri, gli venivano preferite al momento di assegnare i posti in “Direzione”, ovvero nell’organismo cardinalizio del “Partito”.
Nel 1975, trentasei anni prima di Pisapia – era un altro mondo e le fabbriche erano ancora piene di operai – Terzi contribuì alla nascita della giunta di sinistra milanese, guidata da Aldo Aniasi, che il centro del partito guardava con qualche preoccupazione, temendo la “subalternità” ai socialisti. La prospettiva di un’alleanza di sinistra, per un’alternativa riformista (allora si chiamava “riformatrice”) veniva accusata da Berlinguer di “subalternità”, di “socialdemocratizzazione”. Non che Terzi fosse mai stato “subalterno”: le sue battaglie contro la corruzione nell’azienda dei trasporti pubblici milanese lo avevano esposto a un memorabile duello con i socialisti. E in questa intransigenza si sarebbe distinto anche dall’ala migliorista milanese del PCI, che negli anni si avvicinò sempre più al sistema di potere craxiano e poi del pentapartito, senza potersene più distinguere fino alla tempesta giudiziaria di Mani Pulite, e oltre.
Questo stretto perimetro politico, fatto di un no al grande compromesso con la DC e, allo stesso tempo, di un altro no al compromesso con i metodi corrotti che a Milano sarebbero negli anni lievitati intorno al PSI, con le note conseguenze giudiziarie, descrive le ragioni per cui un progetto plausibile, sostenuto da una personalità politica di valore, non riuscì ad affermarsi con il successo di Terzi e, da Milano, a mandare impulsi sulla scena nazionale. Per una più compiuta riflessione sulle ragioni di questa sconfitta Terzi avrebbe dovuto raccontare l’intera storia, non solo raccogliere i suoi scritti. La sua introduzione alla raccolta ne fornisce comunque una traccia. Ed è qui che scopriamo la differenza tra le consuete recriminazioni dei politici che raccontano quel che è andato storto trovando dei colpevoli: al solito, i loro avversari. Terzi si libera dal rischio deformante del risentimento e non indica un “colpevole”, ma l’“errore” sì. E l’errore viene collocato nelle trasformazioni sociali ed economiche che hanno progressivamente indebolito la presa di una politica che, per non saper vedere il cambiamento, diventava sempre più velleitaria e impotente. La deindustrializzazione radeva al suolo con una incredibile progressione le casematte del movimento operaio, mentre il “Partito” continuava a vivere le sue dinamiche organizzative, le sue liturgie, la sua gerarchia e disciplina militare, come se le cose potessero continuare così come prima.
Negli anni Ottanta la divaricazione tra la società e la politica si fa così forte da spingere il PCI sulla difensiva, chiudendo gli spazi a un’aperta discussione che metta realmente in crisi una strategia basata sulla vecchia identità. Solo l’89 farà saltare i vecchi equilibri imponendo il precipitare di una inevitabile svolta. Terzi non condivide le scelte di Occhetto, ma a quel punto ha già lasciato la scena della vita di partito per dedicarsi al sindacato. È un ritiro attivo, nel lavoro sociale, che gli lascia spazio per la riflessione e per l’iniziativa culturale. Sempre in guardia nei confronti di una sinistra «che rischia di essere tanto più antagonista a parole quanto meno riesce a esserlo nella realtà», Terzi difende gli spazi di una riflessione creativa, non più prigioniera di vincoli ideologici, ma non per questo in caduta libera nel nulla. Tutte le traiettorie possibili di una nuova progettualità devono essere esplorare prendendo di mira il nucleo di intolleranza, di “identità morta”, che è in agguato dentro le politiche da “comunità chiusa” e che hanno nella Lega il loro campione. Il leghismo, e non solo il berlusconismo. È la malattia di cui il Nord deve sapersi liberare. E Terzi è molto convincente quando propone una linea di resistenza che non si affidi soltanto all’unità nazionale, da opporre certo agli impulsi secessionisti, ma sviluppi una cultura del pluralismo, dell’apertura alle differenze e dell’accoglienza, il che rappresenta la base di ogni futura possibilità per una nuova sinistra.
Busta: 9
Estremi cronologici: 2011, agosto
Autore: Giancarlo Bosetti
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Recensioni
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Reset”, agosto 2011