TRASFORMAZIONI SOCIALI E ALTERNATIVA POLITICA

I problemi posti dai tecnici e dai quadri e il ruolo della classe operaia

di Riccardo Terzi

La nuova articolazione e differenziazione di ceti derivante dalle trasformazioni tecnologiche ed i rischi di emarginazione del movimento operaio. Se non si comprendono i processi reali da cui deriva la crisi del blocco di potere democristiano si deve attendere un’illusoria rigenerazione del sistema politico. Il conflitto tra nuovi soggetti politici e sistema dei partiti. Rinnovi contrattuali e partecipazione sindacale

 

È stata già annunciata la preparazione, da parte del partito comunista, di una conferenza nazionale dei quadri e dei tecnici, e numerosi sono i segnali di interesse e di attenzione, e le sollecitazioni a colmare un ritardo serio che c’è nel lavoro del partito e, più in generale, nella cultura del movimento operaio.

C’è bisogno di un lavoro vasto di ricognizione, di analisi dei mutamenti che si stanno verificando nella composizione di classe e nell’organizzazione produttiva, e c’è la necessità di un dibattito politico, che speriamo si possa sviluppare anche sulle colonne di Rinascita, nelle prossime settimane, con il concorso di voci diverse. Ho parlato di dibattito politico, perché credo che il rapporto della classe operai a con i quadri e con i tecnici abbia assunto oggi il significato di un passaggio strategico essenziale, che esso si intrecci con problemi assai complessi di linea politica e di prospettiva.

Negli ultimi anni e andato avanti nella società italiana un duplice processo: di differenziazione e articolazione del tessuto sociale, e di scomposizione e lacerazione del blocco politico dominante. C’è una maggiore complessità sociale, ed essa si sviluppa a partire dal processo produttivo, dalle trasformazioni tecnologiche, dal peso crescente che assume nella produzione la professionalità tecnico scientifica, dall’espansione del terziario qualificato come condizione e supporto di una economia sviluppata e moderna. È a tutto questo che si fa riferimento quando si parla di “ceti emergenti”; ed è a partire da qui che viene portato, da varie parti, un attacco al ruolo centrale della classe operaia, alla sua candidatura come nuova classe diligente. Questa complessità sociale viene cioè utilizzata per offuscare gli antagonismi di classe fondamentali, rappresentando la società come un insieme di interessi, tutti inevitabilmente settoriali, e affidando quindi alla politica il compito di una mediazione equilibrata e neutrale.

Se il movimento operaio non si pone su un terreno più alto, come forza che è in grado di rappresentare e organizzare tutto l’insieme delle forze produttive; in una visione assai ampia dell’unità di classe e delle alleanze sociali, c’è davvero il rischio che quell’attacco al ruolo politico della classe operaia possa avere successo. Non e affatto una questione scontata: non sono ancora vinte le chiusure operaistiche, e mentre la vecchia centralità operaia viene sospinta indietro e messa in crisi dai nuovi processi, stenta ad affermarsi una ‘visione ‘più adeguata e moderna del ruolo politico del movimento operaio. Si deve anzi riconoscere che negli ultimi anni abbiamo subito un arretramento, abbiamo perso alcune posizioni.

Di fronte a forzature estremistiche, a forme di egualitarismo esasperato, a vere e proprie degenerazioni della conflittualità di fabbrica o di reparto, che hanno preso di mira la figura del capo o del dirigente, difronte a tutto ciò non c’è stata una battaglia politica sufficiente, e ancora molte di quelle scorie non sono state eliminate. Ed è su questo terreno che si dispiega in modo insidioso, l’azione politica dei gruppi terroristici, i quali possono realizzare una penetrazione organizzata nelle fabbriche nella misura in cui sopravvive e resiste uno spirito di classe angusto e settario. Tutta la loro campagna propagandistica e ideologica tende ad isolare la classe operaia in una visione cupa e disperata della realtà, secondo cui tutte le altre figure sociali e tutte le istituzioni politiche sono parte di un unico blocco reazionario da sconfiggere con il ricorso alla violenza. È indicativo il fatto che così spesso le imprese del terrorismo abbiano scelto come bersaglio i dirigenti industriali, cercando così di spezzare, già dentro la fabbrica, ogni possibilità di allargamento delle alleanze, di egemonia, di ruolo dirigente della classe operaia. Per questo il rapporto con i quadri, con i tecnici, con i dirigenti, con i più diretti interlocutori della classe operaia, dentro la fabbrica, è un indice estremamente significativo della sua maturazione politica. Se c’è stato, come io ritengo, un arretramento, è questo un dato politico su cui occorre intervenire con decisione, senza indulgere a quella forma di paternalismo che giustifica o nobilita anche le rozzezze e gli errori che appaiono nella storia operaia.

Prendiamo un esempio concreto: la situazione della Fiat. Vi è qui, tuttora aperta, la ferita, la lacerazione che si è consumata nel corso della recente vertenza. La famosa marcia organizzata dai capi e dai quadri intermedi è ancora motivo di polemiche appassionate, di ritorsioni, di accuse. Non si cancella certo d’un tratto quello che è il risultato concreto di un dato processo politico e sociale: ma occorre aver chiaro che è interesse vitale del movimento operaio ribaltare una tale situazione, riallacciare un dialogo costruttivo, spezzare l’isolamento e costruire in modo realistico la possibilità di un’azione comune, di una convergenza intorno all’obiettivo del risanamento e dello sviluppo del tessuto produttivo del nostro paese. Se non si fa questo, tutte le difficoltà del movimento operaio non possono che accentuarsi, e i rapporti di forza tendono a divenire sempre più sfavorevoli.

All’accentuata complessità sociale fa riscontro un processo di crisi e di declino di quel particolare blocco di potere che si è costruito attorno alla Democrazia cristiana. È questo un giudizio largamente condiviso e ricorrente, ma ancora poco si è fatto per capire più in profondità da quali trasformazioni nel tessuto sociale viene un tale mutamento dell’orizzonte politico. Cercare di afferrare questo processo è essenziale per dare corpo a un disegno di alternativa, il quale può avanzare solo se si mette in moto un processo nuovo ed originale di aggregazione di forze sociali diverse. Se invece si costringe l’idea dell’alternativa democratica dentro una concezione ancora tutta “politica”, allora si resta prigionieri di un gioco tattico che non sposta i rapporti reali nella società, o si è costretti a ipotizzare rigenerazioni del sistema politico che, allo stato delle cose, sembrano essere del tutto illusorie.

Il fatto è che la crisi della DC coinvolge l’intero equilibrio sociale e politico del paese, e apre interrogativi complessi. Viene meno un punto di mediazione politica attorno al quale si raccoglievano strati sociali diversi, in un equilibrio certamente instabile e precario, ma tale tuttavia da frenare i corporativismi estremi e da ricondurrei conflitti nell’ambito della democrazia politica e del suo pluralismo. Oggi questo sistema di mediazioni tende a incepparsi, e le forze sociali si presentano sulla scena politica con una propria autonoma fisionomia, come soggetti politici, in un rapporto critico e conflittuale con il sistema dei partiti.

Dobbiamo vedere tutto questo processo senza semplicismi, sapendo che ciò comporta anche dei rischi e può avere un esito negativo: la crisi della centralità democristiana non si traduce immediatamente in un processo positivo di rinnovamento, ma può dar luogo a un’estrema frantumazione corporativa, a uno stato di ingovernabilità, a una crisi più generale e profonda di tutto il sistema democratico. E tuttavia l’alternativa si costruisce partendo da questa crisi; oppure si rinuncia a questo obiettivo ambizioso e ci si offre alla DC come garanti e continuatori di un sistema politico ormai esausto. Nel movimento di “autonomia” dei soggetti sociali, accanto a tentazioni corporative assai forti, sono implicite almeno due rivendicazioni politiche su cui è possibile lavorare per una nuova e ampia alleanza sociale: la richiesta di una democrazia più reale, meno mediata e deformata da un sistema partitico che ha in larga misura perso il contatto con la società, e l’aspirazione a un nuovo sviluppo economico, a una prospettiva di progresso civile, il che comporta la rottura di un sistema di potere teso ormai solo alla propria sopravvivenza, parassitario e inquinato nei suoi meccanismi sostanziali.

Questi due filoni li ritroviamo certamente, con una accentuazione particolare, nella nuova intellettualità tecnica e scientifica. Il movimento operaio può essere per queste forze un interlocutore, ma non lo è immediatamente, e deve compiere un’operazione complessa di correzione, di rinnovamento, di apertura a nuovi soggetti sociali che certamente non sono disponibili ad un ruolo subordinato e gregario. Ecco che allora la questione dei tecnici, dei quadri esce fuori da un’affermazione rituale circa la necessità di una politica di alleanze, e investe la sostanza del tema dell’alternativa, che abbiamo individuato come il terreno nuovo della nostra azione, e che ancora deve essere scandagliato in tutte le sue implicazioni.

Da questo ragionamento politico generale, che può essere apparso ancora troppo astratto, derivano alcune conseguenze precise, alcune scelte immediate. Il primo banco di prova è dato dalle prossime lotte contrattuali. Come si intende affrontare il problema della professionalità? Quali segnali concreti si intendono dare nel senso di una correzione delle tendenze egualitarie che hanno prevalso negli anni passati? È certamente questo un problema assai arduo, perché la spinta inflazionistica e gli automatismi restringono in misura grande gli spazi della contrattazione. E occorre, nel movimento operaio e sindacale, una volontà politica assai ferma e determinata, e una lotta politica anche, se non si vuole rischiare che le dichiarazioni di principio restino come mera testimonianza di buone intenzioni impotenti.

La partita e tuttora aperta, ed incerta. Nel movimento dei quadri, che si sta organizzando in forme ancora non definite e consolidate, ci sono pericolose spinte alla separazione corporativa. È bene chiarire che il corporativismo non sta nella coscienza delle proprie peculiarità, e nella volontà di costruirsi come forza autonoma. È questo, al contrario, un fattore dinamico e positivo. La tentazione corporativa sta, invece nella ricerca angusta di posizioni di privilegio, nella volontà di separazione dall’insieme del movimento dei lavoratori, nella ricerca di uno status sociale che assicuri, almeno formalmente, una posizione elevata nella gerarchia sociale. Queste tentazioni corporative potranno essere vincenti se il movimento operaio, di fronte a questo problema nuovo, resta incerto esitante, se non sa interpretare e organizzare le esigenze particolari, e legittime, di questi strati di lavoratori.

Ad esempio, noi non condividiamo la richiesta di un riconoscimento giuridico, che avvenga con l’introduzione della categoria dei quadri nella disciplina generale dei rapporti di lavoro. Non ci convince questa proposta, anche se comprendiamo e apprezziamo le motivazioni da cui essa sorge, l’esigenza appunto di affermare in modo autonomo il proprio ruolo nel processo produttivo. Ma perché dovremmo erigere nuovi steccati, fissare rigide separazioni, quando è evidente che tutto il problema dell’organizzazione del lavoro, delle sue trasformazioni, va visto in una visione unitaria? La proposta, che a noi sembra la più corretta, di rinviare alla contrattazione tutte le decisioni in merito a tale questione ha però un senso e una sua forza persuasiva solo se si affermano, nei fatti, nuovi comportamenti e nuovi indirizzi da parte delle organizzazioni sindacali.

In sostanza, i quadri possono stare dentro l’esperienza del sindacato se vi trovano uno spazio, una loro autonomia, la possibilità di un confronto e di una dialettica feconda. In questo spirito, occorre riflettere anche intorno al problema delle forme di rappresentanza, nei consigli di fabbrica, e nelle istanze territoriali e di categoria del sindacato. I meccanismi attuali solo raramente riescono ad assicurare una presenza significativa dei quadri. Sarebbe utile una ricerca precisa e documentata su questo punto, sapere come stanno effettivamente le cose, studiare nuove ipotesi di elezione e di funzionamento dei consigli di fabbrica e degli altri organismi sindacali. C’è spesso, quando si affrontano problemi di questa natura, una forza d’inerzia che vede in ogni ragionamento critico e in ogni proposta di innovazione il segno di un attacco inaccettabile al sindacato dei consigli. Si discute di riforma della Costituzione, e non credo che ciò debba fare scandalo; non è giunto il momento anche di un bilancio ragionato e di una riflessione attenta su questa straordinaria esperienza di partecipazione operaia, sui problemi che essa solleva, sui passi in avanti che è possibile fare?

E c’è, infine, una questione più stringente e attuale: c’è il dato della crisi che ha investito parti decisive del nostro apparato produttivo, c’è il compito arduo e impegnativo di controllare e guidare un processo assai complesso di ristrutturazione, di innovazione tecnologica, di risanamento. Vogliamo impedire che la necessaria riconversione sia utilizzata come occasione per dare un colpo alla forza del movimento sindacale, che essa sia guidata in modo unilaterale dai calcoli politici e dagli interessi di parte dei gruppi capitalistici. C’è allora bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali, e di una capacità nuova del movimento operaio di misurarsi su questo terreno, di non chiudersi nella difesa dell’esistente e di avanzare proposte, soluzioni, idee positive per lo sviluppo del nostro apparato produttivo.

È possibile fare questo senza coinvolgere i tecnici, i quadri, i dirigenti? È possibile vincere questa partita così difficile ed impegnativa senza costruire nella fabbrica una rete vasta e articolata di collegamenti, di convergenze, di alleanze? Certo, anche lo stesso ruolo dei quadri nel processo produttivo va discusso, verificato. In una nuova organizzazione del lavoro non reggono più posizioni che siano solo gerarchiche, di comando, che non siano giustificate da un effettivo contenuto di professionalità. Dobbiamo verificare e discutere attentamente sulla base dei fatti, dei processi reali, delle esigenze materiali della produzione, assumendo come obiettivo e rivendicazione propria della classe operaia il più alto sviluppo delle forze produttive, della produttività sociale complessiva, l’utilizzazione più ampia di nuove tecnologie, la costruzione quindi di un’economia avanzata e moderna.

Su questo terreno, non ristretto e corporativo ma rispondente agli interessi nazionali più profondi, può costruirsi un’alleanza salda, non effimera, proiettata a costruire il futuro, a chiarire quali debbano essere i fini, i contenuti, di una politica nuova, di un’alternativa, di un nuovo blocco di forze sociali e politiche.



Numero progressivo: G18
Busta: 7
Estremi cronologici: 1981, 9 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 40, 9 ottobre 1981, pp. 15-16