SULLA FRONTIERA DEI DIRITTI PER RILANCIARE LA COSTITUZIONE
di Riccardo Terzi
Della crisi della politica si danno due opposte interpretazioni. L’una sostiene che sono divenute indistinte le differenze, che la nitidezza del conflitto politico si è offuscata e non sono visibili progetti tra loro alternativi. La conseguenza è un venir meno della spinta partecipativa, perché non è più chiaro quale sia l’oggetto della competizione politica. La seconda tesi, all’inverso, attribuisce l’attuale disaffezione al permanente clima di rissa e di aggressività polemica, per cui si ha l’impressione che tutto venga strumentalizzato, piegato alle ragioni di una propaganda di parte. La politica, quindi, non ha più forza attrattiva perché è ancora sovraccarica di contrapposizioni ideologiche ormai prive di significato attuale.
Ne vengono due diverse indicazioni: più radicalità, oppure più moderazione. Più nettezza delle alternative, oppure più disponibilità pragmatica a trovare un punto mediano di convergenza. La mia personale propensione è decisamente per la prima di queste interpretazioni, e tuttavia ciò che oggi si manifesta è un incrocio di questi due aspetti, in quanto c’è nel contempo indistinzione e contrapposizione, tendenza all’uniformità dei linguaggi ed esasperazione del conflitto politico. Ed è proprio questa combinazione che risulta indigesta, perché non si rintraccia più nessuna proporzione tra il dire e il fare, tra ciò che la propaganda annuncia e ciò che effettivamente accade nella pratica concreta, e l’immagine di sé che offre la politica è quella di una infinita rissa senza contenuti. La democrazia vive di alternative, ma vive anche di confronto, di disponibilità reciproca a prendere in considerazione le opposte ragioni, di riconoscimento dell’altro all’interno di un processo in cui nessuno può disporre di una posizione privilegiata. La formula dovrebbe essere: radicalità nei contenuti, e moderazione nella forma. Si è invece prodotto un rovesciamento, e si determina perciò uno svuotamento del processo democratico, sia per mancanza di idee, di progetti alternativi, sia per effetto di uno scontro non mediabile tra opposti fondamentalismi.
Se poi le due cose si congiungono, se c’è il fondamentalismo della moderazione, se c’è quella forma di intolleranza che consiste nel rifiuto pregiudiziale di ogni ‘ideologia’, di ogni interpretazione che oltrepassa il quadro della realtà costituita, allora l’esito inevitabile è quello di un dominio di tipo autoritario. Noi ci stiamo pericolosamente approssimando a questo esito, a una democrazia che mantiene solo la sua forma, ma perde il suo contenuto, la sua forza vi tale, perché ogni potenziale conflitto viene pregiudizialmente disattivato e riassorbito, perché non c’è spazio praticabile al di fuori degli equilibri consolidati. Si può quindi configurare il seguente scenario: una competizione di grande asprezza, ma che si gioca sul medesimo terreno, dove quindi non è in discussione il «che fare», ma il «chi lo fa», dove il conflitto si svolge solo sul terreno dell’efficienza, della affidabilità, della competenza, nel quadro di un sistema chiuso di compatibilità economiche e sociali. Non voglio dire che questa involuzione sia già pienamente compiuta, ma solo che questa è una traiettoria possibile, e che molte forze spingono in questa direzione. In fondo, questo è il dilemma non sciolto dal Partito democratico: se essere il portatore di una diversa visione strategica, o se essere solo una forza di garanzia che si mette al servizio degli equilibri del sistema.
Naturalmente, non sono questi i termini dichiarati della discussione interna, ma questa è la sostanza. E là dove si dice: innovazione, modernizzazione, fine delle ideologie, vocazione maggioritaria, meritocrazia, dietro queste formule c’è l’idea di un partito che è di governo solo perché si candida a fare ciò che è già tracciato nella realtà delle cose, nei rapporti di potere, nella logica di un sistema sociale che non mette in discussione i propri fondamenti. Come si è detto in campagna elettorale: la società italiana è già in piedi, è solo la politica che è in ritardo. Quindi, servono solo riforme istituzionali, non riforme sociali. Serve garantire la governabilità. In questa linea si giunge fino alla follia masochistica di appoggiare un referendum fatto su misura per Berlusconi.
Ma come si può tenere insieme la difesa della Costituzione e il suo più plateale stravolgimento maggioritario? Sono giochi di equilibrio troppo audaci e spensierati per un partito che voglia tenere i piedi per terra.
Dopo la sconfitta elettorale, questa strategia comincia a essere messa in discussione, anche se solo parzialmente e a giorni alterni, e vediamo i segni, ancora troppo incerti, di un possibile cambiamento. Comunque, questo sarà il nodo del Congresso: se occupare il centro dello spazio politico perché non si sa da che parte stare, o se tentare di costruire una nuova centralità, sulla base di una diversa agenda politica, di una diversa scala delle priorità. La prima opzione è del tutto fallimentare, perché il centro, in quanto tale, è uno spazio vuoto, ed esiste solo se lo si riempie di contenuti. Se c’è un profilo politico forte, esso riesce a incidere in tutte le diverse direzioni; se invece si trasmette un messaggio debole e incolore, allora è come non parlare a nessuno. Il centro non va occupato, ma va conquistato.
La premessa necessaria per un confronto delle strategie è l’analisi della società e dei suoi conflitti. Un’analisi che è quasi sempre assente nel dibattito politico, che gira intorno a una rappresentazione retorica della ‘società civile’, senza mai indagarne seriamente le sue interne lacerazioni. Sappiamo solo che i partiti devono «aprirsi» alla società, ma non sappiamo affatto che cosa significhi questa apertura. O meglio, possiamo intuire che l’idea di fondo è quella di una politica che si propone solo di ‘accompagnare’ i processi reali, il che vale a dire che la politica non dispone di propri autonomi valori e obiettivi, ma è solo una funzione tecnica, quella funzione che rende più fluido tutto il sistema sociale, per cui non sono mai in gioco i fini, ma solo i mezzi. La politica è solo il notaio della società civile, che ne registra e ne certifica la naturale evoluzione. E allora, ovviamente, i diversi notai possono essere tra loro in concorrenza, ma la loro professione non ammette voli di fantasia, perché si occupa solo di ciò che c’è e non di ciò che potrebbe essere. È chiaro allora che la democrazia si svuota, perché nessuno si appassiona alle pratiche notarili.
Ma il mondo in cui viviamo non è un mondo di passioni spente, è anzi attraversato da forti conflitti. La neutralizzazione della politica, ridotta a funzione tecnica, ha solo l’effetto di spostare i conflitti su un altro terreno, fuori dallo spazio democratico, alimentando così sia l’intolleranza dei vari fondamentalismi, sia le spinte populistiche dell’antipolitica. Se la politica non sa rappresentare anche le passioni, le passioni si organizzano contro la politica. E ne viene una pericolosa miscela esplosiva. La destra è appunto questa miscela: le rabbie, gli egoismi, le paure di una società lacerata, come il materiale informe su cui costruire un potere autoritario. E in questo caso l’abilità manipolatoria della destra consiste nello scatenare queste pulsioni verso immaginari capri espiatori. Come spiega nelle sue opere René Girard, il capro espiatorio serve a ripristinare l’autorità, e la violenza è l’altra faccia del sacro. La Chiesa un po’ asseconda, un po’ contrasta questa logica, asseconda il potere, e si illude di temperarlo nelle sue forme più estreme, senza capire che la brutalità non è un accessorio, ma è la sua anima, la sua carta vincente.
Parlando di passioni, intendo insieme sia l’aspetto sociale sia quello culturale, che sono sempre tra loro intrecciati in diverse possibili combinazioni. Non mi persuade la tesi, sostenuta ad esempio da Touraine, che si sia consumato un passaggio dai conflitti sociali ai conflitti culturali, che il nuovo paradigma con cui interpretare il nuovo mondo che si annuncia sia fondato sulla «fine del sociale». Direi piuttosto che stiamo transitando da una struttura sociale relativamente semplice, dove sono chiaramente visibili le linee del conflitto, a una struttura assai più complessa, nella quale si incrociano e si sovrappongono molteplici linee di conflitto, e tutto ciò può essere rappresentato solo con una più intensa elaborazione culturale. Non c’è più l’evidenza di una società divisa in due campi contrapposti, e quindi il sociale non è visibile se non attraverso un lavoro di analisi e di interpretazione. Non si è dissolto, ma è più nascosto. E in questo senso è certamente vero che i problemi culturali sono oggi decisivi, che la grande questione che si è aperta è quella di dove sta la forza egemonica che sia capace di leggere la realtà. I movimenti sociali, se non riescono a competere sul terreno dell’egemonia, sono destinati al fallimento o alla marginalità. Si può anche dire che il compito della sinistra, in questo nuovo contesto, dovrebbe essere quello della riemersione del sociale, il che è possibile non rincorrendo un movimentismo fine a se stesso, non cavalcando qualsiasi forma di protesta, ma solo mettendo in campo una cultura politica che sia capace di misurarsi con i cambiamenti in atto.
Riannodare il sociale e il culturale, ritrovare quel nesso forte tra società e politica, tra la sfera degli interessi e la sfera dell’identità, su cui la sinistra ha potuto costruire nel passato la sua forza espansiva, questo è il difficile compito per il prossimo futuro. La crisi della sinistra è nella rottura di questa relazione, nella divaricazione tra un sociale primitivo, senza spessore politico, e una politica che si è volatilizzata, che non ha più radici nella materialità dei rapporti sociali. Se questa scissione viene consumata, non abbiamo due sinistre, ma nessuna sinistra.
È per questo insieme di ragioni che vedo oggi nella «questione sindacale» un nodo politico decisivo, da cui dipende gran parte del nostro futuro. Il sindacato è, infatti, un anello insostituibile di questa relazione che mette tra loro in comunicazione il sociale e il politico, è il sociale che si proietta nella politica e che apre con la politica un intenso rapporto dialettico. La sinistra storica aveva ben compreso la crucialità di questo tema, e il suo errore non è mai stato un errore di sottovalutazione, ma piuttosto l’errore di una relazione troppo stretta, che finiva per restringere gli spazi di autonomia del sindacato. Ora, è ormai assodato il risultato di un lungo cammino di autonomia, che ha progressivamente allentato tutti i tentativi di un diretto controllo politico sull’azione sindacale. Il problema non è più a chi spetta il primato, al partito o al sindacato. Il problema è: che uso fa il sindacato della sua autonomia, qual è il significato e la portata di questa autonomia. Autonomia è una parola ambigua (come tutte le parole), che può significare cose assai diverse. Può essere la recinzione di uno spazio più o meno protetto, all’interno di una logica corporativa, che delimita a priori il campo dell’intervento sindacale. O può essere l’originalità di un punto di vista, parziale perché guidato da una angolatura di parte, ma con una ambizione non settoriale, con l’idea cioè che quel punto parziale di osservazione sia capace di gettare una luce sull’insieme dei problemi della società. Il sindacato si trova sempre in bilico tra queste due possibilità, ed è esposto sempre al duplice rischio della chiusura corporativa, da un lato, e dall’altro di una ambizione totalizzante, che travalica le sue possibilità e le sue risorse. La diversità tra CISL e CGIL sta nella loro diversa esposizione a questi due rischi, anche se non c’è, a mio giudizio, una netta linea divisoria, una divaricazione «di principio», ma c’è piuttosto, nell’insieme del movimento sindacale, una oscillazione che di volta in volta tende nell’una o nell’altra direzione. Non è la CGIL, ma la CISL di Pierre Carniti, ad aver inventato la formula del sindacato come «soggetto politico». E gli equilibri interni alle maggiori confederazioni sono sempre equilibri mobili, che possono mutare in rapporto alla situazione politica esterna e alla composizione dei gruppi dirigenti. Le differenze, quindi, non sono l’effetto di una originaria identità, ma sono il risultato di un confronto sempre aperto di fronte al variare delle situazioni contingenti.
C’è, in tutte le confederazioni sindacali, un’enfasi retorica sulla loro identità, a cui si fa ricorso soprattutto nei momenti di difficoltà, ma è solo un artificio che serve a stringere le fila dell’organizzazione. E fortunatamente questa retorica identitaria si dissolve non appena si ritrova il filo di un’azione unitaria. I sindacati sono divisi, ma non da barriere ideologiche, e per questo le loro divisioni, così come le loro convergenze, non sono mai definitive. Questo carattere oscillante delle relazioni sindacali è anche, indubbiamente, un punto di debolezza, perché risulta difficile fissare una strategia di lungo periodo, e pesano più del necessario le convenienze del momento, le contingenze, i calcoli di opportunità. Ma di questo comunque si tratta, di un confronto sempre aperto e sempre incerto nei suoi esiti, e non di opposte culture e concezioni tra loro incomponibili.
Si tratta ora di capire quale sia oggi, in questa determinata situazione politica, la causa dell’attuale rottura sindacale, qual è il processo che l’ha determinata e quali possono essere, realisticamente, i percorsi per uscire da questo stato di divisione. La rottura ha un’origine essenzialmente politica. È la politica dell’attuale governo che ha lavorato consapevolmente a un esito di divisione, di divaricazione delle strategie, per ottenere il risultato di una complessiva neutralizzazione della forza sindacale. Non è solo un attacco alla CGIL, ma è un attacco alla confederalità, alla rilevanza del sindacato come soggetto politico. Lavorando su quella ambiguità non sciolta, su quella oscillazione tra corporativismo e politicizzazione, si punta a estremizzare entrambe queste tendenze, mettendo così complessivamente fuori gioco il sindacato: da un lato, un sindacato che si adatta al nuovo quadro politico e che si ritaglia in questo quadro un suo limitato spazio corporativo, dall’altro un sindacato che viene spinto verso una contrapposizione di principio, di tipo ideologico, fuori quindi dal terreno che è proprio delle relazioni sindacali. C’è una manovra a tenaglia, che indebolisce l’insieme del sindacalismo italiano, in quanto lo rende o subalterno o impotente, piegato alle ragioni della politica, senza nessuna forza propria, o esposto in un conflitto frontale che ne compromette le specifiche ragioni sindacali. Questo è il disegno, e c’è da capire fin dove le confederazioni riescono a non farsi fagocitare da questa manovra. La CISL e la UIL sembrano guidate da un realismo pessimista e rassegnato, e in sostanza si adattano a questa manovra, sperando forse di ottenere una legittimazione che le rafforzi nel prossimo futuro. È un calcolo azzardato, ma possibile, anche perché questa condizione di passività e di rassegnazione caratterizza gran parte della società italiana. La CGIL ha deciso di sottrarsi a questo gioco, di mettersi di traverso, e possiamo dire che per fortuna qualcuno ha deciso di dare battaglia. Ma la CGIL ha il problema di misurare e calibrare questa sua posizione, senza farsi spingere verso posizioni estreme e troppo politicizzate, e senza rompere il filo del dialogo unitario.
Il risultato che il Governo tende a perseguire, con questo tipo di operazione, è l’instaurazione di una forma di governo che può totalmente prescindere dalle ragioni del sindacato. È il modello del decisionismo autoritario, e il sindacato è riconosciuto solo in quanto si adatta a una funzione del tutto subalterna. In questa logica, non c’è un sindacato vincente e uno perdente, ma c’è una generale disfatta. Ciò che colpisce è la scarsa percezione di questa comune minaccia, e il permanere di un conflitto che è distruttivo per tutti. Se nelle confederazioni dovessero prevalere i fondamentalismi identitari, questo sarebbe esattamente l’esito voluto dal governo di centrodestra. È quindi il momento di una paziente ricucitura dei rapporti unitari, se vogliamo tenere aperto uno spazio di azione.
Ma questo lavoro di ricostruzione non può limitarsi alla mediazione diplomatica, che ha inevitabilmente il fiato corto, ma può avere successo solo se c’è la capacità di spostare in avanti tutta la discussione, verso nuovi scenari strategici, che siano tali da rimuovere il blocco delle attuali contrapposizioni. Non si tratta solo di reggere l’urto dell’offensiva politica della destra, ma anche e soprattutto di ridisegnare la funzione del sindacalismo confederale nel quadro delle trasformazioni sociali e culturali che si stanno producendo. Per questo, una linea solo difensiva non è sufficiente. E se il sindacato si limita a presidiare le vecchie trincee, rischia di essere spiazzato, perché la sua forza di rappresentanza resta legata più al passato che al futuro. L’unità, per non essere un fragile punto di compromesso, deve quindi essere il risultato di un nuovo lavoro progettuale.
A me sembrano tre i terreni principali di una possibile esplorazione strategica: la cittadinanza, la democrazia, il territorio. Nell’idea di cittadinanza si riassume la complessiva condizione sociale e si realizza una visione più ampia, che considera il lavoratore non solo nel rapporto di produzione, ma nel complesso delle relazioni che condizionano e determinano la sua esperienza di vita. Si tratta cioè di intervenire in tutto l’intreccio più complesso che caratterizza oggi il conflitto sociale e anche nei suoi aspetti più propriamente politici e culturali, non per rimuovere il tema del lavoro, che resta essenziale, ma per collocarlo in una visione d’insieme. In questo modo si ridà attualità e forza all’idea del sindacato come soggetto politico, e si allarga la sua iniziativa in nuove direzioni, cercando di costruire un progetto sociale di più largo respiro. Con questa impostazione, si rifiuta la logica corporativa nella quale si cerca di rinchiudere il sindacato, e si chiarisce quindi il senso della sua autonomia, in un rapporto dialettico con il sistema politico. La cittadinanza è quindi la nuova frontiera che il sindacato deve esplorare, per rappresentare i lavoratori in tutta la complessità della loro condizione.
In questa prospettiva, il tema della democrazia è assolutamente cruciale, proprio perché si tratta di far uscire le persone da un approccio corporativo e di renderle protagoniste e responsabili nell’insieme della loro esperienza, di lavoro e di vita. La democratizzazione può essere la grande risorsa strategica per il sindacato, per allargare il consenso, per suscitare nuova partecipazione, per aprirsi alle nuove figure sociali. Il tema non è solo quello della trasparenza delle procedure decisionali del sindacato, della verifica del consenso nella pratica contrattuale, ai vari livelli, ma anche quello, più impegnativo, dei possibili strumenti di controllo democratico sulla vita economica, per dare ai lavoratori e alle loro rappresentanze la possibilità di incidere, di condizionare le scelte di politica economica, nell’ambito aziendale come in quello territoriale. È un antico problema irrisolto, per il quale non ci sono formule risolutive, ma ci sono solo esperienze parziali, suggestioni, proposte. Le quali tutte devono essere prese in considerazione per tentare di costruire un progetto di insieme. L’idea di un «sindacato partecipativo» è ancora tutta da definire. È un terreno di lavoro che vale la pena di esplorare, senza schemi precostituiti, senza rigidità, e senza facili illusioni.
Infine, è ormai d’obbligo indicare il territorio come il luogo su cui investire le risorse del sindacato. Ma, al di là delle dichiarazioni di principio, non si è fatto molto per dare davvero concretezza ed efficacia a una politica di articolazione territoriale, e la pratica prevalente continua a essere una pratica di centralizzazione. Anche il nuovo modello contrattuale, sancito con l’accordo separato, non segna nessun effettivo spostamento verso il territorio e non offre nessuna garanzia per un nuovo sviluppo, quantitativo e qualitativo, della contrattazione di secondo livello. Il territorio continua a essere marginale, e questa situazione non sarà rimossa fino a quando non si opererà una svolta, nei comportamenti pratici, nella distribuzione delle risorse, nella gerarchia interna dell’organizzazione, nell’architettura complessiva delle relazioni sindacali. Su questi terreni siamo chiamati tutti a innovare e a sperimentare nuove soluzioni. E più siamo capaci di guardare al futuro, più abbiamo la possibilità di liberarci del peso delle attuali divisioni, e in questo lavoro non ci sono primogeniture, egemonie da confermare o da conquistare, perché dobbiamo saper entrare in una nuova dimensione, dove le storie e le identità del passato hanno un valore relativo. Questo dunque è il punto: il sindacato o si rinnova e lavora a una nuova prospettiva, o rischia di impantanarsi in una situazione che lo rende sempre più marginale.
Ho solo indicato, in modo ancora inevitabilmente generico, alcune possibili piste di ricerca. E penso che a questa ricerca debba essere interessata anche la politica, non per ripristinare le forme ormai superate del collateralismo, ma per costruire, politicamente, le condizioni di una nuova stagione di partecipazione democratica. Le tre questioni della cittadinanza, della democrazia e del territorio richiedono anche una declinazione politica, e ciò che sta accadendo con il dilagare di una politica dell’immagine è proprio la rimozione di questi problemi. A un partito di sinistra (e penso in primo luogo al Partito democratico) non si chiede di immedesimarsi con le ragioni del sindacato, perché un partito ha una logica più complessa, ma di offrire al sindacato una cornice, politica e istituzionale, nella quale esso possa sviluppare pienamente il suo ruolo. Per questo non mi con vince la formula del partito «laburista», perché ciò ci rimanda a una stagione politica ormai sorpassata. Io penso piuttosto a un partito che mette al centro della sua iniziativa tutto il tema della «democratizzazione», della società, dell’economia, delle istituzioni, e con ciò offre al sindacato quello spazio di autonomia e di riconoscimento che lo fa uscire dalle secche del corporativismo. Il nodo cruciale sta nel modo in cui si intende la democrazia, come un regime formale che deve essere solo salvaguardato, o come un processo sempre aperto che deve tendere a una progressiva trasformazione degli assetti di potere. C’è sinistra politica solo se si intende la democrazia in questo suo secondo significato. Politica e sindacato trovano allora qui, in questo progetto di democratizzazione, il loro possibile punto di congiunzione, in una comune idea di cittadinanza, di partecipazione, di universalizzazione dei diritti, interpretando la nostra Carta costituzionale come il terreno di un combattimento, di una concreta e quotidiana testimonianza, perché è proprio sulla frontiera dei diritti che si sta svolgendo un duro scontro politico. E, di fronte a questo conflitto, non si può stare nel mezzo, ma si deve prendere posizione.
Busta: 8
Estremi cronologici: 2009, maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: “Argomenti umani”, maggio 2009, pp. 17-27