[SULLA CENTRALITÀ DEL LAVORO E DEI SUOI RAPPRESENTANTI]

[Seminario a scienze Politiche con la partecipazione di Luciano Gallino - Pisa 22 giugno 2012]

Intervento di Riccardo Terzi in qualità di dirigente CGIL a incontro con Luciano Gallino. L’identificazione del seminario non è certa. Il testo è con tutta evidenza la trascrizione dell’intervento.

A me fa molto piacere essere qui oggi a questo incontro con Luciano Gallino, che è stato in questi anni un punto di riferimento molto importante per tutti noi per le sue analisi, per le sue prese di posizione. Quindi, è un interlocutore che ci interessa molto.

Io cercherò di fare qualche ragionamento sul tema del lavoro, innanzitutto. Perché il lavoro è diventato, nella modernità, il fondamento della cittadinanza. O meglio, così sta scritto in modo solenne nella nostra Costituzione.

Ma questa è una novità nella storia, perché non era così nei secoli passati. Anzi, se guardiamo alle origini della democrazia nell’antica Grecia era esattamente il contrario, cioè quelli che lavorano sono esclusi dalla cittadinanza. Nella modernità si rovescia tutta una tradizione e si stabilisce questo nesso molto forte, per cui il lavoro appunto è l’elemento essenziale che definisce l’identità della persona, i diritti fondamentali della persona. Quindi non è soltanto un mezzo, uno strumento per avere reddito, ma è il momento in cui la persona si realizza, si realizza nella pienezza delle sue facoltà.

Ora, questo rapporto così stretto negli ultimi anni, negli ultimi decenni da varie parti viene messo in discussione.

C’è stato tutto un filone di cultura politica, che ha teorizzato in varie forme la fine della civiltà del lavoro: da Ritkin a Ulrich Beck, ad altri. La fine del lavoro, con una visione secondo me un po’ mitica di una società che si libera della pesantezza del lavoro e si apre ad una dimensione nuova, più aperta, più libera.

Anche nella coscienza individuale, ci sono stati e ci sono dei mutamenti, che in molti casi il lavoro viene avvertito soltanto come un mezzo, come uno strumento per avere il reddito. E la persona si realizza fuori dal lavoro: nella vita privata, nel tempo libero.

Ma soprattutto, poi questo è il dato di fondo al di là di quelli che sono questi aspetti più di carattere culturale, l’economia reale così come si è sviluppata almeno a partire dagli anni ‘80, con il dominio delle politiche neo-liberiste come ricordava ora Vanna, ha sempre più marginalizzato il lavoro.

Al centro c’è il mercato, e il lavoro deve adattarsi alle variabilità del mercato. Diventa una componente secondaria del processo.

E gli effetti di questo li vediamo; è sotto i nostri occhi un processo di marginalizzazione del lavoro, di precarizzazione delle condizioni di lavoro con tutto quello che ne consegue.

Allora, la domanda che possiamo farci a questo punto è se ha ancora un senso parlare di centralità del lavoro; questa formula che ogni tanto ricorre nel dibattito pubblico, qualche volta è una formula puramente retorica. Ma ha ancora un senso parlare di centralità del lavoro, o questo ormai… così, è un residuo di una vecchia cultura novecentesca destinata a uscire di scena?

Io credo che abbia un senso, però va riconquistata questa idea della centralità del lavoro. Oggi non c’è la centralità, per le ragioni che dicevo prima: perché c’è un dominio del mercato e perché anche sul piano della coscienza individuale spesso il lavoro non è più l’elemento fondamentale.

Va riconquistata questa idea e questo dovrebbe essere il discrimine tra una politica di destra e una di sinistra; faccio fatica a vederne un altro, cioè devo distinguere che cosa è destra e che cosa è sinistra… lo vedo qui, cioè dall’atteggiamento sul tema del lavoro.

Una sinistra che si libera del tema del lavoro, finisce nel nulla. Finisce nell’irrilevanza.

E allora, vediamo di ragionare un po’ su questo e vedere che cosa può significare e che cosa deve essere una rinnovata idea di centralità del lavoro. Intanto questo dovrebbe avvenire nella politica economica generale; centralità del lavoro vuol dire che l’idea guida, la priorità assoluta che dovrebbe orientare l’insieme delle misure delle politiche economiche, deve essere la realizzazione di una piena occupazione.

Così non è in questi anni, per il dominio che dicevo prima delle politiche liberiste è avvenuto esattamente il contrario. Tanto è vero che abbiamo dei risultati sempre più gravi ed allarmanti di disoccupazione, in particolare disoccupazione giovanile in Italia ma in tutta Europa. Qui il ragionamento non è molto diverso, tra l’Italia e gli altri Paesi; noi abbiamo qualche anomalia in più anche dal punto di vista politico, però il dato è un dato generale. Ora, voi sapete, la CGIL sta lavorando su un progetto di piano per il lavoro; è in corso una riflessione, un’elaborazione, cercando di coinvolgere anche vari esperti che possano aiutare a definire meglio i caratteri, gli obiettivi possibili di un piano per il lavoro ma mettendo al centro, appunto, il tema dell’occupazione. Gallino ha scritto molto su questo, avanzando anche delle proposte precise e concrete.

Noi abbiamo una serie di problemi irrisolti in Italia; pensiamo ad esempio a tutto il problema del risanamento ambientale, mettere in sicurezza il territorio. Ogni anno ci sono alluvioni, crolli e però ogni anno si ripetono questi fenomeni, senza che ci sia un lavoro sistematico per rimettere in sicurezza il territorio. Dico, qui c’è spazio per una occupazione giovanile e non solo, per risolvere dei problemi che sono urgenti, che sono fondamentali. Lo stesso vale per quanto riguarda tutto il tema del ciclo dei rifiuti, per quanto riguarda la cura del patrimonio artistico. Quindi c’è la possibilità, qui ci vuole appunto la volontà politica; la volontà politica per mettere il lavoro al servizio di esigenze fondamentali per la nostra vita collettiva, con un ruolo pubblico.

Qui, passata l’idea che il pubblico deve sparire, deve ridursi sempre più il perimetro dell’intervento pubblico ma alcune questioni non le potrà mai risolvere la spontaneità del mercato.

Se vogliamo risolvere alcuni problemi di fondo dell’equilibrio politico, sociale, civile del Paese, occorre una regia pubblica; un intervento diretto in alcuni casi, e comunque una regia che attiri anche risorse private ma dentro – appunto – un progetto collettivo che risponde all’interesse generale.

Poi c’è tutto il tema mercato del lavoro: abbiamo visto le politiche di questo governo. L’idea che ha guidato il governo è quella che una maggiore liberalizzazione del mercato del lavoro, che un mercato del lavoro con meno vincoli, più dinamico, dovrebbe consentire uno sviluppo dell’occupazione, una prospettiva nuova per i giovani. C’è stata molta… si è molto lavorato su questa retorica del rapporto intergenerazionale: per dare un futuro ai giovani, bisogna… non dico rottamare i vecchi, questo è qualcun altro che l’ha detto, ma bisogna comunque indebolire le tutele. Il mercato del lavoro è troppo rigido, troppo ingessato. Bisogna liberarlo di questi vincoli, per avere un maggiore dinamismo. In realtà, così non è.

Non credo che i giovani abbiano avvertito grandi vantaggi dalle misure adottate dal governo; anche perché quello che è mancato nel governo, è un intervento forte, significativo su quelli che si chiamano gli ammortizzatori sociali, sulla sicurezza.

Molti hanno fatto riferimento all’esperienza danese, alla cosiddetta flexicurity che vuol dire passare dalla difesa del posto di lavoro alla protezione del lavoratore e della sua carriera lavorativa.

E ormai tutti dicono, non ci può essere più il mito del posto fisso, si deve passare, nel corso della vita, da un lavoro all’altro. La protezione del lavoratore non può essere sul singolo posto di lavoro. Per questo c’è stato anche tutto l’attacco all’Articolo 18. Ma un sistema di flexicurity così come esiste in alcuni Paesi, in particolare in Danimarca, funziona perché c’è appunto un sistema molto forte di ammortizzatori sociali, e un meccanismo molto efficiente di avviamento al lavoro. Perché allora, se nel passaggio da un lavoro all’ altro ci sono… c’è una rete sociale di protezione molto forte e c’è un sistema che funziona, per cui i periodi di inattività sono periodi brevi, si trova facilmente un altro lavoro, allora il sistema è sostenibile.

Noi, queste condizioni non le abbiamo. Anche queste richiedono un intervento pubblico molto forte, e quello che ha fatto questo governo è stato soltanto quello di indebolire il meccanismo di protezione dell’Articolo 18, senza creare altre risorse. Ancora più evidente è quello che… gli effetti sociali pesanti e negativi che si sono determinati con la riforma previdenziale: l’aumento forzoso dell’età pensionabile, senza riuscire a governare il mercato del lavoro per le persone anziane. Forse bisognerebbe trovare un’altra parola, invece che mercato del lavoro.

Non lo so Prof. Gallino, perché l’idea che il lavoro sia un mercato… però, bisognerebbe trovare un modo diverso per… perché anche le parole sono significative; danno il senso di quello… dell’ideologia dominante. Il lavoro, cos’è? È un mercato e quindi che agisce secondo le regole del mercato.

Comunque, per quanto riguarda l’età pensionabile se si aumenta l’età pensionabile ma non si risolve il problema del lavoro per le persone anziane, quelli tra i 50 e i 60 anni che sono considerati troppo vecchi dalle imprese per lavorare e troppo giovani per andare in pensione. Non sono soltanto gli esodati, non c’è soltanto l’emergenza esodati; la riforma così com’è, renderà strutturale e permanente una falla sociale gravissima in questa fascia d’età. Quelli, appunto, che non lavorano non perché non vogliono lavorare, ma perché vengono estromessi dal lavoro nelle imprese. Perdono il lavoro e non hanno più nessuna possibilità di trovare una nuova occupazione.

Poi c’è quello che dicevo prima, che è la dignità della persona nel lavoro. Il lavoro è il fondamento della cittadinanza e dell’identità.

Qui ci sono gli effetti di una condizione di permanente precarietà, instabilità, incertezza. Questo incide proprio sulla condizione di vita, sulla condizione esistenziale, sulla sicurezza di sé; sulla possibilità di programmare e progettare il proprio futuro. Questa condizione di precarizzazione permanente, ha cambiato le condizioni di vita delle nuove generazioni in un modo drammatico.

E questo, appunto, è uno dei nodi: non soltanto creare occupazione, ma anche dare un senso nuovo, un’identità più forte al lavoro. Gli effetti sociali e anche psicologici, esistenziali di questa condizione di precarietà sono molto forti, e credo sia un punto sul quale occorrerà intervenire. E il lavoro, poi, è una componente decisiva nel funzionamento dell’economia e nel funzionamento delle imprese. Qui c’è da riaprire, credo, una battaglia per quella che si chiama la democratizzazione dell’impresa; per una democrazia economica.

Quello che in passato… almeno, quello che stanno cercando di fare alcuni settori imprenditoriali a partire dalla Fiat è, con un’idea del tutto autoritaria per cui c’è il comando unico e i lavoratori non hanno nessuna possibilità di incidere sulle decisioni; possono soltanto… anche le stesse organizzazioni sindacali, o sono addomesticate o sono escluse.

Questa è la logica della Fiat. Mentre l’impresa è un sistema sociale in cui entrano in gioco diversi fattori, anche diversi interessi; è chiaro che c’è un punto di vista dell’impresa, e un punto di vista della soggettività dei lavoratori che sono punti di vista diversi. Il conflitto è nelle cose.

Poi, il conflitto deve può essere regolato. Anzi, si deve lavorare per una mediazione, ma riconoscendo punti di vista diversi e cercando un punto di equilibrio. E questo avviene attraverso, appunto, la contrattazione sindacale e la partecipazione dei lavoratori.

L’idea di un comando tutto verticale e gerarchico, è un’idea che invece umilia i lavoratori e impedisce l’esercizio della loro autonomia.

Tutto questo, poi, si lega al tema del welfare. Lavoro e welfare non sono due capitoli distinti; fanno parte della stessa questione generale, perché il welfare… intanto il welfare non è quello che ci viene detto, un peso non più sopportabile. L’Welfare è anche un fattore di sviluppo, di crescita. Una politica di welfare crea sviluppo, crea occupazione.

E il welfare, poi, è la condizione per garantire quella dignità delle persone; in una fase di incertezza, tutti dicono – giustamente, insomma -che con l’effetto della globalizzazione di rendere le nostre economie più fragili, più incerte. Ma se è maggiore l’incertezza, deve essere maggiore l’intervento di messa in sicurezza della vita delle persone. Quindi c’è bisogno di più welfare, non di meno welfare.

E anche qui c’è un discrimine fondamentale, che credo che sia quello del carattere universale del welfare, l’idea di un welfare inclusivo, che vale per tutti. Anche qui, quello che sta scritto nella Costituzione: sta scritto la Repubblica fondata sul lavoro, e anche l’universalità e l’eguaglianza dei diritti fondamentali.

Primo campo in cui si vede il problema, è quello ad esempio dell’immigrazione. Qui, come dare diritti; come avere una politica inclusiva e non avere una manodopera addetta ai lavori più pesanti e senza nessuna protezione, senza nessun diritto né politico, né civile.

L’universalismo del welfare: io credo… ecco, qui sono aperti molti fronti, perché c’è stata una teorizzazione in questi anni, soprattutto da parte del precedente Governo – penso al Ministro Sacconi – l’idea, appunto, lo Stato si ritira, il welfare viene affidato alla società civile. La bilateralità, le fondazioni bancarie, la sussidiarietà come privatizzazione.

E allora, qui c’è un tema che riguarda molto da vicino anche la nostra attività sindacale.

È un tema con cui dovremo confrontarci con le nostre categorie, perché tutte le esperienze di welfare contrattuale o di welfare aziendale… che ci sono, no? Questa tendenza rischia di scardinare il sistema universalistico, che chi ha la forza si conquista il suo piccolo pezzetto di welfare, e però c’è una frantumazione del mondo del lavoro e una frantumazione dei diritti. Quindi il tema del welfare e del suo universalismo, è un tema che è al centro del dibattito politico e al centro, anche, della stessa esperienza sindacale.

Ora, come ricordava Vanna siamo vicini ad una prova elettorale che sarà impegnativa. Qui dovremmo, nella nostra autonomia, dire qual è secondo noi l’agenda politica. Oggi è di moda parlare di agende politiche: l’agenda Monti… e qual è l’agenda? L’agenda politica che dovrebbe definire un programma di sinistra, ha in questi due grandi temi – lavoro e welfare – il punto fondamentale.

Quindi, su questo poi dovremo misurare le posizioni politiche, le proposte e intervenire attivamente. Secondo me è anche una grande occasione, no? Dopo il lungo periodo berlusconiano, e dopo questa esperienza del governo tecnico, un governo tecnico che al di là dei vari giudizi politici che possiamo dare, ma ha continuato in una linea di impostazione secondo un’ortodossia liberista che in realtà non ci fa uscire dalla crisi. Anzi, rischia di avvitare il Paese in una condizione di crescente arretramento, di recessione. Dobbiamo reimpostare una diversa agenda politica, e credo che il sindacato debba fare la sua parte in un confronto aperto, senza nessuna sudditanza, senza collateralismi, senza subalternità ma entrando in campo con forza con le nostre idee.

Va beh, la Sinistra è stata un po’ troppo passiva, in tutti questi anni. Ha subito, un’egemonia liberista. La Sinistra deve avere la forza di riconquistare i suoi valore e di difenderli con forza, di fronte ad un avversario che – come dice Gallino – non ha smesso di fare la lotta di classe. E quindi, cerchiamo di attrezzarci per reggere la sfida.

 

Condividendo le cose dette da Gallino, posso essere abbastanza breve. Mi pare un punto importante che il sistema di welfare, il modello sociale europeo è un punto di forza dell’Europa. È un punto di forza che oggi, per varie ragioni, viene messo in discussione dalla stessa politica europea.

Si è detto – lo ha spiegato bene Gallino – non è affatto vero che il sistema di welfare è insostenibile dal punto di vista economico; così non è. Può essere anche un fattore di sviluppo. Penso, ad esempio, a tutto il settore dell’istruzione; gli investimenti nel capo dell’istruzione e della ricerca sono, evidentemente, una delle ragioni di forza e di sviluppo di un Paese. Noi, credo, dobbiamo quindi difendere questa linea. Mettere, cioè rifiutando la tesi che bisogna ridimensionare lo stato sociale, insistere perché ci sia un forte investimento in Europa e in Italia, sulle politiche sociali. Istruzione, sanità, sistema previdenziale… qui ha già chiarito bene Gallino il problema anche di riequilibrio del bilancio dell’INPS.

Secondo aspetto, questo della globalizzazione. È chiaro che entriamo in un processo in cui i pesi cambieranno, stanno già cambiando: ci sono potenze emergenti nell’est asiatico come in America Latina. In questo quadro l’Europa deve, non soltanto appunto difendere il suo modello come dicevo prima, ma costituirsi come una potenza politica. Non è affatto detto, che l’Europa debba essere destinata al declino e al tramonto; l’Europa deve, però, consolidare la propria unità. Costituirsi come una potenza politica unitaria.

Quando si dice cessione di sovranità, io credo che sia necessario prevedere una cessione di sovranità dagli Stati nazionali alla dimensione europea. Il problema è se cediamo sovranità a tecnostrutture non democratiche, o cediamo sovranità ad un’Europa politica democratica. Questo è il punto. Quello che manca in Europa è questo, una struttura politica democratica.

Perché il Parlamento, l’unico organismo eletto – il Parlamento Europeo – ha poteri molto, molto limitati. Gli altri sono organismi che non rispondono democraticamente, a nessuno. Bisogna pensare, rilanciare un progetto europeo: fare dell’Europa gli stati Uniti d’Europa, fare una costituzione europea e quindi avere un processo radicale di democratizzazione di tutti gli strumenti di governo. Questo, è il punto.

Quindi non lo risolviamo, chiudendoci dentro la dimensionale nazionale o resistendo ai vincoli europei, ma modificando il meccanismo. E in questa dimensione internazionale, io credo che ci sono ritardi; qualcuno l’ha detto, ritardi nostri, ritardi del sindacato. Il sindacato europeo ancora non c’è, è una struttura di coordinamento ma la dimensione resta quella nazionale. Non c’è un’azione sindacale europea ancora, efficace; tantomeno a livello globale. Quindi, il problema di riorganizzare le forze del sindacalismo europeo e internazionale, è un problema decisivo perché se questo è il campo di gioco, il campo dove si decidono le cose ormai è l’Europa, o ci siamo anche lì con la nostra forza, oppure rischiamo di fare soltanto delle battaglie difensive.

Infine, si è parlato dei cambiamenti del lavoro, la precarietà, come affrontarla; io ho citato, appunto, l’esempio danese per dire che anch’io penso che non si torna ad un sistema come quello degli anni, dei decenni passati. Ci sarà sicuramente maggiore mobilità del lavoro, maggiore flessibilità, però va combinata con una politica vera di sicurezza.

E poi ci sono i cambiamenti nell’ organizzazione del lavoro, gli effetti dell’innovazione tecnologica che distrugge lavoro per un verso, ma ne crea anche di nuovo. I cambiamenti del lavoro vanno analizzati.

Ne parlavamo proprio in questi giorni, anche con Vanna: sarebbe utile mettere a confronto le diverse generazioni di dirigenti e di delegati sindacali. Vedere come è cambiato il lavoro, che rapporto c’è tra quella che è stata una grande esperienza sindacale negli anni ‘60 e ‘70, e come riattualizzarla oggi alla luce dei cambiamenti che sono intervenuti nel lavoro, nell’organizzazione, nei sistemi produttivi. Il sindacato, almeno quello con la classe deve farci i conti.

La politica può anche far finta che le classi non esistano, il sindacato è per sua natura di classe, nel senso che – appunto – rappresenta una parzialità, rappresenta gli interessi e le prospettive del mondo del lavoro. Noi dobbiamo farlo, e credo lo facciamo partendo da una visione autonoma: senza aspettare la sponda politica, senza correre dietro il mito del governo amico, noi facciamo la nostra parte.

Naturalmente, poi incrociamo la politica, perché molte delle questioni che affrontiamo sono questioni strettamente politiche, come quelle di cui abbiamo parlato oggi. Quindi abbiamo bisogno di un confronto con le forze politiche, di avere almeno degli interlocutori. In questi anni ci sono mancati spesso gli interlocutori. Avere degli interlocutori, con cui riaprire un confronto programmatico e rilanciare i nostri obiettivi, le nostre piattaforme sulla questioni che voi sapete: dalle pensioni allo stato sociale, alle politiche del lavoro. La prossima vicenda politica, dirà poi in che quadro stiamo, insomma, dove andiamo a sbattere. Se avremo ancora una situazione bloccata o se, come speriamo, ci possa essere non una soluzione automatica, perché nessuno ce la potrà dare, ma un’interlocuzione nuova del movimento sindacale, con i vari livelli di governo.

Vi ringrazio.



Numero progressivo: D14
Busta: 4
Estremi cronologici: [2012, 22 giugno]
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -