SONO IN MEZZO AL GUADO MA DICO SÌ AL NUOVO PARTITO
di Riccardo Terzi
Non ho aderito a nessuna mozione congressuale: l’elaborazione è ancora insufficiente. Sui contenuti gli schieramenti interni potranno essere scomposti e ricomposti
In questa prima fase di svolgimento del congresso straordinario del partito, il dibattito politico tende ad essere sbrigativamente semplificato e ad assumere la forma di un referendum.
L’esigenza di andare oltre gli schieramenti determinati dalle mozioni congressuali è un compito politico aperto, già da ora, e dovrà orientare il nostro dibattito e la nostra iniziativa in questi mesi, per impedire che venga sancita una divisione per molti aspetti artificiosa e nominalistica, e che venga rovesciato e spezzato il processo di costruzione di un nuovo gruppo dirigente avviatosi con il “nuovo corso” e con il 18° Congresso.
All’ordine del giorno non è la salvezza del partito dalla sua liquidazione, o la resa del conti definitiva con la resistenza di vecchi gruppi conservatori. Per questo il congresso non va giocato sul terreno distruttivo di uno scontro di vertice che mette in causa la stessa legittimità del gruppo dirigente.
La crisi del PCI e la necessità del suo rinnovamento politico non esplodono oggi, come conseguenza degli sconvolgimenti dell’Est europeo, ma sono il risultato di un intero ciclo politico, a partire dal fallimento della politica di solidarietà democratica.
È necessario un bilancio critico di questo decennio, del processi sociali e politici che hanno così profondamente modificato i rapporti di forza politici e i rapporti di potere tra le classi. Gli anni 80 sono stati gli anni della riorganizzazione e della modernizzazione capitalistica, di una nuova dislocazione del poteri, e l’elemento fondamentale e trainante di questo processo è la nuova qualificazione della grande impresa come “potenza politica”, che agisce su scala mondiate con una visione integrata degli aspetti produttivi, sociali e politici.
È in questo nuovo scenario che prende corpo un nuovo blocco politico moderato, che scommette sul dinamismo del mercato, sulla modernizzazione, sui valori del nuovo individualismo. Entra in crisi la politica come progetto, la democrazia come idea di autogoverno e la forma della politica, sull’onda del processo di concentrazione capitalistica, si centralizzano e si burocratizzano dando luogo ad una struttura oligarchica del potere.
Gli anni 80 hanno dunque questo segno regressivo, di arretramento e per molti aspetti di vera e propria sconfitta della sinistra, di messa in crisi delle sue stesse ragioni costitutive. Questo ciclo politico entra ora in una fase di maggiore dinamismo, per effetto anzitutto del mutamenti Internazionali. Ma non può essere ribaltato senza che sia messa in moto una vigorosa controffensiva: culturale, politica e sociale.
Per questo la questione chiave del congresso e il modo in cui noi ci collochiamo nel processo di modernizzazione in atto, è la risposta politica che diamo non al tema astratto della nostra identità metaforica, ma al tema concretissimo del processo sociale che si è in questi anni dispiegato.
Sta davanti a noi la seguente alternativa: o assumiamo come un dato oggettivo l’esito del processo di questi anni, e poniamo solo un problema di “partecipazione” al governo, assumendo l’orizzonte della politica come tecnica, come mera “governabilità” della società complessa, e portando a compimento una definitiva revisione ideologica, o, viceversa, tentiamo di ridefinire una nostra identità autonoma, partendo da un’analisi moderna del conflitto sociale e prospettando, in forme rinnovate, una strategia di trasformazione sociale, che dovrà avere la sua duttilità tattica, e il senso realistico di un processo graduale, ma dentro uno scenario storico-politico non appiattito sulle “compatibilità” dell’equilibrio di potere esistente. Il processo di rinnovamento va aperto con una grande chiarezza di prospettiva strategica, e conducendo da subito una lotta politica esplicita contro le posizioni che ci indirizzano verso la ripetizione ormai insignificante dei luoghi comuni e degli ideologismi di una generica tradizione “riformista”, che sopravvive ormai snervata come mera sovrastruttura a giustificazione dell’esistente.
Nella concretezza della situazione politica italiana, il problema che abbiamo di fronte è il consolidarsi di un blocco di potere moderato che tende ad assumere le forme di un “regime”, di un’alleanza organica nelle istituzioni politiche e nell’insieme dell’organizzazione sociale, ed è il fatto che il PSI è parte non accessoria di questo disegno.
Non è possibile quindi concepire la politica di alternativa come sviluppo lineare di un processo di progressivo avvicinamento tra PCI e PSI, fino a ipotizzare un possibile esito di unificazione. C’è una rottura politica da compiere. La politica di alternativa può essere pensata e praticata solo come un processo dinamico, che sposta la dislocazione delle forze, che rompe gli equilibri consolidati, e sposta in avanti, su un nuovo terreno, il confronto politico nella sinistra. In questo senso la formula dell’unità socialista è assolutamente deviante. I conti con il PSI vanno fatti, realisticamente, seriamente, senza facili scorciatoie, e senza inconcludenti settarismi. Lo “sblocco” del sistema politico italiano non avviene, quindi; rimuovendo la nostra anomalia, ma può avvenire solo come risultato di una lotta politica per una profonda riforma istituzionale e aggredendo i punti concreti di “saldatura” dell’attuale regime (sistema dell’informazione, intreccio politica-affari, degrado della pubblica amministrazione, ecc.).
L’autonomia del partito non può più oggi essere definita in termini ideologici. In questo senso si pone la necessità di oltrepassare la tradizione comunista che analizza il processo sociale nell’ottica del “primato della politica”, che pensa il rapporto tra il sociale e il politico come mediato dall’ideologia.
La crisi delle ideologie, la crescente autonomizzazione dei processi sociali, ci deve spingere a ripensare, in termini radicalmente nuovi, alle forme della politica, al rapporto politica-società. E ciò significa che l’unica garanzia di autonomia sta oggi in una capacità reale, effettuale, di rappresentanza sociale.
Si ripropone la necessità, in forme anche più stringenti e concrete, del carattere di classe del partito, assumendo questa espressione nella sua più larga accezione, con riferimento non solo al conflitto classico tra capitale e lavoro, ma all’intera gamma dei nuovi conflitti sociali, i quali tutti comunque rimandano ad una fondamentale contraddizione nella distribuzione del potere, e ad una fondamentale esigenza di democratizzazione della società in tutte le sue articolazioni.
Lo sviluppo tecnologico offre un nuovo terreno di lotta, perché esso crea le condizioni di una possibile liberazione dell’uomo nel lavoro, mentre d’altra parte il suo uso capitalistico finisce per accentuare le forme di dominio, di alienazione, di impossibilità a governare la propria vita e il proprio lavoro, di marginalizzazione del lavoro, in quanto elemento accessorio della tecnologia e del mercato. Nel lavoro resta il nostro punto di riferimento fondamentale, perché non c’è possibile disegno di trasformazione della società che non abbia qui il suo primo essenziale campo di verifica. La piena assunzione politica del conflitti è il discrimine che definisce come tale una forza di sinistra e ne definisce i campi privilegiati di iniziativa: il lavoro, il conflitto di sesso, l’ambiente, la contraddizione nord-sud, la democrazia come autogoverno, i diritti.
A partire da queste scelte di campo, si può delineare il “programma fondamentale” di una forza di sinistra che, di fronte al nuovo blocco di potere moderato, rilancia le proprie ragioni e la propria sfida.
Un nuovo rapporto con la società e con i movimenti presuppone un’autoriforma del partito. Dentro la vecchia concezione della politica non c’è possibilità vera di rinnovamento e rischia anzi di accentuarsi sempre più drammaticamente la distanza tra società e partiti.
Autoriforma significa anzitutto sperimentare la possibilità della politica come autogoverno, sperimentare la costruzione di una formazione politica che sia radicalmente democratica nel suo funzionamento, nel rapporto dirigenti iscritti, nelle regole del processo decisionale.
Non basta il riconoscimento del pluralismo interno, che può risolversi nella cristallizzazione delle correnti. Occorre un più profondo processo di rottura della macchina burocratica e di svolta anche culturale rispetto ad una tradizione, della II e della III Interazionale, che concepisce la politica come “coscienza esterna”.
Un partito che lavora su progetti, in comunicazione con la società, nel vivo del conflitti sociali, aperto ai diversi stimoli e alle diverse culture che nel conflitto vengono maturando, un partito che comincia da se stesso la più radicale operazione di democratizzazione può essere il punto di partenza per una più ampia aggregazione di forze.
Qui c’è un lavoro concreto da svolgere, un processo da costruire, attraverso momenti anche parziali di sperimentazione. Così può essere pensata e praticata “la svolta”, non come un atto spettacolare e verticistico, ma come l’avvio faticoso di una nuova prassi politica che impegna e mobilita con il massimo di tensione tutte le energie del partito.
Sarebbe un errore gravissimo considerare che il congresso sia già concluso, e che resti solo il compito di definire i rapporti di forza tra le diverse posizioni. Per questo non ho aderito a nessuna delle mozioni congressuali, perché credo che sia tuttora insufficiente l’elaborazione e che ancora non risulti con la necessaria chiarezza l’approdo politico del processo di rinnovamento che abbiamo avviato. La partita è ancora tutta aperta, e affrontando in modo più stringente la questione dei contenuti, dei programmi, e dei valori che dovranno definire la nuova formazione politica, gli schieramenti interni potranno essere scomposti e ricomposti.
Per queste ragioni, credo che sarebbe stata utile un’azione di differenziazione e di stimolo per qualificare in una chiara e determinata direzione la proposta della costituente, e che sia invece un errore il rifiuto pregiudiziale di questa prospettiva.
La sinistra del partito può avere una funzione importante se costruisce uno spazio politico di grande rigore e di grande attenzione ai contenuti programmatici, mentre al contrario se essa si attesta su una trincea di tipo ideologico finisce per essere il punto di coagulo di spinte conservatrici.
Voterò quindi a favore della proposta della costituente, riservandomi la più ampia autonomia di discussione e di iniziativa nella fase, ancora tutta da definire, di realizzazione e di gestione di questo processo. Si è comunque messo in moto un processo nuovo, che ha rianimato la vita democratica del partito, e ha suscitato attese, interesse, possibilità nuove di dialogo con la società.
Il partito entra in una nuova fase, e dovrà definire una sua nuova forma storica: una nuova cultura, un nuovo modello organizzativo, un nuovo rapporto con la società.
Se il congresso riuscirà ad avere questo carattere di ricerca, di tensione, di impegno progettuale, esso potrà superare, in avanti, le contrapposizioni e le logiche astratte di schieramento. Ho ancora fiducia che questo esito sia possibile.
Busta: 8
Estremi cronologici: 1990, 27 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “L’Unità”, 27 gennaio 1990