SINDACATO, NUOVI COMPITI E VECCHI METODI

di Riccardo Terzi

Nella discussione sulla crisi e sulle prospettive del sindacato affiora con insistenza, anche dall’intervento del movimento sindacale, la tesi che individua il passaggio decisivo da compiere nell’assunzione consapevole di una linea di cooperazione sociale. Si è esaurito un ciclo storico dell’esperienza sindacale, avviato alla fine degli anni sessanta e caratterizzato da una cultura del conflitto e da una prassi conseguente. Oggi lo scenario è completamente mutato: sono cambiati i riferimenti culturali, è cambiato il linguaggio, e appare ormai fuori tempo la concezione del sindacato come strumento attivo di una trasformazione sociale che rovescia i rapporti di potere. Mi sembra utile cercare di capire meglio il senso dei cambiamenti che stanno avvenendo e guardare criticamente alla situazione attuale del sindacato, che rischia, in questo nuovo clima, di smarrire le sue motivazioni.

Negli anni settanta la grande forza espansiva del movimento si reggeva su due cardini: una concreta capacità di rappresentanza degli interessi materiali dei lavoratori, che si realizzava in un’azione contrattuale su tutti gli aspetti della condizione di lavoro; una forte concatenazione tra la lotta di fabbrica e gli obiettivi di trasformazione sociale e politica. L’idea di fondo era che il rovesciamento dei rapporti di forza nella fabbrica avrebbe aperto un processo più generale di cambiamento degli assetti sociali e di potere. Dalla fabbrica alla società, allo Stato: un unico filo teneva insieme i diversi piani dell’iniziativa di massa.

La crisi è iniziata quando questo filo si è spezzato. Nei luoghi di lavoro le rapide trasformazioni tecnologiche e i cambiamenti nella stessa composizione della classe lavoratrice hanno messo in crisi le linee tradizionali di politica rivendicativa e hanno determinato una progressiva caduta della capacità di rappresentanza sociale del sindacato. D’altro lato, nell’azione politica, nel confronto con i vari governi, indipendentemente dalla loro maggioranza parlamentare, il movimento sindacale non è riuscito a imporre cambiamenti significativi e si è trovato impantanato in lunghe ed infruttuose trattative, che apparivano sempre più estranee e distanti rispetto agli interessi immediati dei lavoratori. Il percorso dalla fabbrica allo Stato si è rivelato, alla prova dei fatti, assai più intricato e complesso di quanto non si pensasse, con generosa semplificazione, negli anni delle grandi lotte operaie.

È in questo contesto che nasce la polemica sulla centralizzazione, la quale è indicativa della scissione che ormai si è operata tra il livello «politico» dell’azione sindacale e quello rivendicativo. Ma si tratta di una discussione deviante, perché assume come un dato di fatto questo stato di scissione, mentre il problema è piuttosto quello di ricomporre una trama unitaria, di rifondare, in termini nuovi, un discorso sindacale capace nuovamente di ripercorrere tutto il tragitto dalla fabbrica, alla società, allo Stato. Credo che sia essenziale questa capacità di iniziativa generale per il sindacato, perché esso rappresenta sì un segmento parziale della società, ma in quel segmento si rispecchiano tutte le contraddizioni della società. In questo senso il sindacato non può che essere un «soggetto politico», perché solo così esso può essere davvero rappresentativo dell’intero universo del lavoro dipendente.

Fino a quando rimane irrisolta l’esigenza di riunificazione del discorso sindacale, restano aperte solo due opzioni, entrambe unilaterali e che non risolvono, ma sanciscono la crisi del sindacato. La prima consiste nell’inserimento pieno di questa organizzazione dentro i meccanismi del mercato politico, accettando il prezzo di un offuscamento delle sue ragioni originarie in quanto organo di rappresentanza sociale diretta dei lavoratori. Il sindacato si istituzionalizza, ma senza poter ottenere come contropartita una sua maggiore forza contrattuale nelle relazioni politiche ed essendo destinato a giocare sulla scena politica un ruolo da comprimario, proprio in quanto non riesce più ad essere il veicolo di un movimento di massa organizzato. La seconda opzione consiste in un ripiegamento dentro un orizzonte meramente rivendicativo. Il sindacato deve ritirarsi da tutti i terreni che ha impropriamente occupato e limitarsi ai compiti suoi istituzionali di tutela dei lavoratori nel rapporto di lavoro. Ne consegue l’accettazione di una dimensione corporativa, nel senso che il sindacato non ha altra finalità all’infuori della rappresentanza di una data e delimitata sfera di interessi.

Entrambe le tendenze sono di fatto presenti ed operanti, e talora anche giustapposte. Esse possono convivere in quanto hanno in comune la negazione del ruolo conflittuale del sindacato e il suo adattamento nelle pieghe dei rapporti di potere esistenti, sia nell’ambito delle istituzioni politiche, sia in quello dell’organizzazione aziendale. Per questo mi sembrano sospetti i discorsi ricorrenti sulla concertazione, sulla cooperazione sociale, perché essi rischiano di legittimare teoricamente comportamenti di mera subalternità. Il sindacato subisce un’offensiva politica e ideologica fortissima, e non sempre è capace di reagire, di salvaguardare la sua autonomia.

C’è un clima culturale scivoloso, e che tende a scomporre e a destrutturare ogni tentativo di organizzazione sociale che si proponga finalità politiche generali. Dietro il concetto di «società complessa», in sé teoricamente corretto, c’è un uso ideologico distorcente per cui diviene impraticabile ogni analisi della trama complessiva della società e dei suoi assetti di potere. Ciò incide in profondità sull’azione e sul dibattito politico, spingendo tutti i partiti a liberarsi dal peso superfluo delle grandi idealità collettive che li hanno fondati e ad agire con una logica tutta pragmatica, e non può non incidere sulla vita del sindacato mettendone in discussione l’identità, i fini, i valori.

Per questo il problema della crisi del sindacato è così complesso e richiede un grande sforzo di ricostruzione culturale. Occorre analizzare e capire le forme nuove in cui si presenta oggi il conflitto. Sono cambiati anzitutto i soggetti. Se negli anni passati il movimento sindacale si era costruito e rafforzato a partire dal ruolo egemone di un forte nucleo centrale di classe operaia, oggi deve fare i conti con un’articolazione complessa del mondo del lavoro, in cui non esistono figure centrali ed egemoni. E anche il mondo delle imprese è cambiato con il declino del vecchio ceto imprenditoriale, con una più complessa organizzazione delle strutture di comando, con la diffusione di funzioni manageriali, amministrative, di ricerca. E soprattutto cambiano i contenuti del conflitto: esso tende a spostarsi su un terreno più propriamente politico e a concentrarsi intorno a questioni di potere. Ciò è evidente nelle posizioni attuali della Confindustria, le quali mettono in discussione non singole e particolari specificazioni dell’azione sindacale, ma il ruolo stesso del sindacato, il suo potere di contrattazione. Si può allora dire, con una certa semplificazione schematica, che l’oggetto principale del conflitto sociale si riferisce oggi non tanto alle condizioni in cui si svolge la prestazione di lavoro, ma piuttosto al sistema di organizzazione dell’impresa, alla sua struttura decisionale, alla possibilità o meno di costruire forme di controllo e di partecipazione dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali alle scelte di innovazione e di ristrutturazione e agli indirizzi strategici dell’impresa.

La questione centrale è una questione di democrazia economica. Questo può essere l’elemento costitutivo di una politica sindacale rinnovata, capace di agire su tutto l’arco delle questioni della società italiana di oggi. In una battaglia per la democratizzazione del potere, ai vari livelli, possiamo ritrovare le ragioni di un impegno politico complessivo del sindacato e la possibilità anche di organizzare e interpretare esigenze generali del mondo del lavoro, al di là delle sue diverse specificazioni e dei diversi interessi parziali presenti in esso. Questa battaglia richiede, per poter conseguire dei risultati effettivi, un intreccio di iniziativa articolata nei luoghi di lavoro e di iniziativa politica.

Prendiamo l’esempio del protocollo Iri, che è fino ad ora il caso più avanzato di accordo sindacale per l’istituzione di nuove relazioni industriali. La sua applicazione concreta è stata assai deludente e limitata. Hanno pesato le resistenze dei gruppi dirigenti delle aziende pubbliche, che in larga misura hanno subìto senza convinzione la scelta del protocollo, e hanno pesato anche le incertezze e le differenze presenti nel movimento sindacale. Ma soprattutto, a questa intesa sulle relazioni industriali non ha corrisposto un confronto politico chiaro sugli indirizzi di fondo delle partecipazioni statali.

Nel momento stesso in cui l’Iri si impegnava a stabilire un nuovo rapporto col sindacato, si veniva realizzando una importante svolta nella sua strategia, nel senso di un progressivo abbandono di impegno nel settore manifatturiero, di un intreccio tra settore pubblico e settore privato, di una nuova qualificazione dell’ente non più come soggetto attivo di una politica di programmazione economica, ma come struttura di servizio che agisce per la rivitalizzazione del mercato e come supporto all’iniziativa privata. Per questo il protocollo finiva per chiudersi in un ambito angusto, riducendosi a strumento di regolamentazione del conflitto sindacale. In una logica politica che allinea l’Iri ai comportamenti e alle esigenze del settore privato, il protocollo perde la sua grande potenzialità come strumento nuovo di controllo democratico sulle scelte di politica industriale.

È allora evidente che l’iniziativa sul fronte delle relazioni industriali deve accompagnarsi, per non rinchiudersi in un orizzonte corporativo, a una iniziativa per il rilancio e la riqualificazione di una politica di programmazione economica. Si ritrova così un legame necessario, organico, tra fabbrica e Stato, tra spinta democratica dal basso e iniziativa politica per la riforma dello Stato. Per questa via l’iniziativa sindacale può ritrovare una sua motivazione forte, può sfuggire ai pericoli crescenti di corporativizzazione, in quanto assume come sua ispirazione politica fondamentale il tema della democrazia e del potere, di una riforma democratica che investe tutti i livelli di decisione.

Per essere coerente con questa impostazione, il sindacato deve però anche assumere in modo limpido metodi di verifica democratica al proprio interno, rimettendo in discussione le strozzature burocratiche che tuttora ostruiscono il rapporto tra gruppi dirigenti e lavoratori. Il referendum indetto dalle organizzazioni dei metalmeccanici è un primo passo assai significativo in questa direzione. Auguriamoci che esso apra davvero una nuova stagione dell’esperienza sindacale.


Numero progressivo: B59
Busta: 2
Estremi cronologici: 1986, luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Politica ed economia”, luglio 1986, pp. 27-28