SI PARLA DI CONTRATTI MA SI DISCUTE DEI POTERI
Mentre va in crisi il sistema autoritario alla Fiat gli industriali si sono attestati su trincee arretrate. Ma ora si aprono nuove prospettive di democrazia economica
di Riccardo Terzi
L’impresa capitalistica nella sua forma classica, con la sua struttura gerarchico-autoritaria e con i suoi meccanismi di decisione fortemente centralizzati e burocratizzati, sta entrando, ormai da tempo, in una fase di crisi, di incertezza, di necessario trapasso verso nuovi modelli organizzativi.
Ed è indicativo che proprio la Fiat, che ha rappresentato nel modo più rigoroso e coerente il modello autoritario, sia spinta oggi a interrogarsi criticamente sul proprio futuro.
Qui sta l’interesse del discorso di Romiti, come segno di una contraddizione, di un punito di crisi, di uno stato di impasse, che può preludere a nuovi scenari. Sarebbe sciocco farsi delle illusioni. E in molti commenti giornalistici e anche sindacali c’è un’incomprensione del processo reale, come se fossimo già in presenza di una svolta sostanziale. No, la Fiat sta ancora tutta dentro la sua cultura tradizionale, e cerca ancora di risolvere le sue contraddizioni nell’ambito del modello autoritario.
Il discorso sulla qualità si rivolge ai quadri alti della gerarchia aziendale e cerca di ridare loro una motivazione, uno stimolo di carattere politico, promettendo un più largo decentramento delle responsabilità e una valorizzazione delle capacità professionali in cambio di una identificazione “ideologica” con gli obiettivi dell’impresa.
Ma per la massa dei lavoratori “esecutivi”, operai e impiegati, continua il vecchio regime. Non c’è molto di nuovo, dunque, nella realtà concreta delle condizioni di lavoro.
E tuttavia la novità è rilevante sotto il profilo politico, perché dal trionfalismo arrogante degli anni passati il gruppo dirigente della Fiat è passato ad un linguaggio del tutto nuovo, in cui è visibile l’allarme per le sorti dell’impresa, in cui appare per la prima volta la consapevolezza di un pericolo di declino, di burocratizzazione, e il timore di essere in ritardo, di non saper sfruttare tutte le potenzialità della mutazione tecnologica. È la conferma di analisi che più volte abbiamo fatto e che spesso venivano ridicolizzate come astrattezze velleitarie.
Si conferma cioè l’esistenza di una contraddizione oggettiva, strutturale, tra il processo di innovazione tecnologica, che reclama relazioni sociali più aperte e richiede un lavoro creativo, autonomo, consapevole, e il mantenimento di un’organizzazione del lavoro basata sulla trasmissione del comando dall’alto verso il basso, sulla parcellizzazione tayloristica del lavoro, sull’emarginazione del lavoro umano ridotto ad essere un’appendice della macchina.
Ancora una volta, dunque, fallisce l’illusione tecnocratica, perché essa prescinde dall’analisi dei rapporti sociali.
E oggi gli obiettivi di liberazione e di umanizzazione del lavoro non sono utopie, ma sono il terreno di un’azione pratica immediata: per la democrazia d’impresa, per il controllo sociale sul lavoro, per l’autoregolazione del processo produttivo.
Mi sembra a questo punto necessario chiarire bene in quale prospettiva collochiamo tutta la problematica della democrazia economica e industriale.
Essa non può essere a mio avviso, che il punto d’approdo di un processo reale di trasformazione del lavoro.
È la conquista, possibile ma ardua, di un conflitto sociale. Essa richiede quindi proprio perché è il risultato di un processo democratico reale che coinvolge direttamente i lavoratori, alcune condizioni di partenza, in assenza delle quali la discussione resta ferma ad uno stadio di totale astrattezza. Queste condizioni pregiudiziali sono l’esistenza di un meccanismo certo e garantito di democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro e un sistema avanzato e innovativo di relazioni industriali.
Oggi, come è noto, queste condizioni non ci sono. Pongo come primo problema quello della rappresentanza, perché sta qui il primo anello necessario di un processo di responsabilizzazione e di partecipazione dei lavoratori.
Se ai lavoratori non è neppure garantita la possibilità di scegliere liberamente i loro rappresentanti, di affidate loro il potere di contrattazione e di affidarne il mandato, questa loro condizione di impotenza non può che vanificare ogni progetto di democrazia industriale.
In secondo luogo è necessario che nelle relazioni sindacali si alternino con chiarezza nuovi poteri di contrattazione decentrata, nei luoghi di lavoro, e che tra le parti sociali si definiscano procedure di confronto preventivo su tutte le scelte dell’impresa, e non solo a posteriori sugli effetti che esse hanno sulla condizione di lavoro.
Ed è proprio intorno a questo nodo politico che si è aperto un conflitto di grande asprezza, perché le organizzazioni imprenditoriali si propongono esplicitamente di ridimensionare e vanificare la contrattazione articolata, di centralizzare le relazioni sindacali, e d’altra parte tendono a ribadire come un dogma il principio dell’unicità di comando nell’impresa, escludendo in via di principio che le scelte tecnologiche e organizzative possano essere materia di contrattazione.
Lo scontro attuale sui contratti dell’industria ha come suo oggetto, innanzi tutto, l’equilibrio dei poteri, ha quindi un evidente significato politico. E dimostra come la Confindustria, al di là delle dichiarazioni di circostanza e delle offensive propagandistiche a buon mercato, si sia attestata sulla trincea più arretrata.
In tutti questi anni il sistema delle relazioni industriali ha subito un arretramento, e anche gli accordi più innovativi, come quello siglato nel protocollo IRI, sono stati lasciati deperire.
Bisogna dunque ripartire da qui, delle esperienze sindacali più avanzate, dal patrimonio, diseguale, contraddittorio, ma complessivamente ricco, della contrattazione aziendale, per spostare in avanti il conflitto, per affrontare i problemi di gestione dell’impresa nei suoi aspetti tecnici e sociali, il che comporta per il movimento sindacale un impegnativo salto di cultura politica, nel duplice senso di una capacità di conoscere e padroneggiare i problemi dell’impresa moderna, e di una disponibilità a ricercare momenti non effimeri di convergenza e di governo consensuale, nella convinzione che l’aumento di potere del sindacato procede insieme ad un aumento di responsabilità.
È evidente infatti che in un’ottica conflittuale pura, che riduce i rapporti tra le parti ai soli rapporti di forza, non vi può essere nessuna sostanziale evoluzione delle relazioni sindacali.
Non vi sono dunque pregiudiziali ideologiche, e tutte le diverse ipotesi sugli strumenti e sugli “istituti” della democrazia d’impresa possono essere prese in considerazione; a condizione che si tratti, appunto, di un processo reale di democratizzazione, che allarga gli spazi di intervento e di controllo per i lavoratori, e che incide concretamente sulla loro collocazione nel processo produttivo.
La crisi dell’impresa fordista, e il rilievo strategico che assume il fattore umano per conseguire livelli adeguati di qualità, aprono un nuovo terreno di iniziativa e di lotta, e danno concretezza a tutta la battaglia, sindacale e politica, per nuove regole democratiche nel funzionamento dell’impresa e per l’allargamento dei diritti, individuali e collettivi, dei lavoratori.
È questo il senso politico che ha assunto la Conferenza sulla Fiat, che può essere intesa come il punto d’avvio di una nuova e più matura iniziativa politica e sindacale intorno ai problemi della grande impresa.
Per realizzare questa linea, non dobbiamo abbassate la guardia. Dobbiamo sfruttare tutti gli spazi, e dare continuità alla battaglia per i diritti, che ha rappresentato un primo momento significativo di denuncia del modello Fiat e dei suoi aspetti autoritari.
Se oggi c’è qualche segno parziale di novità nei discorsi di Romiti, è anche per l’efficacia della battaglia politica che, a partire dal caso del compagno Molinaro, ha messo a nudo una più generale e sistematica violazione dei diritti democratici dei lavoratori.
C’è oggi in campo un nuovo potenziale di lotta, e una nuova generazione operaia che potrà essere protagonista di una nuova stagione sindacale. E c’è un nuovo clima unitario che ci può consentire di porre, come problema attuale, l’obiettivo dell’unità del movimento sindacale.
Nel momento in cui tutta la situazione è in movimento, dobbiamo ragionare con una visione più larga, e superare ristrette logiche di organizzazione.
L’unità richiede oggi un progetto politico consapevole dei gruppi dirigenti, e il cuore di tale progetto sta appunto nelle questioni che sono state discusse alla Conferenza di Torino: quale sistema di relazioni nell’impresa, quale modello contrattuale, quali strumenti per la democrazia sindacale e per la democrazia economica. Occorre un’esplorazione concreta di tali questioni, senza pregiudizi e senza sospetti reciproci, e mantenendo il confronto su un terreno rigorosamente sindacale.
Se cominciamo a discutere così, guardando in avanti, alle grandi sfide del nostro tempo, e sentendo i limiti e i rischi di una competizione burocratica in cui ciascuno pensa solo alla propria bottega, io credo che alcuni decisivi passi in avanti potranno essere compiuti.
Busta: 2
Estremi cronologici: 1990, 27 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “L’Unità”, 27 giugno 1990