SEMINARIO SULLE PARTECIPAZIONI STATALI

Imbersago 15 aprile 88

Relazione di Riccardo Terzi

1) Ci sembra necessaria una riflessione collettiva intorno al problema delle PP.SS., per colmare un vuoto di analisi e di attenzione che si sta producendo nel lavoro sindacale proprio nel momento in cui è in atto un processo complesso di ridefinizione strategica del settore pubblico.

Il rischio è quello di rincorrere i casi singoli (ristrutturazioni, privatizzazioni, crisi di settore), in un’ottica solo pragmatica e difensiva, perdendo di vista le linee generali del processo, il suo senso politico e la necessità quindi per il sindacato di una risposta di carattere strategico.

In questi ultimi anni, soprattutto a partire dalla presidenza Prodi, è venuta realizzandosi una linea che modifica in profondità il ruolo delle PP.SS.

L’aspetto più appariscente è la tendenza alla privatizzazione, che parzialmente è già stata attuata e di cui si ipotizzano nuovi sviluppi. Il caso più emblematico è la vendita dell’Alfa Romeo alla Fiat, scegliendo la via del totale abbandono della presenza pubblica nel settore dell’auto, e scartando l’altra ipotesi che era sul tavolo (accordo con la Ford), che avrebbe comportato il mantenimento di una quota pubblica.

Anche nel caso della SME l’ipotesi inizialmente perseguita dall’IRI, e successivamente rientrata per le note complicazioni politico-istituzionali e giuridiche, era la pura e semplice messa in vendita ai privati dell’intero comparto alimentare.

In questa linea si inseriscono altre vicende, che hanno avuto esito diverso: Telit, Mediobanca e ora Finsider.

Non si tratta di giudicare questi problemi con un metro astratto, come se si trattasse solo della contrapposizione teorica di pubblico e privato. Si tratta piuttosto di vedere come per effetto di queste scelte politiche cambia la geografia del potere economico, come, nelle condizioni specifiche dell’Italia di oggi, questo ridimensionamento del settore pubblico non si risolve in una rivitalizzazione del mercato, ma all’opposto in un processo di ulteriore concentrazione controllato in forme monopolistiche da pochissimi gruppi privati, il cui potere esorbitante diviene un problema politico.

Si rompe così un equilibrio di potere, innescando un processo che può avere conseguenze assai pericolose.

La risoluzione, in un senso o nell’altro, di questo problema sarà decisiva per la Lombardia, dove il settore pubblico ha avuto nel passato un ruolo trainante, e dove ora può avvenire un passaggio di mano delle leve di comando.

Ed è evidente che il controllo dei processi di trasformazione nei punti alti dello sviluppo costituisce un problema politico di prima grandezza, e non può quindi esserci differenza circa il suo carattere pubblico, e quindi democraticamente controllabile, oppure privatistico.

Eppure questa posizione di indifferenza è oggi diffusa, ed è presente anche all’interno della sinistra.

Giocano qui molti fattori: da un lato, l’offensiva ideologica del neoliberismo, che è riuscita a colpire nel segno facendo apparire come obsoleta, come residuo di uno statalismo antiquato, l’idea dell’intervento pubblico nell’economia, dall’altro lato il progressivo appannarsi del ruolo del settore pubblico, sia per gli elementi di inefficienza e di lottizzazione, sia per il suo essere sempre più un “sistema di imprese” senza una propria finalità di carattere sociale.

In questo senso si realizza più in profondità un processo di privatizzazione, in quanto il sistema delle PP.SS. agisce in una logica privatistica, seguendo esclusivamente criteri di competitività sul mercato. Tra imprese pubbliche e imprese private non c’è alcuna linea divisoria, ed è quindi del tutto naturale il passaggio alla gestione privata di imprese ormai risanate sotto il profilo finanziario, capaci di realizzare profitti, ma non più essenziali nella strategia complessiva delle PP.SS.

Ma la strategia, appunto, non è né chiara né convincente. In nome di una definita strategia di politica industriale, anche le operazioni più spregiudicate potrebbero trovare un senso. Ma all’IRI ciò che manca è proprio una strategia industriale. Al contrario, il “riposizionamento strategico” dell’IRI consiste in un graduale spostamento dall’industria alle infrastrutture e ai servizi.

Il ruolo delle PP.SS. viene cioè inteso come un ruolo di supporto per l’iniziativa privata, attraverso interventi che siano capaci di dinamizzare il mercato, di migliorare la rete delle infrastrutture; il che cambia i connotati che storicamente ha avuto il sistema delle PP.SS., che proprio nei grandi settori industriali ha avuto i suoi punti di forza.

Occorre leggere politicamente questo processo, come un cambiamento negli equilibri di potere e nel rapporto tra Stato ed economia. Dal punto di vista delle forze politiche, ciò significa l’esaurimento di una tradizione che ha caratterizzato la sinistra democristiana (di Mattei, di Marcora), è l’omologazione di tutta la DC ad una logica conservatrice che ribalta il rapporto tra Stato e mercato con una ritirata strategica del settore pubblico a vantaggio dei privati.

Prodi interpreta e traduce in linee operative questa tendenza generale. Lo fa con intelligenza, con duttilità, cercando e trovando interlocutori nella sinistra e nel movimento sindacale.

Ma la linea di marcia è sufficientemente chiara. È una linea che assegna al pubblico un ruolo sussidiario, di servizio, complementare e che riconsegna, non genericamente al mercato, ma ai grandi gruppi privati il ruolo di guida del processo economico.

Di fronte a questa strategia è mancata una reazione forte del sindacato, che in molti casi è stato subalterno o incerto o diviso. La stessa realizzazione del protocollo IRI, su cui torneremo, va inquadrata in questo scenario, ed è stata giocata dall’IRI come mezzo di coinvolgimento del sindacato, in un senso strumentale, per poter realizzare in modo più indolore i cambiamenti di strategia di cui si è detto.

La partita politica circa il ruolo da assegnare al sistema delle PP.SS. è ancora aperta, e non mancano contraddizioni anche all’interno delle forze politiche di governo e dei gruppi dirigenti delle aziende pubbliche. Potrà essere utile misurare con questo metro il programma e gli orientamenti del nuovo governo. Mentre però è uscita allo scoperto con grande determinazione una linea politica che punta ad un drastico ridimensionamento del settore pubblico (PRI e PLI sono in prima fila in questa crociata), sono state finora deboli e difensive le controtendenze. La sinistra sembra preoccupata di non esporsi in una discussione di principio, che può assumere risvolti ideologici, di non apparire legata a vecchi schemi, e finisce spesso in una posizione di agnosticismo.

In realtà, è certamente vero che il sistema delle PP.SS. non può essere semplicemente difeso così com’è, ma richiede una ridefinizione, in rapporto ai processi di trasformazione e di innovazione che sono in corso.

Si tratta allora di vedere quali sono oggi le priorità strategiche da affrontare, quale contenuto concreto può assumere oggi un ruolo delle PP.SS. come leva per una politica di programmazione economica.

Mi sembra che i punti decisivi per questa ridefinizione siano i seguenti:

  1. a) necessità di una presenza attiva delle PP.SS. nei processi di internazionalizzazione, anche in vista della scadenza del ‘92, per evitare una progressiva dipendenza e marginalizzazione dell’economia italiana nel rapporto con i grandi gruppi internazionali.

Ciò richiede, rispetto al passato, una linea molto più dinamica, e la ricerca di collaborazioni su scala internazionale, e in particolare sulla scala europea.

Il modello classico dell’impresa pubblica, chiusa nell’orizzonte nazionale dipendente dalle commesse statali, operanti in un mercato protetto, e quindi esposta a processi di burocratizzazione, non funziona più, e da questo punto di vista occorre davvero una svolta radicale.

Senza una strategia internazionale, l’impresa pubblica rischia di soffocare e di essere tagliata fuori dai grandi processi di riorganizzazione mondiale del mercato. È questo il problema che si pone, ad esempio, nelle telecomunicazioni, e anche nel settore agroalimentare. E proprio qui la linea dell’IRI è stata una linea di ritirata: vendita della SME, e accordo subalterno con la FIAT con la progettata operazione Telit.

Le due operazioni non sono andate in porto, ma sono comunque indicative di una concezione che affida ai grandi privati il ruolo di interlocutori privilegiati nel rapporto con il mercato mondiale;

  1. b) definizione dei settori strategici nei quali concentrare le risorse e gli investimenti e nei quali il settore pubblico può svolgere una funzione trainante. Valgono qui le proposte unitariamente avanzate dalle organizzazioni sindacali, con l’individuazione di quattro settori: telecomunicazioni ed elettronica, agroindustria, aerospaziale, industria ambientale.

Ma la stessa distinzione tra settori strategici e non va intesa con elasticità, come un’indicazione, di priorità e non come una scelta esclusiva. E evidente infatti come mantengano un’importanza fondamentale nell’apparato industriale nazionale altri decisivi capitoli oggi al centro di processi complessi di ristrutturazione e di integrazione pubblico-privato: la chimica, la siderurgia, la termoelettromeccanica;

  1. c) una politica per l’occupazione. Nel momento in cui l’occupazione diviene un’emergenza nazionale, sia per le aree arretrate, sia anche nei punti avanzati dello sviluppo dove si produce il fenomeno della disoccupazione tecnologica, il settore pubblico non può non avere su questo terreno un proprio compito specifico, considerando quindi tra le proprie finalità strategiche l’obiettivo di una politica attiva a sostegno dell’occupazione.

Ciò significa anzitutto impegno per il Mezzogiorno, ma non solo. Significa processi di reindustrializzazione nelle aree di crisi, significa governo del mercato del lavoro e di processi di mobilità, significa politiche contrattuali che valorizzino tutti gli strumenti di difesa dell’occupazione, a partire dall’intervento sull’orario di lavoro.

La logica privatistica che è stata invece predominante anche nei comportamenti delle imprese pubbliche ha impedito di ottenere, su questo fronte, risultati significativi. Era questo, tra l’altro, uno dei punti del protocollo IRI, e uno dei compiti affidati ai comitati territoriali, ma il bilancio, almeno in Lombardia, è vicino allo zero. Abbiamo ottenuto solo un generico interessamento della SPI per la Val Camonica. Ma la stessa SPI resta un oggetto misterioso, e manca qualsiasi programma dell’IRI per le aree industriali, per la formazione e riqualificazione dei lavoratori, per la mobilità;

  1. d) in quarto luogo, le PP.SS. devono essere in prima fila nei processi di innovazione, intendendo l’innovazione non solo sotto il profilo della competitività delle singole imprese, ma come innovazione di sistema, il che significa affrontare quegli interventi di carattere orizzontale che solo dal punto di vista dell’interesse pubblico e generale possono essere correttamente impostati: il miglioramento generale delle infrastrutture, lo sviluppo della ricerca, il rapporto tra attività produttiva e sistema educativo, tra industria e Università, il risanamento ambientale, la riorganizzazione delle grandi aree metropolitane.

Sono temi politici generali che richiedono, come è evidente, una pluralità di interventi, e anche una mobilitazione di risorse private, ma in questo campo il sistema delle PP.SS. può svolgere una propria rilevante funzione di promozione, di progettazione, di stimolo.

Con queste quattro linee di intervento (presenza nei processi di internazionalizzazione, politica industriale finalizzata ai settori strategici, politica per l’occupazione e per il Mezzogiorno, impegno nella ricerca, nell’innovazione e nella progettazione territoriale) può essere, con una certa approssimazione, definita la fisionomia del sistema delle PP.SS., del loro ruolo essenziale nell’Italia di oggi, in una concezione non statica, non difensiva, ma proiettata in avanti verso le frontiere che sono decisive per uno sviluppo qualitativamente nuovo dell’economia nazionale.

Di questo si tratta, e non di una disputa astratta e ideologica, e su ciascuno di questi terreni che dovrebbero qualificare il ruolo delle PP.SS. c’è una battaglia da condurre, e ci sono resistenze, ritardi e spesso anche posizioni apertamente contrarie, c’è nel complesso una linea politica, sia del governo, sia dell’IRI e delle singole aziende pubbliche, che va profondamente modificata e che richiede pertanto una forte mobilitazione sindacale.

 

2) Nella discussione che si è aperta sulle riforme istituzionali, il movimento sindacale, che è stato finora piuttosto assente, dovrebbe essere interessato ad affrontare tutti quegli aspetti del funzionamento dello Stato che hanno un rapporto con il governo dell’economia, con la riproposizione di una politica di programmazione. C’è infatti il rischio che di tutto ciò non si parli, che ci si limiti agli aspetti “formali” della questione (regolamento delle Camere, legge elettorale, ecc.), senza mettere in causa il problema del rapporto tra potere politico e potere economico.

Problemi istituzionali di notevole rilievo si pongono anche per quanto riguarda l’ordinamento del sistema delle PP.SS. e il suo rapporto con il potere politico. Si pone cioè il problema dell’autonomia delle PP.SS., dei limiti entro cui tale autonomia può realizzarsi, degli ambiti di competenza e di decisione.

Occorre a questo proposito distinguere con nettezza i problemi di gestione da quelli di indirizzo politico, ovvero dalle scelte strategiche generali. La difesa dell’autonomia ha un senso solo per il primo aspetto. Le imprese pubbliche vanno intese secondo criteri di efficienza, senza interferenze partitiche, senza lottizzazione nella scelta dei dirigenti, eliminando quell’insieme di pressioni politico-clientelari che sono una delle cause non secondarie del basso livello di efficienza e del grado eccessivo di burocratizzazione.

Ma, d’altra parte, occorre affermare con altrettanta chiarezza che le scelte di indirizzo spettano al governo e al Parlamento, che la definizione di una politica industriale non può essere appaltata ad una tecnostruttura, ma chiama in causa le responsabilità politiche.

Nella situazione attuale c’è invece un intreccio malsano: un’invadenza politica nella gestione e una debolezza dei poteri democratici nella definizione delle scelte strategiche, sia per una tendenza politica ad archiviare le esigenze di programmazione, sia per una spinta presente nelle PP.SS. a colmare questo vuoto e a conquistare una propria autonomia, senza controlli politici, anche per scelte di grande rilievo nazionale.

È un esempio di questa contraddizione, di questa non chiara distinzione di ruoli, la vicenda della privatizzazione della SME, decisa dall’IRI in totale autonomia, senza che il governo ne fosse investito, e ora un problema analogo si presenta per la ristrutturazione del settore siderurgico, con un atteggiamento dell’IRI che considera come indebito ogni intervento politico, e che pensa di poter decidere il proprio programma prescindendo dal necessario confronto politico in sede di governo e di Parlamento.

Un secondo, delicato e complesso problema istituzionale riguarda il riassetto degli enti.

Per l’EFIM c’è il problema irrisolto di una propria specializzazione settoriale, e sembra ragionevole l’ipotesi radicale del suo scioglimento, o quanto meno di un accorpamento in un unico polo industriale (nell’EFIM stesso o nell’IRI) di imprese dello stesso settore oggi scoordinate (settore aeronautico e materiale ferroviario).

Per le finanziarie dell’IRI è in discussione ‘ipotesi di una riorganizzazione (nuova STET, passaggio alla Finmeccanica di tutte le industrie manifatturiere, liquidazione della Finsider), che è difficile valutare in sé, in astratto, e va considerata piuttosto in rapporto alle scelte concrete di politica industriale. In ogni caso va ribadito il carattere politico delle scelte, e quindi l’autonomia solo funzionale delle singole finanziarie, che non debbono essere, come spesso sono, feudi intoccabili, centri di potere incontrollati. In questo senso va valutata con attenzione la funzione che verrà assunta dalla Finmeccanica, che nel panorama generale di spostamento verso i servizi resta l’unico polo industriale dell’IRI, con larga autonomia, e con una tendenza a costituirsi come una concentrazione industriale-militare. In sostanza, mentre le industrie manifatturiere tradizionali vengono progressivamente abbandonate, si potenziano le attività, industriali e di ricerca, legate all’apparato militare (elettronica -spazio -aeronautica), il che pone, come è evidente, problemi politici e di controllo democratico assai rilevanti.

 

3) Per quanto riguarda le politiche industriali delle PP.SS., mi limito a qualche rapida considerazione rinviando alle posizioni nazionali del sindacato, e sollecitando inoltre un contributo più specifico da parte delle categorie interessate.

Ho già richiamato la posizione di CGIL, CISL e UIL per l’individuazione dei settori strategici. Ma questa posizione richiede da parte nostra, nei settori individuati, una più stringente iniziativa, altrimenti rischia di essere una dichiarazione di principio senza conseguenze pratiche.

Nell’agro-industria si è chiusa dal punto di vista giudiziario la questione della SME e della sua ipotesi di privatizzazione. Sembra ora prevalere nell’IRI un’opzione favorevole al mantenimento della SME, anche in considerazione del suo avvenuto risanamento e degli utili che essa ora produce.

Si è ventilata anche ‘ipotesi di un’acquisizione al settore pubblico della Standa. Tutto ciò segna un’inversione di rotta positiva, che ha già determinato una reazione scomposta degli ideologi della privatizzazione ad oltranza.

È però legittimo, a me pare, sollevare una riserva sul fatto che la SME tende a privilegiare il settore commerciale rispetto a quello produttivo e rispetto alla ricerca. Non è in questa direzione che viene data una risposta alle questioni strategiche del settore, le quali si riferiscono ad altri aspetti: il Mezzogiorno, l’industria di trasformazione, le biotecnologie, i rapporti internazionali, il superamento del deficit nel settore alimentare. Sembra invece che l’IRI consideri la SME solo come una rete commerciale che assicura un consistente flusso finanziario.

Per le telecomunicazioni abbiamo valutato criticamente l’operazione Telit, in quanto indeboliva gravemente il ruolo pubblico e creava una situazione di dipendenza dalla Fiat, e consideriamo quindi positivo il fatto che questa operazione non sia andata in porto. Ma resta aperto il problema della definizione di una strategia di collaborazioni internazionali.

Anche in questo settore l’impegno dell’IRI deve indirizzarsi in modo coordinato verso la ricerca, l’attività manifatturiera e i servizi. L’operazione della nuova STET assumerebbe quindi un significato negativo se fosse il segno di uno spostamento unilaterale in direzione dei servizi.

Per le industrie aerospaziali si pone il problema, già prima ricordato, del superamento della situazione attuale che vede una dispersione tra IRI ed EFIM.

È poi tutta da costruire la quarta opzione strategica relativa al risanamento ambientale. L’IRI ha costituito una società apposita, ma siamo solo ai primi passi, e si tratta di capire se si tratta solo di un’operazione di facciata, e comunque marginale, o se questo può divenire, come propone il movimento sindacale, un nuovo settore trainante.

Questo tema ha per la Lombardia un evidente interesse, e una concreta verifica può essere fatta partendo dalla proposta, avanzata in uno studio del PIM, della costruzione di un polo ecologico-ambientale a Sesto S. Giovanni, proposta che noi intendiamo approfondire e rilanciare attraverso il confronto unitario nel sindacato e il rapporto con le sedi istituzionali.

La Lombardia è inoltre vitalmente interessata alle prospettive di altri settori industriali, dove resta decisivo, a nostro giudizio, il mantenimento di una presenza pubblica.

Si tratta anzitutto della siderurgia: il piano Finsider è complessivamente inaccettabile perché comporta un drastico ridimensionamento dell’occupazione e della produzione, con la chiusura di importanti impianti come quello della Deltasider.

Occorre un confronto complessivo con il governo, con i soggetti pubblici e privati, per definire le linee generali, nazionali, di riorganizzazione del settore. Qui c’è già una lotta aperta, una piattaforma unitaria, e a queste posizioni faccio riferimento, ricordando che abbiamo ottenuto dalla Regione Lombardia un importante pronunciamento politico in sintonia con le posizioni del sindacato.

Si tratta inoltre della termoelettromeccanica, della delicata situazione in cui si trova attualmente l’Ansaldo, che avendo puntato tutte le sue carte sul programma nucleare deve ora realizzare un processo di riconversione in rapporto con la revisione del Piano energetico nazionale.

Si tratta infine della chimica, del rapporto tra Eni e Montedison. Qui c’è una discussione da approfondire anche all’interno del sindacato, perché siamo in presenza di posizioni differenti. Mentre nei documenti unitari nazionali l’’intreccio necessario tra settore privato e settore pubblico viene considerato come un processo di collaborazioni e di accordi parziali, il congresso nazionale della FILCEA ha ufficializzato la proposta di dar vita ad un’unica grande azienda chimica a capitale misto, in una condizione di parità tra pubblici e privati. Questa proposta suscita vari interrogativi, che dovranno essere approfonditi.

 

4) Tutti questi problemi hanno una loro ricaduta sulla situazione lombarda. La Lombardia, più di qualsiasi altra Regione, si è caratterizzata per una presenza articolata e diffusa dell’industria pubblica, in tutti i settori produttivi, e più di altre Regioni quindi rischia di pagare il prezzo di una politica di ridimensionamento del settore pubblico.

Siamo oggi in una situazione generale di sofferenza, in uno stato di crisi strisciante che investe tutto il settore pubblico, il che determina sempre più nettamente uno spostamento di potere e di iniziativa a vantaggio dei gruppi privati.

In questa situazione è indispensabile un ruolo politico attivo da parte della Regione in materia di politica industriale e di programmazione. Finora questo ruolo è completamente mancato, e solo ultimamente sui problemi della siderurgia la Regione ha preso posizione e ha assunto l’iniziativa di un confronto con tutte le parti interessate.

Nel nostro confronto con la Regione, che spesso si disperde e si frantuma nei dettagli amministrativi, dobbiamo porre in primo piano l’esigenza politica che la Regione recuperi appieno il proprio ruolo di programmazione; programmazione territoriale, che è di sua diretta competenza, e anche, in un confronto permanente con il governo, programmazione economica e intervento sulle politiche industriali. Sono in atto processi di riorganizzazione del territorio: infrastrutture, aree dismesse; si acuiscono tutti i problemi del risanamento ambientale; si pongono in modo nuovo tutti i problemi della formazione e del rapporto tra sistema educativo e attività produttive. In tutti questi campi il sistema delle PP.SS. può svolgere una funzione.

Accanto alle questioni di settore, dove si tratta di salvaguardare una presenza dell’industria pubblica operando tutte le misure necessarie di ristrutturazione, c’è un complesso di questioni orizzontali, che riguardano il processo complessivo di trasformazione della società, e che rischiano, se perdura la latitanza delle istituzioni politiche e il disimpegno del sistema delle PP.SS., di essere governate in una logica tutta privatistica.

Ecco allora la necessità di un tavolo regionale con le PP.SS. per discutere su infrastrutture, ambiente, aree dismesse, formazione.

Questo tavolo in teoria esiste, essendosi costituito il comitato paritetico territoriale nell’ambito del protocollo IRI.

Ma questa esperienza è stata finora del tutto inconcludente, ed è a questo punto necessaria un’attenta verifica critica di ciò che il protocollo ha prodotto, dei suoi risultati e dei suoi limiti.

 

5) Restano valide, a mio giudizio, tutte le ragioni che ci hanno portato a sottoscrivere il protocollo e a considerarlo come un fatto innovativo di grande rilevanza.

I due pilastri su cui avrebbe dovuto reggere il nuovo sistema di relazioni industriali erano: confronto preventivo su tutte le materie, e autonomia delle parti. Non si tratta quindi di un modello di cogestione, ma di uno schema formalizzato di rapporti tra soggetti che restano del tutto autonomi nelle loro valutazioni e nelle loro scelte, i quali si impegnano tuttavia a portare i loro rapporti ad un livello più alto, con un intenso e permanente scambio di informazioni, con un confronto preventivo volto alla ricerca di posizioni comuni, con l’obiettivo cioè di tentare un governo consensuale dei processi.

Ora, questo modello richiederebbe, per potersi pienamente esplicare, un’intesa di fondo sulle grandi opzioni strategiche, come base comune su cui costruire in modo non conflittuale le relazioni sindacali.

Ma così non è stato, e non è, come dovrebbe risultare ormai da tutte le cose fin qui dette. C’è al fondo un dissenso politico circa il ruolo e le prospettive delle PP.SS., e quando il dissenso si determina in modo divaricante lo schema del protocollo non regge, e le relazioni tornano ad essere del tutto conflittuali, come è in questi giorni nel settore siderurgico.

In secondo luogo, per un sistema che voglia nel contempo essere non cogestionale e non conflittuale, il punto decisivo, l’elemento di novità che può reggere tutto l’impianto è il funzionamento sistematico del confronto preventivo e delle informazioni.

Il protocollo ha assegnato tale compito ai comitati paritetici. Lo scarso funzionamento di tali comitati, e in alcuni casi il vero e proprio fallimento, ha pregiudicato la possibilità di raggiungere gli obiettivi politici dichiarati.

Per questo non credo che a questo punto possiamo limitarci a ribadire la validità del protocollo IRI e la necessità di un impegno per il suo funzionamento a tutti i livelli. Dobbiamo anche domandarci se, ferme restando le finalità generali, non ci siano correzioni anche profonde da introdurre nell’impianto del protocollo, nei suoi meccanismi formalizzati.

Il punto critico è il ruolo dei comitati. Essi dovrebbero essere strumento di socializzazione delle informazioni, sedi preliminari e non negoziali di confronto e di approfondimento, momento propedeutico quindi alla contrattazione vera e propria.

Ciò richiederebbe una piena disponibilità delle parti, e una continuità di lavoro, un funzionamento attivo e continuativo.

In assenza di ciò, i comitati, anziché essere uno strumento che prepara ed aiuta la contrattazione, divengono un ostacolo, un intralcio, proprio perché una funzione essenziale del protocollo è affidata ad un organismo che non funziona.

Io ho presente soprattutto l’esperienza del comitato territoriale lombardo, e non vorrei generalizzare un giudizio negativo.

Ma delle altre esperienze, territoriali, di settore, o di azienda, non si ha molta notizia, ed è mancato, anche per responsabilità nostra, un qualunque collegamento tra i diversi livelli, per cui non c’è stato nessuno scambio di esperienze, di informazioni, di valutazioni.

Le responsabilità sono certamente anche del sindacato.

Ma a tre anni di distanza dalla firma del protocollo, si spiega poco o nulla con la categoria del ritardo, della sottovalutazione, dell’impreparazione.

Noi abbiamo bisogno di far funzionare, con urgenza e in modo efficace, sedi reali di confronto. E abbiamo bisogno di interlocutori abilitati a decidere, responsabili, il che non è avvenuto nel comitato territoriale lombardo.

Per questo è forse opportuno prendere l’iniziativa per l’apertura di un tavolo negoziale tra l’IRI e il sindacato in Lombardia, riservandoci nel contempo di approfondire la discussione sui comitati e di valutare se essi possono ancora svolgere una funzione e come debbono essere eventualmente riorganizzati.

La discussione sul protocollo e sulle sue prospettive va fatta con serietà, a livello nazionale, con tutte le strutture che ne sono state interessate; e va fatta contestualmente ad una discussione politica sul ruolo delle PP.SS. e sulle scelte strategiche.

Il fatto è che il protocollo, nonostante la sua architettura articolata su vari livelli, non è riuscito a modificare sostanzialmente la pratica della centralizzazione, non ha saputo costruire dal basso, nelle realtà territoriali e di fabbrica, esperienze innovative. Non è maturata una nuova esperienza sindacale capace di formare nuovi quadri, nuove competenze.

Noi dobbiamo comunque cercare di muoverci in questo modo, con il coinvolgimento più ampio di quadri e di strutture.

Sotto il profilo operativo, dobbiamo esaminare il problema, vedere quali strutture di coordinamento costituire, quale metodo di lavoro, quale collegamento permanente tra il livello orizzontale e le categorie.

Siamo tutti in ritardo, e rischiamo di essere spiazzati dagli avvenimenti. Per questo la discussione di oggi è politicamente rilevante e dovrà servire a far maturare più precise decisioni politiche ed operative da sottoporre al più presto agli organismi dirigenti della CGIL.



Numero progressivo: A41
Busta: 1
Estremi cronologici: 1988, 15 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota settimanale della CGIL Lombardia”, n. 18, maggio 1988, pp. 15-20