RISCOPRIRE LA SOGGETTIVITÀ DEL LAVORO
di Michele Prospero – Docente di Scienza politica e Filosofia del diritto nella Facoltà di Scienze della comunicazione della Sapienza Università di Roma
Recensione del libro “La pazienza e l’ironia”
C’è un evidente filo rosso che lega i diversi saggi che Riccardo Terzi ha scritto lungo trent’anni di riflessione e di azione pubblica nel partito e nel sindacato: l’autonomia della politica (e del sociale) come faticosa conquista (non solo) culturale, ma anche come pratica collettiva che incorpora analisi ed è sempre innervata su un soggetto.
Non esiste autonomia reale della politica senza questo fertile fondamento, rintracciato nel terreno dei grandi interessi sociali costitutivi della modernità. E non è disponibile alcuna manifestazione di un’autonoma vitalità del sociale al di fuori di una cultura politica. Per Terzi la funzione costruttiva del sociale evoca ben altra cosa rispetto all’esaltazione dell’anemica società civile, l’autonomia del politico indica ben altra dimensione rispetto alla rivendicazione di un astratto primato che spesso è solo la maschera dell’impotenza.
Non esiste alcuna autonomia durevole di un soggetto sociale senza una robusta costruzione politica che dà sintesi a bisogni e istanze particolari, altrimenti immersi in una lenta spirale corporativa priva di un orizzonte pubblico. La politica – dice Terzi – è proprio «la capacità di fare sistema», quindi di pensare la complessità. D’altra parte, non si incontra un’autentica autonomia della politica dagli onnivori poteri privati senza un ancoraggio solido nel conflitto strutturale del tempo storico borghese. Oggi che lo Stato pluriclasse è solo un pallido ricorso e la politica pare riassumere le vesti dello Stato monoclasse, un’autonomia politica dalle grandi ambizioni non può prescindere dalla ricostruzione di un vivido senso della parzialità. Occorre cioè essere consapevolmente parte, per poi trovare uno spazio autonomo nella sfera pubblica da rigenerare. Se non si appoggia stabilmente alle ragioni di una parte della società – questo è il fulcro del ragionamento di Terzi – la politica non è affatto autonoma dalle accanite potenze dominanti. L’autonomia del politico è il ritrovamento di una parte di società che ritesse una presenza lotta, non è certo il maneggio trasformistico delle risorse dell’amministrazione che si distende entro asfittici giochi di potere sempre uguali.
Lo sforzo di Terzi è proprio quello di restituire un pensiero e un soggetto sociale al realismo politico, per non lasciarlo amaramente deperire come una semplice abilità di manovra mostrata nel cinico tessere trappole e nello schivarle con destrezza, per conservare intatte le anguste chance di dominio. Guardare alla politica non solo con l’astuzia della volpe che calcola le mosse con la sempre necessaria accortezza, ma scrutarla anche con la curiosità del pensiero critico, aperto a prospettive più lunghe, è quello che queste dense pagine fanno e sollecitano a fare. Per questo il libro sostiene che occorre con molta forza reagire «all’idea che non ci sia più bisogno delle idee». Questa pessima consuetudine di ammainare il pensiero produce solo sciagure. Terzi appartiene a quella «minoranza» di dirigenti comunisti della generazione post-togliattiana che si cimentarono a fondo con i dilemmi striscianti del moderno, senza però bisogno di diventare «nuovisti», pronti a gettare nel cimitero dell’inservibile ogni tradizione. In molte pagine di questo libro, un attacco esplicito alla tradizione viene tentato per denunciare la consunzione di riti, immagini, luoghi comuni. E però Terzi cerca anche di spremerla fino in fondo la sua tradizione, di ricavarne un qualche estratto non deperibile, di trame taluni indizi ancora utili nel cammino di decifrazione del presente.
Nei confronti del PSI, che lanciò la prima terribile sfida «riformista» alla tradizione, impugnando con forza la bandiera del moderno, Terzi suggeriva di accettare la sfida, non per subirla ma per riformulare la contesa su punti ideali più avanzati. Cioè, bisognava muoversi con la piena consapevolezza che, per non soccombere o abbandonarsi alla paralizzante percezione di un inevitabile declino, non c’era sentiero più produttivo che quello della sfida dell’unità competitiva. Il senso del nuovo, o meglio dell’innovazione, avrebbe smontato con più efficacia la volontà di espugnare l’identità ferita di una forza isolata. Prevalse invece un duello suicida, tra un’alternativa declinata senza la paziente tessitura delle alleanze e un’alternanza sempre più impantanata nella vorace difesa dell’immobilismo sistemico. Due forme di immobilismo, quello statico-identitario del PCI e quello fintamente dinamico e di movimento corsaro del PSI, finirono per urtare le compatibilità di un sistema sempre più sfibrato ed esausto. Il PSI morì ufficialmente di morte accidentale per cause esterne (tangentopoli), il PCI finì travolto da sommovimenti internazionali tempestosi. Invece dell’innovazione, a sinistra è prevalsa la rimozione. Dopo l’arroccamento accanito attorno alla città assediata, seguì il ripudio completo e l’abbandono della casa ormai incustodita. Modi speculatori – così li ritiene Terzi – per non esercitare la fatica del concetto politico.
Il canone etico (diversità, questione morale, governo degli onesti) sostituiva il vecchio lavoro identitario, in gran fretta archiviato e posto tra i ferri arrugginiti, mentre l’inseguimento dei movimenti di cittadinanza per le riforme istituzionali ed elettorali simulava una strategia politica divenuta troppo labile per sortire nel tempo effetti risolutivi. Cattivi surrogati vennero a colmare, con la questione morale, lo scacco politico impressionante della mossa, avventata nei modi e nei tempi, di inseguire il «nuovo» per imprimere dinamismo a una democrazia senza alternanza, e, con il fervore antipartito, un colossale vuoto identitario scambiato per una riforma della politica. Per questo i cambiamenti organizzativi a lungo protratti (e da tempo indispensabili, perché esaurito era per Terzi il rigido modello di partito d’apparato che sprigionava solo «i meccanismi dell’autoconservazione burocratica»), gli aggiustamenti simbolici, ideali, hanno assunto più i tratti dell’addio alle armi, in un clima di smobilitazione paralizzante, che non le sembianze della sperimentazione di ordini organizzativi inediti e della messa alla prova di concetti politici nuovi.
La necessità di porre un argine alle derive burocratiche del vecchio modello di partito e di reagire alle chiusure oligarchiche e alle sue cadute conformistiche (che spingeva la leadership a confondere – scrive un amareggiato Terzi – «i nemici reali e quelli immaginari»), sconfinava nella rimozione di ogni forma organizzata della politica. Dal «feticismo di partito» troppo a lungo coltivato, si scivolò nella dannazione di ogni soggettività politica strutturata. Sono state così smarrite le condizioni utili per il rilancio tempestivo dei soggetti e delle forme di una politica organizzata, in grado di agire con la memoria delle sconfitte e degli avanzamenti nel territorio incognito della globalizzazione. Più che un mutamento incrementale, in grado di armonizzare tradizione e progetto, ha prevalso un salto senza continuità o, peggio ancora, quello che Terzi chiama un «soggettivismo superficiale» che copriva inerzie, opportunismi camaleontici.
Ritrovandosi senza più punti di appoggio, attardandosi alla rinfusa in un luogo privo di memoria, la sinistra ha smarrito il senso della sua presenza storico-politica. Dopo una stagione che ha visto affiorare una «concezione ideologica del partito» – nota Terzi – è subentrata l’incuria totale della manutenzione della macchina. Società e partito, rappresentanza politica e rappresentanza sociale, sono così rimasti schiacciati in un’asfittica e monca polarità. La decostruzione della politica organizzata ha impresso un ritmo destrutturante alla grande trasformazione culturale, politica e sociale che dalla repubblica dei partiti ha condotto al mito della repubblica dei cittadini. Senza più partiti operanti nel territorio e insediati nei luoghi della produzione e circolazione della ricchezza, la transizione ha condotto a un inesorabile restringimento dello spazio della democrazia.
La personalizzazione come estremo rifugio di chi è ormai a corto di una cultura politica spendibile, il culto del carisma come estrema concessione alla video-politica leggera, hanno visto affiorare figure caricaturali che, con il bastone della leadership esibito come simbolo del dono mistico-sacrale, hanno in breve tempo essiccato la politica, determinandone uno svuotamento di senso. Terzi è molto icastico al riguardo: «la democrazia è l’organizzazione dello spazio», e nello spazio reale oggi c’è soltanto un deserto di mediazione sociale e di incuria organizzativa. La verticalizzazione di una democrazia immediata che non decide neppure nelle situazioni di emergenza e non spruzza se non l’apparenza vuota del fare, e la fasulla metafora orizzontale che non diffonde alcuna soggettività reale ma solo una ginnastica retorica sulla trasparenza della sfera pubblica grazie ai nuovi media, occultano l’impietoso e arido svilimento dell’agire politico.
Senza il ritrovamento paziente delle radici nel conflitto sociale, lo spazio politico può essere scrutato con l’ironia sarcastica che meritano gli esercizi privi di significato di chi riduce il conflitto al chiacchiericcio dei media. Oggi in scena, al posto di classi dirigenti autorevoli, compaiono solo mediocri commedianti che si agitano nelle vesti inebrianti di un leader assoluto, di capo del partito di se stesso. Il solo soggetto organizzato della seconda repubblica rimane il sindacato, spesso denunciato come un intralcio alla splendida marcia della seduzione carismatica. Terzi pone qui il problema cruciale: il vuoto della rappresentanza produce caricature di politica. Spezzoni di società non trovano più pensiero, tronconi di partiti molli non escono dalle scialbe figure del marketing. In tali condizioni, permane una situazione di alienazione politica che rende vulnerabile il sistema e molto asfittica la democrazia.
Una via d’uscita? Per Terzi sta solo nella capacità di decifrare i processi oscuri che hanno determinato la progressiva riduzione della politica a insipido gioco tecnico. L’immane contaminazione di pubblico e privato, che da alcuni decenni sconvolge i paradigmi della statualità, contrae la finalità pubblica generale e obbliga l’amministrazione a vagare alla ricerca delle condizionanti forme di sponsorizzazione offerte dal mercato. E a subire il peso delle deleterie cogestioni affaristiche che marciano all’insegna di una «urbanistica contrattata». Mentre proliferano potenze economiche pervasive che appaltano a fini di lucro la stessa sfera pubblica, mentre si stanziano nei territori reali «piccole oligarchie rampanti», una deviante forma di falsa coscienza dipinge la fase odierna come il magnifico ritrovamento dell’agorà.
Proprio quando la democrazia si banalizza a procedura priva di senso e viene presa d’assalto dalle potenze del denaro, attorno fioriscono metafore incantate che celebrano lo splendido ingresso nel paradiso del governo della discussione trasparente e dell’intesa dialogica. Occorre – ha ragione Terzi – rimettere ordine nella mappa dei concetti, smascherando le cortine fumogene che, nel mito ingannevole della società civile, rivestono i processi opachi di spoliticizzazione con uno splendore aurorale. Dopo anni di chiacchiericcio sulla fatidica meta della contendibilità della leadership come enigma risolto del politico, nota Terzi, occorre finalmente registrare che «il centro della crisi non sta nelle istituzioni, ma nella società».
La sconfitta epocale del lavoro, questa è la radice autentica della lacerazione che conduce alla mesta eutanasia della democrazia. Senza la soggettività del lavoro crepa anche ogni autonomia del pubblico, perforato dalla forma sempre più penetrante della merce. Sulle sabbie mobili della precarietà, dell’incertezza, della flessibilità, vacilla anche l’edificio del costituzionalismo novecentesco, ormai svuotato di senso. Per ripartire occorre assumere la gravità estrema della crisi, non rimuoverla. E questo obbliga -scrive Terzi – a prendere nota che «quasi tutte le parole della politica sono esaurite, svuotate, e hanno un sapore di retorica». Non è un mero problema linguistico o di comunicazione, ma un peculiare nodo sociale: per rimotivare la politica occorre rintracciarne le radici ultime nella società.
E qui per Terzi si pone il problema nodale del partito, perché «la crisi dell’idea di partito è un segno visibile della crisi della sinistra». Non servono scorciatoie iper-democratiche intraprese sulla scia luccicante del cittadino informato e presente, neppure sono esaustive le ipotesi edificanti di una sinistra come rifugio dei valori etico-culturali. Senza l’autonomia raggiunta nella trama molecolare del sociale, nessun progetto di recupero di autonomia della politica è davvero immaginabile. L’autonomia della politica non significa infatti separatezza dalle fratture del sociale. Per questo Terzi pone come prioritario proprio il tema della ricostruzione della rappresentanza, perché «senza rappresentanza la società si dissolve». Nel deserto della rappresentanza affiorano le perversioni dell’immaginario in salsa populista, compare l’abbagliante e fallace seduzione dell’iconografia decisionista. Una formula utilizzata da Terzi è molto efficace per impostare il compito che sta dinnanzi alla sinistra politica e sociale oggi: tornare a declinare un «pensiero organizzato».
Busta: 9
Estremi cronologici: 2012, gennaio
Autore: Michele Prospero
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Recensioni
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna sindacale”, n. 1, gennaio 2012, pp.190-195