RIFORMARE I RIFORMATORI
Il nodo del sistema politico
di Riccardo Terzi
I problemi istituzionali hanno ormai, da qualche tempo, occupato interamente la scena politica. Tutto ruota intorno alle diverse strategie di riforma delle istituzioni e tutto sembra dipendere dall’ esito di questo confronto. In ogni caso, si parte dalla comune convinzione che sia oggi necessario aprire una “fase costituente” e che dunque il primo essenziale obiettivo sia l’attuazione di un programma organico di riforme costituzionali. Divergono le soluzioni, non diverge l’analisi di base.
È condivisibile questo impianto? Sì e no. Sì, perché effettivamente è ormai matura e necessaria una ridefinizione degli assetti istituzionali, e non è più sostenibile una linea di difesa statica del nostro ordinamento costituzionale. Il difensivismo conservatore ci porta in un vicolo cieco, e ci conduce alla fine a subire passivamente l’iniziativa aggressiva e destabilizzante delle forze di destra. I temi istituzionali non possono essere elusi o aggirati. Possiamo certo tentare di modificare e di arricchire l’agenda politica, riportando in primo piano i problemi dell’economia e del lavoro, ma una linea di mera contrapposizione dei temi sociali a quelli istituzionali avrebbe solo il valore di una mossa propagandistica, di cortissimo respiro.
Nello stesso tempo dobbiamo dire anche dei no: no all’enfasi esclusiva e unilaterale sulle riforme istituzionali, come se da ciò soltanto dipendesse il futuro del paese; no all’idea che si debba oggi metter mano a una riscrittura generale della Costituzione; no a tutta l’ondata retorica intorno al mito della ‘seconda Repubblica’. Finiremmo altrimenti in un vicolo cieco ancora più insidioso, in balia di qualsiasi manovra demagogica. Il rimedio al conservatorismo non può essere l’avventurismo istituzionale. Nel primo caso ci troveremmo del tutto spiazzati e minoritari, incapaci di influire sul processo politico reale, nel secondo caso finiremmo come mosche nella ragnatela del neo-autoritarismo plebiscitario, che riduce la democrazia al rapporto carismatico tra il popolo e il suo leader.
Ci può essere una ragionevole posizione di mezzo, o la logica del bipolarismo significa che non c’è più spazio per soluzioni equilibrate, e che siamo liberi solo di scegliere tra la padella e la brace? Tra logiche entrambe mistificanti, ci può essere un campo assai vasto di posizioni più ragionate. L’elogio del ‘giusto mezzo’ non è oggi di moda, puzza di velleità restauratrice del Grande Centro. Pazienza: ci adatteremo a subire questa accusa infamante.
Se analizziamo la crisi italiana di questi anni, questa fase di transizione nella quale siamo ancora del tutto avviluppati, senza nessuna certezza sul futuro, mi sembra di poter dire che l’epicentro della crisi è nel sistema politico, nello sconvolgimento che ha investito tutto un sistema di potere, il suo equilibrio, le sue regole, i suoi protagonisti. È una crisi politica prima che istituzionale. È la classe dirigente che è saltata. La Costituzione non c’entra. C’è qui un punto di analisi assai importante, e da ciò discende un diverso approccio ai problemi istituzionali. La nostra non è una crisi costituzionale, non è una crisi dell’ordinamento, e quindi anche tutta la discussione intorno alle riforme istituzionali va necessariamente inquadrata dentro i processi politici, ed è del tutto priva di senso e di efficacia se si perde di vista questo rapporto.
Ora, di fronte a un sistema politico che si è destrutturato, c’è chi pensa che la soluzione stia nella definitiva liquidazione dei partiti. Sulle rovine della partitocrazia dovrebbe nascere una democrazia di tipo nuovo, che salta le mediazioni politiche e stabilisce un rapporto diretto tra cittadini e leadership di governo.
È questo, in breve, il senso del presidenzialismo, nelle sue diverse varianti: la fine della democrazia dei partiti, e la fine contestuale della democrazia parlamentare, perché non c’è forza autonoma del Parlamento se non per il tramite di una forte struttura partitica.
Io credo che questa prospettiva debba essere nettamente contrastata, in quanto il suo esito significherebbe un restringimento degli spazi democratici: non una democrazia più ricca, ma una nuova oligarchia di potere; non il protagonismo della società civile, ma la degradazione dal cittadino-sovrano al cittadino-consumatore, manipolato dalle tecniche di comunicazione. Senza soggetti collettivi, la democrazia non vive, e diviene inevitabile una spinta di segno autoritario. Quando Mario Segni parla del “Sindaco dell’Italia”, viene finalmente alla luce una idea paternalistico-autoritaria che è del tutto estranea alla cultura costituzionale europea. C’è la furbizia di evocare la figura del sindaco, più vicina all’ esperienza concreta dei cittadini, ma è una furbizia ridicola, perché solo un imbecille può pensare che le stesse tecniche istituzionali possano valere per un municipio e per un grande Stato nazionale. Che l’idea sia imbecille non significa che essa non possa avere una presa nella coscienza collettiva, proprio in quanto fornisce un’idea semplificata, mitologica, una sublimazione simbolica. Noi dobbiamo quindi render chiaro un diverso cammino, una diversa strategia, e dobbiamo per questo saper andare contro corrente, e impegnarci seriamente in un’opera di demistificazione dei luoghi comuni e dei miti della ‘seconda Repubblica’.
Un gioco solo tattico non basta, e rischia di portarci infine là dove è già pronta a scattare la trappola autoritaria. Finora la sinistra ha prodotto solo un tatticismo incerto, e non ha fissato con chiarezza i punti essenziali di discrimine, le questioni di principio sulle quali non ci può essere transazione, dando così l’impressione di una generica disponibilità alle più diverse soluzioni istituzionali. Il risultato è l’attuale stato di confusione, nel quale finiscono per passare come innovative, anche con il beneplacito di autorevoli esponenti della sinistra, proposte istituzionali che si collocano nella più pura tradizione di destra, antipartitica e antiparlamentare.
Tomo ad insistere sul punto che riguarda i rapporti tra sistema istituzionale e sistema politico. Sta qui, a mio giudizio, il nodo centrale. La stessa legge elettorale maggioritaria può avere effetti opposti a seconda del sistema politico nel quale si trova a essere inserita. Se c’è un sistema strutturato, essa produce effetti positivi di stabilità e di governabilità. Se all’opposto sono in crisi i canali dell’organizzazione partitica, essa determina un’ulteriore frammentazione, dando luogo a un Parlamento di notabili locali, senza elementi di coesione, in una condizione quindi di strutturale ingovernabilità.
L’idea di un movimento dei cittadini, che spazza via definitivamente le appartenenze politiche, e che così finalmente si appropria di un potere democratico reale, è una pure mistificazione ideologica. Il risultato sarebbe l’impazzimento dell’intero sistema, incapace di qualsiasi punto di equilibrio, l’opposto degli obiettivi di stabilità e di efficienza che ci si proponeva di raggiungere con il movimento referendario. E allora, certo, diviene inevitabile il ricorso al leader carismatico, alla concentrazione del potere in una sola persona, perché a quel punto non ci sono più altri strumenti di regolazione. La carovana referendaria finisce così nelle braccia del sultano.
In sostanza, non ci può essere una strategia istituzionale efficace che non tenga conto dei caratteri concreti del sistema politico, così come si presentano in un determinato paese. Nella nostra attuale situazione, di sfilacciamento e di ulteriore frammentazione del sistema dei partiti, qualsiasi politica di riforma istituzionale rischia di essere inefficace, perché mancano i soggetti politici capaci di gestirla. Ecco perché l’attuale discussione istituzionale finisce per essere inconcludente: perché è costruita su schemi del tutto astratti e non tiene conto dei soggetti reali. Si ragiona secondo il modello teorico di un perfetto bipolarismo, ma questo bipolarismo non c’è, e non è nell’orizzonte prevedibile dei prossimi scenari politici.
Certo, una spinta verso il bipolarismo è stata innescata, con la nuova legge elettorale. Ma il processo è ancora estremamente fluido, incerto, contraddittorio. Occorre far maturare delle condizioni che ancora non ci sono, e ragionare come se già fossimo in presenza di un bipolarismo consolidato ci porta a errori profondi di valutazione e di prospettiva. Ad esempio, l’idea che ormai non abbia più nessuna ragion d’essere una qualsiasi ipotesi “di centro” è solo l’adattamento a uno schema politologico astratto, e non tiene conto della dinamica reale delle forze. Il problema è la ricostruzione di un sistema politico che possa funzionare come canale di organizzazione della volontà collettiva e come elemento di mediazione dei diversi interessi. In assenza di ciò, la società si disgrega nella frantumazione degli interessi corporativi immediati. La società civile è solo, come diceva Hegel, il “sistema dei bisogni”, e da sola non è in grado di regolarsi se non interviene un qualche elemento superiore di coesione.
Se dunque il tema è la costruzione dei soggetti politici, e se questa è la condizione, come io credo, per dare efficacia a una strategia di riforma istituzionale, allora il nostro primo terreno di azione riguarda la sfera della politica. Abbiamo oggi solo un embrione, con l’operazione dell’Ulivo. Ma essa appare ancora solo come una coalizione elettorale, come un insieme eterogeneo di forze, e non ancora come un progetto autonomo, come una identità politica forte.
Qui sta il nodo centrale del lavoro politico che occorre realizzare, per creare davvero un soggetto politico nuovo, con una sua coesione, con una identità riconosciuta e visibile, con un’anima, il che rappresenterebbe un primo decisivo passo verso una ristrutturazione del sistema politico. In prospettiva, si può pensare a un unico partito della sinistra democratica. Non si può dunque prescindere da un processo politico nuovo, il quale non dipende dai meccanismi istituzionali, ma certamente dalle strategie delle forze politiche.
Ma andrebbero affrontate, sul terreno istituzionale, almeno due questioni. La prima è la correzione dell’attuale legge elettorale con il passaggio a un sistema a doppio turno, il quale può favorire una graduale evoluzione del sistema politico in una logica di grandi coalizioni alternative. La seconda questione riguarda i costi della politica, e quindi la necessità di un insieme di misure di sostegno per consentire l’effettivo sviluppo di una democrazia di massa. Già è in atto un processo di restringimento della democrazia, e la politica finisce per essere un affare di élites, di lobbies, di gruppi di interesse. È invece essenziale che l’accesso alla politica sia aperto all’intera società italiana, in tutte le sue articolazioni. In caso contrario, può determinarsi un pericolosissimo rovesciamento del processo storico che ha portato le grandi masse popolari, attraverso i partiti di massa, a riconoscersi nello Stato democratico; può determinarsi cioè una nuova condizione di estraneità e di ostilità, con tutti i rischi che ne derivano di una rottura del patto costituzionale e della coesione nazionale.
Le riforme istituzionali, dunque, sono inseparabili dal contesto politico e possono essere efficaci in quanto il sistema politico si riorganizza. Il caso italiano va quindi affrontato con cautela, perché è debole e in via di ristrutturazione il sistema dei partiti. Non è possibile importare modelli istituzionali che funzionano in altri paesi, in diversi contesti politici, e questo continuo riferimento al modello Westminster, o al semipresidenzialismo francese, o al cancellierato tedesco, finisce per essere un esercizio solo accademico. Per questa ragione, l’ipotesi presidenzialista è inaccettabile nel nostro contesto politico: perché essa agirebbe come un potente fattore di moltiplicazione di tutte le spinte disgreganti e delle tendenze in atto verso una semplificazione autoritaria del nostro sistema. Saremmo spinti inesorabilmente in una condizione di tipo latino-americano, con strutture democratiche precarie, con un gioco politico che si consuma tutto intero nella cerchia ristretta di poche persone.
Occorre meglio chiarire e motivare gli obiettivi di una strategia riformatrice, i quali non possono essere ridotti solo al tema del rafforzamento della funzione di governo. Questo appare oggi, nel dibattito politico, come l’unico tema, e tutto si riduce alle esigenze di stabilità e di governabilità. C’è una divergenza anche aspra nell’individuazione degli strumenti, dal presidenzialismo al cancellierato, ma c’è in fondo una ispirazione convergente, in quanto si pone comunque come questione centrale quella di una più forte legittimazione dell’esecutivo.
Una tale impostazione è condivisibile solo parzialmente, e a determinate condizioni. In primo luogo, resta essenziale per l’equilibrio democratico del paese la definizione di un sistema di garanzie e di contrappesi, per impedire la concentrazione in un unico punto di tutto il potere decisionale. L’obiettivo, quindi, non può essere solo quello del rafforzamento del governo, prescindendo dalla complessiva architettura istituzionale. E conseguentemente non è positiva qualsiasi soluzione di rafforzamento dell’esecutivo. In effetti molte delle ipotesi che oggi sono in campo presentano rischi gravi di snaturamento dell’equilibrio costituzionale, con la riduzione del Parlamento a una funzione solo di cassa di risonanza al servizio di un premier legittimato dal voto popolare. Secondo questa concezione, se il governo dovesse essere sfiduciato ne dovrebbe conseguire automaticamente lo scioglimento delle Camere, con il che è evidente che la funzione parlamentare viene sostanzialmente menomata.
Si devono meglio distinguere le rispettive funzioni di governo e Parlamento, correggendo i difetti di un assemblearismo parlamentare che è un motivo di permanente instabilità. Ma si tratta appunto di realizzare un equilibrio, non di sancire un dominio unilaterale di una sola parte.
In secondo luogo, una politica istituzionale tutta incentrata sullo schema classico dello Stato centralizzato finisce oggi inevitabilmente per mancare il bersaglio, perché nel frattempo si sono spostati i luoghi della decisione politica, sia nel senso dell’integrazione internazionale, sia in quello, complementare, della costruzione di sistemi territoriali autoregolati. Il problema del governo va oggi affrontato su diversi piani, a diversi livelli, e quindi con una articolazione degli strumenti istituzionali. La funzione di governo non ha un’unica sede, non si esaurisce a Palazzo Chigi, ma è un insieme di poteri e di luoghi decisionali che è in rapporto assai stretto con la crescente complessità della struttura sociale.
C’è un doppio movimento da realizzare, verso l’alto e verso il basso, per impostare da un lato le grandi scelte strategiche che si collocano necessariamente su una scala sovranazionale, e per riorganizzare i sistemi locali, con una propria autonoma capacità di regolazione e di utilizzo ottimale delle proprie risorse. Queste sono oggi le nuove frontiere da esplorare, e l’Italia appare in grave ritardo perché non ha saputo riorganizzare la propria macchina statuale, ancora modellata secondo uno schema centralistico-burocratico sempre meno in grado di guidare i processi reali.
Ora, tutta l’offensiva di destra intorno al mito del presidenzialismo non fa che riprodurre una vecchia idea di Stato, un’idea ormai arcaica del potere, alimentando l’illusione che basti un leader forte per governare la nuova complessità sociale, mentre il movimento reale della società va in tutt’altra direzione, passando da una struttura piramidale a una struttura a rete, da una logica di comando gerarchico a una logica di integrazione e di sinergia.
Nell’epoca della mondializzazione dell’economia, non è più possibile concepire la politica nell’ambito ristretto degli Stati nazionali. Già è in atto uno slittamento delle sedi decisionali, e questo slittamento avviene oggi senza un effettivo controllo democratico, perché ancora non si sono costruite le istituzioni politiche democratiche della nuova Europa. Qui c’è uno scarto, un rischio di divaricazione tra politica ed economia, perché, mentre si integrano le istituzioni economiche e monetarie, non c’è ancora, a livello politico, una struttura istituzionale adeguata su scala europea.
Forse è qui, intorno a questo nodo, che potrebbe utilmente essere attivato un processo costituente inteso a costruire le istituzioni democratiche della nuova Europa e a definire una base comune di diritti sociali di cittadinanza.
Sull’altro versante, è aperta l’esigenza di una profonda riforma dello Stato nel senso dell’autogoverno dei sistemi territoriali, nella direzione quindi di un modello di tipo federalista. Occorre, anche in questo caso, vedere bene le condizioni particolari del nostro paese, le sue specificità storiche e politiche, e costruire perciò un progetto che sia aderente alla nostra situazione concreta. Mi sembra importante considerare tre particolarità della situazione italiana, le quali richiedono specifiche strategie di intervento.
La prima specificità riguarda l’ampiezza del divario economico e sociale tra il Nord ed il Sud del paese, il che costituisce un’anomalia dell’Italia rispetto a qualsiasi altro paese europeo. Questo divario non è affatto in via di superamento, e tutti i dati indicano al contrario un aggravamento della situazione sociale nel Mezzogiorno. Questo è un argomento, come qualcuno ritiene, tale da escludere per l’Italia l’ipotesi federalista? Credo di no; credo anzi che le stesse regioni del Sud, che sono rimaste schiacciate da un rapporto di dipendenza di tipo assistenziale, possano trovare nuove risorse e nuova coscienza di sé nell’esercizio limpido di una propria effettiva autonomia. Non possiamo però nasconderci i rischi, soprattutto per il fatto che la tematica federalista è stata rilanciata in Italia a partire dalle posizioni ‘separatiste’ della Lega, e si è quindi caricata di un insieme di motivazioni che mettono a rischio l’unità e la solidarietà nazionale. Per questo sono indispensabili precise e rigorose garanzie, per impedire che il federalismo divenga la via per una definitiva ed insanabile divaricazione tra le regioni forti e le regioni deboli. La garanzia sta anzitutto nella definizione di meccanismi di perequazione nella distribuzione delle risorse, e sta inoltre nella riaffermazione dei diritti costituzionali fondamentali e del loro carattere di universalità, il che comporta una efficace azione di vigilanza da parte dello Stato centrale per garantire l’effettività di tali diritti.
In secondo luogo, occorre tener conto della tradizione storica dell’Italia, del fatto che la nostra storia è essenzialmente una storia di città, mentre è debole l’identità regionale. E oggi, con l’elezione diretta dei sindaci, sono proprio le città a riproporsi come punto forte di aggregazione democratica. Ciò costituisce una risorsa importante, ma anche nello stesso tempo un possibile freno sulla via dell’innovazione istituzionale. Quando si dice ‘federalismo delle città’, volendo così sottolineare questo tratto specifico della nostra storia, si dice in realtà una frase senza senso, perché nessuna riforma federalista sarà mai possibile sul fondamento esclusivo delle autonomie locali. La rete dei comuni, una rete quanto mai frantumata e dispersa, potrà avere margini di autonomia, ma non potrà mai costituire una alternativa politica allo Stato centralizzato. Potrà esserci decentramento, ma non federalismo.
La dimensione indispensabile per una reale riorganizzazione dei poteri è necessariamente quella regionale, e probabilmente occorre incentivare accorpamenti più ampi rispetto a quelli attuali. Ma le regioni non devono divenire un nuovo punto di centralizzazione e non devono riprodurre alloro interno il modello burocratico-ministeriale, ma occorre al contrario concepire il federalismo come la sperimentazione di una nuova forma di governo, di una nuova modalità di funzionamento dello Stato. Io penso alle nuove regioni come a grandi centri di regolazione, capaci di attivare nella loro autonomia una pluralità di soggetti, istituzionali e sociali. La regione è una rete di relazioni: ci sono i comuni, grandi e piccoli, c’è una complessa struttura istituzionale (provincie, aree metropolitane, comunità montane), che ogni regione dovrebbe poter organizzare in piena autonomia, senza dover obbedire ad un unico modello uniforme deciso centralmente; e c’è, insieme, un’articolazione sociale che entra a pieno titolo nella progettazione strategica del territorio, a condizione di trovare a questo fine le forme e gli strumenti di una pratica di confronto e di concertazione.
Regioni e comuni sono entrambi essenziali, sono i soggetti portanti di questa azione di riforma, e occorre dunque una alleanza, un patto politico per un’azione coordinata capace infine di rovesciare le logiche centralistiche finora prevalenti. Questa condizione ancora non c’è, e sembra piuttosto che ciascun livello istituzionale cerchi di trovare per proprio conto le vie politiche del proprio riconoscimento e rafforzamento. In questa situazione, il gioco resta nelle mani del potere centrale, che può sfruttare queste contraddizioni, e usare l’una contro l’altra le diverse istanze di autonomia.
Aggiungere alla conferenza Stato-regioni una parallela conferenza Stato-autonomie locali fa parte di questo gioco. È un errore, perché si conferma così una diretta competenza regolatrice del governo nei confronti degli enti locali. La soluzione va ricercata, all’opposto, in un nuovo tipo di rapporto tra regioni ed enti locali, ed è in proposito interessante la proposta avanzata dalla Regione Emilia Romagna per l’istituzione di un Consiglio regionale delle autonomie locali, capace appunto di dar voce e forza politica propria all’intero tessuto istituzionale dei comuni e delle provincie. È una soluzione che ripropone su scala regionale lo stesso modello che dovrebbe valere su scala nazionale con la trasformazione del Senato in una Camera delle regioni.
Vi è infine il problema dell’amministrazione, che è il vero punto di debolezza della situazione italiana. Il federalismo non funziona se non si creano nuove e più efficaci strutture amministrative, e sotto questo profilo le regioni non hanno fin qui, in generale, dimostrato una migliore capacità gestionale, e hanno finito per riprodurre i medesimi difetti della macchina statale, cioè, specificamente, con un eccesso di burocratizzazione e con un intreccio perverso tra politica e amministrazione.
Una strategia riformatrice ha qui il suo banco di prova decisivo. Se le forze politiche si occupassero di più del problema dell’amministrazione, anziché di grandi progetti di riforma costituzionale, farebbero certamente un’opera più utile. La riforma istituzionale non può consistere solo in un trasferimento di competenze e di risorse dal centro alla periferia, ma deve riguardare i modelli di funzionamento e di organizzazione degli apparati pubblici, il loro rapporto con la domanda sociale. Quindi è tutta la macchina dello Stato che va riorganizzata con nuovi criteri di efficienza e con nuovi meccanismi trasparenti di controllo democratico. La riforma federalista può essere un’occasione e uno stimolo per questa complessiva riorganizzazione.
Credo dunque, in conclusione, che la discussione istituzionale debba essere riportata su un terreno più fecondo, sottraendola alle astrattezze ideologiche che sembrano oggi prevalenti. Lo Stato non si riforma con operazioni ‘dall’alto’, come se si trattasse solo di organizzare la famosa ‘stanza dei bottoni’. Occorre una più complessa strategia riformatrice che sia capace di modificare in profondità il modo di essere delle strutture pubbliche. Su questi temi, il sindacato, proprio in quanto soggetto sociale che si misura con i processi economici reali, ha qualcosa da dire, ed è bene che entri in campo con una propria autonoma posizione nel dibattito politico-istituzionale. Il sindacato ha un ruolo se c’è una articolazione democratica della funzione di governo, una pluralità delle sedi decisionali, e un metodo di governo aperto al confronto con le forze sociali. La demagogia plebiscitaria toglie ruolo a tutte le strutture intermedie della rappresentanza, e nel rapporto diretto cittadini-leader non c’è più spazio per nessuna forma di regolazione e di concertazione delle dinamiche sociali. Non possiamo dunque essere neutrali, perché è in gioco la concezione della democrazia e l’equilibrio dei poteri. È il momento di parlare e di dire con chiarezza quali sono le nostre proposte.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1996, gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Quale stato”, n. 1, gennaio-marzo 1996, pp. 51-64