RIDEFINIRE LA SINISTRA A PARTIRE DAL LAVORO
di Riccardo Terzi – Responsabile dell’Ufficio riforme istituzionali della CGIL nazionale
L’avvento della società del lavoro segna l’inizio della modernità. È a partire dall’organizzazione capitalistica della produzione che il lavoro diviene il fondamento della cittadinanza, il valore primario su cui si regge l’identità della persona e il suo significato nella rete delle relazioni sociali.
Rispetto alle società premoderne c’è un totale rovesciamento di prospettiva. Nel mondo classico della polis e nella società feudale il lavoro rappresenta solo il lato servile, strumentale, subalterno, il regno della necessità e della sottomissione, e la realizzazione della persona non può che avvenire in una sfera di vita estranea alle necessità del lavoro.
Le figure rappresentative dell’antichità sono sempre figure del non-lavoro: nobili, soldati, sacerdoti, o anche mendicanti e avventurieri. Il lavoro è solo il sottosuolo invisibile di questa società, il mondo senza voce e senza rappresentanza di chi resta schiacciato nella morsa della necessità.
La modernità ribalta questo modello, e i protagonisti diventano le grandi forze produttive: borghesia e proletariato, con il loro conflitto e con la loro convergenza nell’opera di distruzione del vecchio ordine sociale e delle sue rappresentazioni ideologiche. Come è noto, è un processo che investe tutti gli aspetti della vita, rivoluzionando anche la sfera morale e quella religiosa. Il lavoro si costituisce, per la prima volta nella storia, come il fondamento dell’ordine sociale, come il contenuto sostanziale dell’etica pubblica, e questo principio viene anche sancito sul terreno giuridico, come dimostra il primo articolo della nostra Costituzione.
Mentre nell’antico ordine sociale la cittadinanza politica e il lavoro stavano in un rapporto di reciproca esclusione, ora, nel moderno diritto costituzionale, essi sono indissolubilmente legati.
Questo grande edificio storico della modernità, centrato sul lavoro come fonte del diritto e come fondamento della cittadinanza, sta ora entrando, con l’inizio del nuovo millennio, in una fase critica e appare sempre più problematico e incerto.
La compattezza della società del lavoro si sta sgretolando. Il lavoro si frantuma, diviene sempre più aleatorio, precario, dipendente da condizioni di insicurezza, e nello stesso tempo la coscienza soggettiva delle persone non si lascia più racchiudere nella sola dimensione lavorativa, ma cerca altre vie, altri modi per affermarsi.
Il principio costituzionale che fonda sul lavoro l’intero edificio giuridico-statale perde la sua evidenza, la sua forza normativa, sia perché, per molti, il lavoro non c’è o c’è solo in forme precarie e umilianti, sia anche perché i bisogni di autorealizzazione, in una società fortemente individualizzata, travalicano la sfera del lavoro e sollevano nuove domande, nuovi bisogni, non riducibili alla dimensione del lavoro e alla identità collettiva che nel lavoro si costituisce.
La centralità del lavoro viene quindi aggredita sia dal basso che dall’alto, dall’universo della precarietà per il quale il lavoro non è realizzazione di sé, ma solo sofferenza e angoscia del futuro, e dal lato dell’individualità sviluppata che non si appaga nel lavoro e cerca la sua realizzazione in una dimensione più larga.
Il lavoro non è più il fondamento riconosciuto della collettività. Esso diviene un problema, un punto critico nella vita delle persone, e sotto il profilo politico diviene uno dei tanti capitoli irrisolti, perché nessuno riesce più a dare sostanza al lavoro come diritto, e le politiche del lavoro sono solo tentativi di arginare, spesso in modo del tutto infruttuoso, la grande ondata della disoccupazione di massa. E allora, in questa nuova condizione di incertezza problematica, si sviluppano diversi tentativi di fondare una nuova teoria politica, un nuovo sistema, non più a partire dal lavoro, ma dalla fine del lavoro, con un radicale ripensamento del principio di cittadinanza.
L’obiettivo è quello di dare un fondamento alla comunità politica, nel momento in cui il lavoro non riesce più a essere un fondamento sufficiente, di affermare i diritti della cittadinanza secondo una visione universalistica che non sia più dipendente dalle sorti incerte e problematiche del lavoro. È un obiettivo accettabile se si tratta di offrire una più forte garanzia al sistema dei diritti sociali, alla condizione però di non accantonare come ormai irrilevante tutta la problematica del lavoro. Così, ad esempio, il reddito di cittadinanza può essere un utile strumento di sostegno e di protezione, ma può essere anche l’alibi per gettare definitivamente la spugna di fronte al problema della disoccupazione. Se il punto di partenza è l’idea di una cittadinanza politica più fortemente garantita, il punto di arrivo può essere alla fine la presa d’atto di una condizione di esclusione che può essere affrontata solo in termini assistenziali.
In questo filone di ricerca rientra anche il libro di Ulrich Beck, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, che già nel titolo assume esplicitamente l’orizzonte storico-politico del tramonto della «società del lavoro».
Nel libro occorre distinguere la parte analitico-descrittiva e quella propositiva, che solo apparentemente sono tra loro intrecciate in un rapporto di coerenza. Dall’indagine sociologica che mette a fuoco il nuovo scenario della società dell’insicurezza e del rischio si fa discendere la prospettiva utopica di una nuova comunità politica, di un movimento di impegno civile che fonda una nuova cittadinanza, compiendo così un passaggio, che a me pare infondato, dal dominio dell’incertezza che governa le nostre relazioni sociali verso l’approdo idealizzato di una polis che riscopre la classicità di una partecipazione politica consapevole.
L’incertezza si rovescia alla fine nel suo contrario, il movimento della modernità si risolve in un ritorno alla forma classica della democrazia politica, e tutto il processo di segmentazione e disarticolazione sociale si ricompone virtuosamente in una rinnovata vita comunitaria. Il dominio della precarietà e dell’insicurezza, individuato esattamente come l’orizzonte storico del nostro tempo, non viene affrontato, ma aggirato, pensando di poter costruire, oltre il mondo lacerato del lavoro, e lasciando questo mondo al suo destino, una sfera politica che trova in se stessa il suo fondamento. La fine del lavoro è, miracolosamente, l’inizio della cittadinanza politica.
Temo che le vie di uscita dalla società del rischio siano meno rettilinee e più intricate. La stessa sfera politica è pienamente coinvolta nei processo di destrutturazione sociale, così che anche gli strumenti e le forme della democrazia appaiono usurati, inceppati, e vanno ripensati e ricostruiti nel nuovo contesto sociale. Se tutta la vita collettiva è immersa in «uno stato di insicurezza endemica», ciò ha riflessi profondi sulla prospettiva politica, perché l’insicurezza genera insieme passività e populismo, sfiducia e rifugio nel mito. È troppo semplice dire che «l’antitesi alla società del lavoro è rappresentata dal rafforzamento della società politica degli individui», perché questa antitesi non è disponibile, non è a portata di mano, essendo la politica non fuori e oltre la crisi, ma nel mezzo della crisi, dominata anch’essa dalla precarietà e incapace di indirizzare il processo sociale.
La fine del lavoro trascina con sé la fine della politica. E allora si tratta, senza cercare facili scorciatoie, di affrontare il nuovo contesto sociale e di agire, socialmente e politicamente, dentro questo contesto, dentro le nuove coordinate che caratterizzano la società dell’insicurezza.
Beck descrive questo processo, questo passaggio dalla prima alla seconda modernità, come una “brasilianizzazione” dell’Occidente. «Ciò a cui assistiamo è l’irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione. La varietà, la confusione e l’insicurezza delle forme lavorative, biografiche ed esistenziali del Sud si espande nel cuore dell’Occidente». Nello stesso senso si può parlare di una “femminizzazione” del lavoro, in quanto i tratti storici del lavoro femminile, come lavoro discontinuo e precario, sono divenuti i tratti dominanti.
Ciò non è l’effetto di una congiuntura sfavorevole, di una momentanea fase di difficolta, ma al contrario è il portato dei successi dello sviluppo capitalistico e del suo uso sistematico delle nuove risorse tecnologiche.
Non c’è più una relazione positiva tra crescita economica e occupazione, ma è il meccanismo di sviluppo in quanto tale che genera, necessariamente, precarizzazione del lavoro, marginalità sociale, crescita delle disuguaglianze. «Nel momento in cui il capitalismo globale dissolve i valori di base della società del lavoro dei paesi dell’Occidente, si spezza un patto storico tra capitalismo, Stato sociale e democrazia». Il neoliberismo, che si propone semplicemente di assecondare questo processo, affidando esclusivamente al mercato la regolazione sociale, finisce per mettere in crisi la stessa legittimità democratica del capitalismo. Esso è quindi «una forma di analfabetismo democratico», perché non comprende che l’economia di mercato è funzionale alla democrazia politica solo se riesce a garantire la sicurezza e i diritti sociali. Se questo equilibrio si rompe, è la stessa democrazia che viene messa a rischio.
Le società dell’Occidente sono quindi messe in bilico, esposte a una possibile prospettiva di regressione sia sotto il profilo della qualità sociale, sia per quanto riguarda la vitalità e l’efficacia della democrazia politica. La brasilianizzazione è appunto questo: lacerazione del tessuto sociale e dispotismo politico. Non è uno scenario avveniristico, ma una potenzialità che già oggi è aperta. Per quanto riguarda l’Italia, forse già con le prossime elezioni politiche potremo capire in quale direzione ci stiamo incamminando.
Fin qui, l’analisi di Beck è del tutto condivisibile: è una presa di coscienza drammatica dei rischi a cui sono esposte le comunità nazionali dell’Occidente, e del possibile fallimento dei loro valori di eguaglianza e di solidarietà. Nella dialettica storica tra libertà ed eguaglianza, che segna tutta la storia della cultura politica europea, si è oggi riaperta una linea di divaricazione e di conflitto. Il modello sociale europeo ha finora cercato un equilibrio, inquadrando la libertà in un contesto di equità e di coesione sociale. È questo il senso profondo del moderno costituzionalismo europeo, il quale è teso ad affermare non solo l’uguaglianza giuridica delle persone, ma l’uguaglianza sostanziale, allargando quindi la sfera dei diritti dal piano politico a quello sociale.
Ma ora l’offensiva liberista e il primato, su scala mondiale, del modello americano, tendono a spezzare questo equilibrio: il principio di libertà viene declinato, in una prospettiva individualistica, come l’unico criterio regolatore, e la società diviene quindi il campo di una competizione illimitata, globale, nella quale conta solo l’iniziativa e la capacita del singolo, senza nessuna efficace rete protettiva, senza altro diritto se non quello di competere per la propria affermazione. L’etica sociale non consiste più in un’idea di giustizia, ma è l’etica del vincitore, del giocatore che riesce ad azzeccare nella vita le mosse vincenti. Il valore della persona è misurato dal successo.
Ora dunque si tratta nuovamente di prendere posizione, in modo chiaro, di fronte al dilemma tra libertà ed eguaglianza. La cultura politica dominante cerca di evitare questa scelta, e si adagia in una retorica tranquillizzante nella quale non c’è più conflitto, ma armonia prestabilita, sovrapposizione e identificazione di libertà e democrazia, di cultura liberale e cultura socialista.
Ecco allora l’espediente retorico dei «socialismo liberale», che serve solo a non prendere posizione e a non impegnarsi nel conflitto che è aperto, preparandosi alla resa. A questo sono sempre servite le terze vie: a impedire che l’assetto sociale sia davvero messo in questione,
Ma anche la posizione di Beck, che pure evita di impantanarsi in facili formule conciliatorie, risulta essere alla fine una posizione di rinuncia. La tesi della «fine del lavoro» significa infatti che il processo sociale che si è dispiegato nella seconda modernità deve necessariamente giungere al suo approdo conclusivo, e questo approdo è lo spiazzamento definitivo del lavoro. Il lavoro viene fatto a pezzi, viene disgregato, frantumato, marginalizzato, e non c’è nessuna possibile azione di contrasto rispetto a questa tendenza. L’unica risposta possibile è l’uscita dalla società del lavoro e la costruzione di una nuova cittadinanza politica. La risposta è solo politica e non sociale. Utopismo politico, quindi, che non poggia su nessuna base materiale: se la partita sociale è persa, non si vede da dove possa ripartire un processo politico di ricomposizione della polis. La chiave risolutiva è individuata nel «lavoro di impegno civile». Ma a sua volta questo lavoro richiede delle condizioni sociali di partenza, richiede un contesto che lo renda efficace, altrimenti si tratta solo di un’azione interstiziale che introduce nella società della competizione totale qualche possibile lenimento, all’interno di un’economia politica accettata con le sue leggi e con le sue compatibilità. Non è una novità politica, è l’antica ricetta della dottrina sociale della Chiesa cattolica: capitalismo temperato dalla carità.
Volontariato, associazionismo, impegno civile: ma in funzione di quale progetto sociale? Se è ormai spezzato definitivamente il rapporto tra lavoro e politica, tutte le risorse generose dell’attivismo sociale non producono politica, non costruiscono un nuovo modello, ma hanno solo una funzione lubrificante in una società strutturata secondo i principi del liberismo.
Il rapporto tra politica e lavoro è stato storicamente il tratto distintivo della sinistra. E mi riesce difficile pensare la sinistra e il suo progetto fuori da questo rapporto.
Le difficolta attuali della sinistra non dipendono dall’essere ancora legata a un vecchio paradigma sociale ormai sorpassato, ma dal fatto che non risulta più con chiarezza la sua vocazione sociale, il suo ancoraggio nella materialità delle condizioni di vita e di lavoro, e quindi diviene sfuggente e opaca la sua funzione di rappresentanza. La sinistra non è appesantita dal suo passato, dalle sue radici, ma è resa evanescente dal suo essere sospesa nel vuoto, senza tradizione e senza progetto storico.
La forza di un progetto politico è nella sua capacità di far leva su un blocco determinato di forze sociali, sulla sua capacità di organizzazione e di movimento. La sinistra non è la predicazione dei valori, non è l’utopia della società perfetta, ma è l’organizzazione pratica di un movimento sociale che agisce nel contesto storico dato, strappando risultati parziali, modificando i rapporti di forza, mobilitando a questo fine le risorse politiche di una identità sociale collettiva. Tutto questo è oggi sicuramente problematico e incerto. Ma possiamo accettare con leggerezza la tesi liberatoria della fine del lavoro, la quale significa semplicemente la fine dell’esperienza storica della sinistra?
La realtà ci offre il quadro di una profonda trasformazione del lavoro, ma non ci autorizza a relegare il lavoro nel dimenticatoio delle cose ormai sorpassate. Cambiamento, crisi, sconvolgimento, fine di un determinato paradigma sociale e avvento di una nuova condizione di incertezza, con tutto ciò dobbiamo fare i conti. E i conti si fanno se il lavoro viene studiato nella sua dinamica e nelle sue contraddizioni. Le stesse analisi sociologiche di Beck, al di là delle sue conclusioni politiche, mostrano essenzialmente il carattere ambiguo dei processi in atto, il fatto cioè che tutta la situazione resta aperta a diverse possibili evoluzioni. Non c’è un destino già scritto, ma un processo sociale che può prendere strade diverse. La società dell’incertezza è anche la società dell’ambivalenza, dei significati multipli e cangianti, della coesistenza di diversi possibili scenari, scenari di speranza o di declino. Da un lato vi sono le potenzialità positive dell’individualizzazione del lavoro, come possibile crescita della conoscenza, dell’autoregolazione del tempo, dell’autonomia della persona in un processo lavorativo non più standardizzato e gerarchizzato, dall’altro lato c’è una prospettiva di precarizzazione, di esclusione, di impotenza del lavoro di fronte ai processi di globalizzazione. «Il lavoro è locale, il capitale è globale». Questa asimmetria gioca tutta a favore della grande impresa transnazionale, che si può muovere liberamente nella dimensione globale, combinando i fattori della produzione nel modo più conveniente, mentre il lavoro non può avere la medesima elasticità, se non nel campo ristretto delle alte professionalità, e quindi subisce una flessibilità coatta, imposta dall’esterno.
Liberazione del lavoro o suo asservimento, sviluppo dell’autonomia della persona o ricaduta in una condizione servile, entrambi i lati di questa ambivalenza sono operanti nella realtà. Il risultato può essere una nuova frattura sociale, all’interno del mondo del lavoro, tra chi ha gli strumenti conoscitivi e culturali per padroneggiare «l’economia politica dell’insicurezza», e chi, sul versante opposto, viene sempre più spinto verso una condizione di marginalità.
Torna quindi con forza il grande tema dell’eguaglianza. Come è possibile affermare le ragioni dell’eguaglianza nel nuovo contesto sociale? Formazione, sviluppo della professionalità, diritti, protezione sociale: su tutti questi terreni va impostata una precisa linea di azione, per contrastare la prospettiva di una rottura definitiva tra garantiti e precari, tra lavoro creativo e lavoro servile. La libera dinamica del mercato, lasciata a se stessa, non può che produrre l’esito di una drammatica disuguaglianza sociale. In questo contesto, ciò che si profila non è una liberazione, uno sviluppo creativo della persona, oltre la sfera della necessità, ma piuttosto un possibile movimento a ritroso verso una struttura neofeudale, nella quale non ci sono diritti universali, ma prerogative di status, non c’è cittadinanza, ma strutturazione gerarchica della società.
Il destino del lavoro è il metro di misura della qualità sociale e democratica delle società moderne. Non c’è un’uscita virtuosa dalla società del lavoro, e la costruzione di una società democratica, di una reale cittadinanza politica, è inseparabile dall’azione sociale, dall’intervento sul lavoro, sulle biografie individuali e sui profili collettivi della persona dentro i meccanismi del lavoro e della riproduzione sociale. Se il lavoro è asservito, non ci sarà nessun risarcimento politico. Se il lavoro torna nel sottosuolo, anche la politica ne viene menomata e tornerà a essere un affare delle oligarchie. Non sono già forse visibili i segni di una tale tendenza? La politica non è già oggi, nella sua direzione prevalente, un gioco di vertice al quale si sente estranea la grande massa dei cittadini? La grande conquista della modernità è stata la costruzione di uno spazio politico come spazio sociale, occupato dai grandi soggetti collettivi. Ma ciò è stato possibile proprio perché si è costruita una precisa linea di collegamento tra lavoro e politica, perdendo la quale è tutto l’edificio della democrazia moderna che viene messo in crisi.
La sinistra, dunque, si deve ridefinire a partire dal lavoro. Dal lavoro che cambia, dal lavoro frantumato, dal lavoro esposto ai rischi della globalizzazione, per tentare di riconnettere, nelle nuove condizioni, le fila di una rappresentanza sociale e per reimpostare un discorso credibile e realistico sull’eguaglianza, sui diritti, sull’autonomia della persona nel lavoro. La sinistra o fa questo, o cessa di esistere, e diviene un ornamento retorico di cui si può fare tranquillamente a meno.
In un gioco politico non più significante sotto il profilo sociale, non più discriminato dal tema cruciale del lavoro, non può che vincere, legittimamente, la destra, la quale, si ricordi, non ha affatto rinunciato alla sua funzione di rappresentanza e di organizzazione di un blocco sociale.
Infine, nell’epoca della globalizzazione, che è l’orizzonte ineludibile del nostro tempo, occorre saper reinventare le forme e gli strumenti dell’agire sociale e politico, superando i vecchi vincoli della dimensione statal-nazionale. Beck insiste giustamente, ed è forse la parte più stimolante del libro, sul nuovo carattere transnazionale che deve oggi necessariamente avere qualunque movimento, qualunque iniziativa, per poter agire efficacemente sui processi di fondo, sulle strutture portanti dell’economia e del mercato mondiali. Fino a che la politica, i partiti, le organizzazioni del lavoro continuano a essere strutture esclusivamente nazionali, chiuse nella dimensione classica dello Stato-nazione, legate a una struttura territoriale delimitata, non hanno nessuna possibilità di successo. Non c’è visione strategica se non in una prospettiva globale. In assenza di ciò, ci sono solo tattiche difensive e di aggiustamento, che non riescono ad aggredire i problemi di fondo.
Anche le politiche del lavoro non possono che essere politiche globali. Ma ancora mancano un’organizzazione, una struttura, una pratica politica che siano adeguate al nuovo contesto. La globalizzazione non è il nemico, ma il terreno su cui ricostruire forza politica, iniziativa, rappresentanza. Oggi c’è un movimento solo difensivo, contro il potere incontrollato delle grandi agenzie internazionali e contro i processi di omologazione e di distruzione delle diversità culturali, ma non c’è ancora una transnazionalità attiva e consapevole, decisa a occupare lo spazio globale con un proprio progetto politico. È questo il salto che necessariamente devono compiere le forze politiche e sociali per non essere travolte. Se il capitale è globale e il lavoro è locale, questo squilibrio, che oggi agisce nel senso di una destrutturazione di tutto il sistema dei diritti sociali, può essere colmato solo mettendo mano, con urgenza, alla costruzione di un’azione politica organizzata su scala mondiale. Un esempio, forse l’unico significativo che può essere citato, è la campagna lanciata dalla CGIL contro il lavoro minorile. È questa la strada: campagne internazionali per i diritti, coordinamento efficace tra le organizzazioni sindacali, costruzione di una rappresentanza sociale che possa intervenire in tutto il processo di regolazione del mercato mondiale. Non contro la società globale, ma per un’affermazione su scala globale dei diritti del lavoro. Il lavoro comincia oggi il suo cammino nella società transnazionale.
È solo in questo processo sociale, nella concretezza dei nuovi conflitti del mondo globalizzato, che si può faticosamente ricostruire la dimensione politica e il progetto di una nuova cittadinanza: un progetto che deve necessariamente attraversare il continente del lavoro e le sue contraddizioni.
Busta: 2
Estremi cronologici: 2000, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna Sindacale”, ottobre-dicembre 2000, pp. 119-126. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 175-187