RICORDO DI ANTONIO FANZAGA A UN ANNO DALLA SUA SCOMPARSA
Bergamo, 21 marzo 2000
di Riccardo Terzi
È già trascorso un anno dalla morte di Antonio Fanzaga, a soli 53 anni, un avvenimento doloroso per la CGIL come organizzazione e per ciascuno di noi. Ora forse possiamo ricostruire la sua figura politica con maggiore distacco, non più dominati dall’urgenza emotiva dei sentimenti.
Mi è stato affidato questo compito – non facile, perché entrano in gioco ragioni ed emozioni personali – ma è un’occasione importante di riflessione sulla CGIL, sulla sua storia e sul suo futuro, perché parlare di Antonio Fanzaga è parlare della CGIL, essendo tutta la sua storia personale intrecciata in modo indissolubile con la vita della nostra organizzazione.
Ho conosciuto Antonio Fanzaga nel 1984, quando entro nella segreteria regionale della CGIL. Fanzaga era allora alla FIOM, e poco dopo ci troviamo insieme nella segreteria regionale, avviando un’esperienza di collaborazione che dura circa 10 anni. Non conosco quindi direttamente la sua storia precedente, la storia di un quadro operaio che diviene, nel vivo di una straordinaria stagione di lotte sindacali, negli anni ‘60 e ‘70, un dirigente di primo piano della FIOM. La definizione di “quadro operaio” è del tutto appropriata, perché a quindici anni inizia a lavorare alla Breda Elettromeccanica. Non è solo un dato biografico, ma un dato politico. Per un sindacato “di classe” è importante che la selezione dei suo gruppo dirigente avvenga nel vivo dei processo produttivo, con un radicamento reale nei luoghi di lavoro e nel conflitto sociale. Oggi ci occupiamo troppo poco di questo aspetto, che è politico, che riguarda cioè la natura di classe dell’organizzazione e rischiamo di avere per i gruppi dirigenti un percorso separato, che non s’incrocia con l’esperienza reale dei movimento.
Il nostro obiettivo di fondo è quello di dare voce politica al mondo del lavoro, il che significa costruire gruppi dirigenti che siano davvero rappresentativi, che abbiano le loro radici nella realtà del lavoro, nella concretezza del processo sociale e delle sue trasformazioni.
Non sempre questo avviene, e siamo esposti al rischio di divenire una burocrazia separata, che vive di una logica propria, autoreferenziale. Quanti quadri di fabbrica oggi riescono, come Antonio Fanzaga, a diventare dirigenti della CGIL? È una questione da affrontare. Come avviene la selezione del gruppo dirigente, è forse qui il nodo più importante per la vita della CGIL, contrastando le tendenze alla burocratizzazione, e le logiche opportunistiche che privilegiano la fedeltà personale. Antonio Fanzaga non aveva fedeltà personali, ma era fortissima lo sua fedeltà all’organizzazione.
Questa era la sua caratteristica principale: ragionare sempre dal punto di vista dell’organizzazione, dal punto di vista degli interessi generali del movimento sindacale. Anche la sua militanza politica – dichiarata, esplicita e appassionata – era sempre condotta in modo tale da non entrare mai in conflitto con le ragioni della CGIL. Riusciva così a tenere insieme, in modo esemplare, militanza politica e impegno sindacale.
Fanzaga non era l’espressione di una “parte”, di una corrente, di un gruppo di pressione, ma era un dirigente della CGIL che sapeva tenere distinte le ragioni di partito e le ragioni dell’organizzazione. È un equilibrio difficile, che pochi sanno realizzare: passione politica autentica e autonomia della CGIL.
Per queste ragioni ho trovato sempre in Antonio Fanzaga un collaboratore prezioso. Ho cercato sempre il suo contributo, il suo consiglio, perché non era un consiglio di parte, ma era sempre un tentativo di sintesi che cercava di interpretare le esigenze collettive della CGIL.
Con Fanzaga non era mai in questione il suo ruolo personale (ricordo che solo con estrema riluttanza ha accettato di essere Segretario Generale aggiunto), né il ruolo di una parte politica, ma era in questione l’equilibrio complessivo della CGIL, e anche la continua attenzione e sensibilità verso le prospettive dell’unità sindacale, e questo era per me un punto forte d’intesa.
Certo, potevano esserci diverse valutazioni, ma erano valutazioni su questo terreno, sul terreno della strategia della CGIL e delle prospettive unitarie. Non erano mai valutazioni basate su logiche di parte.
Questo è stato il suo pregio e anche il suo limite (a ben guardare, i pregi e i difetti sono la stessa cosa, sono i tratti caratteristici di una personalità). Un limite, perché questa totale identificazione con l’organizzazione gli ha forse impedito di esprimere compiutamente le sue qualità personali. C’era come un eccesso di autocontrollo, di autolimitazione, di modestia messa al servizio dell’organizzazione. Ma – in un’epoca di personalismi smodati – è un difetto veniale. E la lezione di Fanzaga può essere un esempio positivo per ciascuno di noi.
Io ho trovato sempre in lui, anche nei passaggi più difficili, doti di equilibrio, di disinteresse, di saggezza. Nei momenti difficili, era la persona che ascoltavo, perché sapevo di avere un parere obiettivo, non condizionato da calcoli personali. Era un collaboratore ideale, non servile e non fazioso.
Abbiamo avuto, certo, discussioni, ma era sempre possibile trovare con Fanzaga un’intesa, un punto di equilibrio, e c’era la certezza che gli accordi fossero rispettati, senza manovre e senza aggiramenti. Anche per questo, per queste sue caratteristiche, aveva un peso nella CGIL Nazionale, e gli è stato affidato l’incarico delicato e difficile di Presidente della Commissione nazionale di garanzia.
Ma gli incarichi nazionali non lo hanno mai sradicato, non hanno modificato le sue caratteristiche di quadro sindacale fortemente radicato nella realtà della Lombardia. Negli ultimi anni ci siamo un po’ persi di vista e mi dispiace. Credo di intuire che vi sia stata in lui una situazione di sofferenza, non solo per il male che lo stava insidiando, ma per gli sconvolgimenti del quadro politico: la crisi drammatica dell’esperienza socialista, le divisioni della sinistra e anche i travagli della CGIL e l’affermarsi in CGIL di un costume assai diverso dal suo, con il prevalere, spesso, di battaglie personalistiche e di logiche settarie.
Io lo voglio ricordare così, come un uomo dell’organizzazione, che ha creduto nella CGIL e che ha saputo sempre subordinare a questa scelta di fondo i suoi interessi personali. E anche, sul piano politico, come un socialista che ha sempre cercato le vie dell’unità, facendo riferimento ad un grande patrimonio comune, di lotte e di crescita democratica, che è il “contesto unitario” nel quale si sono sviluppate le diverse correnti della sinistra italiana.
Ora ci manca il suo contributo di equilibrio, di misura, di saggezza. Cerchiamo, però, di tenerne conto e di essere anche nella nuova fase, una forza di unità: unità della CGIL, unità sindacale, unità della sinistra, contro le spinte dissolutive e contro le logiche settarie.
Ad Antonio io sono grato per il suo contributo, per il suo equilibrio, e credo che ricordarlo oggi non è solo una testimonianza, ma una indicazione politica, un messaggio politico da riscoprire e riutilizzare, per la CGIL e per ciascuno di noi.