RICCARDO TERZI SI RACCONTA

Intervista a Riccardo Terzi realizzata da Damiano Tavoliere e contenuta nel volume “La chiamavano la Stalingrado d’Italia

Il bar dei bergamaschi

«Prima di andare a Sesto dirigevo la Federazione giovanile comunista a Milano. Sesto era il mio primo incarico di partito, correva il 1968, io avevo 26 anni… Attorno alla Città delle fabbriche c’è una certa mitologia, peraltro fondata su fatti concreti, su una storia sociale molto forte e nel ‘68 la partecipazione alla vita politica era assai viva, il PCI aveva radicamento… per cui a un giovane quadro come me, ancora in formazione, sembrava una sfida interessante, anche se ci sono rimasto un anno solo …

In vita mia ho cominciato presto a far politica, intrecciavo l’università con la militanza già a Bergamo, di cui sono originario. La mia scelta comunista è stata filosofica, anche se l’incontro concreto con gli operai in carne e ossa non è stato esattamente quel che immaginavo nei testi teorici… è difficile vedere nella classe operaia l’erede della filosofia classica tedesca, soprattutto nell’operaio bergamasco un po’ incolto e molto bestemmiatore, facevo fatica a immaginarvi gli eredi di Hegel ..; nel movimento operaio sestese questa possibilità è maggiore, il passaggio dall’astrazione a una visione più realistica delle cose è meno traumatico; la maturità dei lavoratori è un dato di fatto tangibile, anche se i miei bestemmiatori bergamaschi li ritrovavo, soprattutto alla Falck: per incontrarli andavo al Circolo Progresso, il circolo di sinistra, ed è dalla fila di grappini sul banco che puoi agevolmente distinguere la provenienza dei bevitori…

All’inizio mi guardavano con qualche diffidenza per la mia faccia un po’ da intellettuale, una diffidenza che si sbloccava quando s’accorgevano che capivo la lingua che parlavano, e tu sai che intendere il dialetto bergamasco è un’impresa… ma lo sblocco era certamente agevolato dal fatto che se mi offrivano un bicchierino di grappa non mi tiravo indietro… se fossi stato astemio la mia autorevolezza avrebbe incontrato difficoltà assai maggiori… D’altronde era quello il luogo dove incontrare gli iscritti al partito, il bar dove andavano all’entrata o all’uscita dal turno, e si fermavano spesso in attesa del pullman per il paese, perché la maggior parte dei lavoratori veniva da fuori, non abitava a Sesto, e parecchi erano iscritti al loro paese di provenienza… però ogni grande fabbrica aveva la sua sezione comunista».

 

Ha la faccia gioviale da intrattenitore di lungo corso: sorriso invitante, parola misurata, comunicazione essenziale ed esaustiva; operatore politico indefesso ma dal passo cadenzato come i montanari, il passo regolare e continuo, quello che porta alla cima quando gli scattisti delle performance spettacolari stanno ancora riequilibrando i muscoli dopo la vampata iniziale.

È su quelle elevazioni che l’attuale segretario nazionale dello SPI, i pensionati CGIL, trova i natali, generato dal musicista, compositore e chitarrista di fama internazionale Benvenuto Terzi – «il punto di riferimento per la musica da chitarra fra le due guerre mondiali», come recitano esperti ed enciclopedie – il quale lascia in dote al figlio la passione musicale, una delle passioni più belle. Riccardo cresce in un alveo familiare «cattolico al cento per cento, senza interessi politici». Un uomo che lo studio filosofico conduce alla scelta comunista.

 

«In quel periodo Sesto partecipa alla grande fase sindacale montante, è soprattutto questo il versante attivo, s’inaugura la stagione di passaggio dalle Commissioni interne ai Consigli di fabbrica; la vecchia dirigenza comunista si sentiva messa in discussione dalle nuove leve di movimento e di partito, perdono un po’ il controllo della situazione, e questo si riflette nel PCI tra la vecchia guardia e i giovani che hanno una visione più elastica, più democratica, più partecipativa; mi ricordo in particolare alla Ercole Marelli una tensione tra quadri di vecchia impostazione e quadri di stile nuovo, peraltro tutti di valore, tutti militanti preparati, però alcuni legati a una visione tradizionale più autoritaria delle cose e le nuove leve di iscritti al partito su tutt’altro versante di pensiero, di metodo, di confronto, di valutazione dei fenomeni. .. I ricambi generazionali sono dolorosi per la dirigenza che viene messa discussione, soprattutto una dirigenza ricca di storia gloriosa come quella di Sesto…

L’arrivo del nuovo era un fatto positivo, il sindacato si apriva, ovunque si avviava una fase di minore personalizzazione, nel partito c’era il tentativo serio di mediare fra vecchio e nuovo, aprirsi possibilmente senza traumatizzare nessuno, salvando patrimoni di storia anche personale: l’irruzione del nuovo non doveva significare semplicemente la liquidazione del passato, non era giusto che compagni che erano stati combattenti in anni difficili venissero messi da parte, accantonati; io la pensavo così pur avendo un atteggiamento favorevole al rinnovamento…».

 

Carri armati a Praga

«A Sesto c’è una vicenda che segna molto la vita di partito nel 1968, una data precisa, il 21 agosto, l’intervento a Praga dell’esercito sovietico contro la “primavera politica”, un fatto che viene vissuto drammaticamente, con tensioni e scontri, perché nella Stalingrado d’Italia di stalinisti ce n’erano molti, in particolare nel vecchio gruppo dirigente, abbastanza filosovietico, per cui la posizione presa a livello nazionale dal PCI di condanna dell’intervento, incontra resistenze e ostilità molto forti… C’erano due anime, anche fra gli anziani: la vecchia guardia operaia era legata al mito sovietico … tuttavia avvertivi anche un conflitto generazionale, tra i giovani il mito non esisteva, la visione delle cose era realistica e critica…

Chi allora mi aiutò in questa delicata fase di passaggio fu l’allora sindaco Giuseppe Carrà, che era il vero capo di tutti questi anziani comunisti (anziani di appartenenza al PCI, anche se potevano avere 40-45 anni), ma lui non cavalcava il dissenso, anzi condivideva la posizione aperta del segretario nazionale Luigi Longo, quindi fu un punto di equilibrio importante… io ero troppo giovane e non avevo prestigio sufficiente, mi sarei trovato nei guai senza Carrà, un vero leader naturale di tutta Sesto…

La presenza cattolica nella Città delle fabbriche non era forte, c’era qualche vecchio notabile… però un giovane consigliere DC, animatore di circoli culturali su posizioni di sinistra, Giovanni Bianchi, era l’esponente di un’area di pensiero con cui iniziava un dialogo interessante… Mentre più stretti erano i rapporti coi socialisti che avevano un radicamento consistente e collaboravano all’amministrazione del Comune; a Sesto il PSI era un partito pulito al suo interno, il rapporto con noi comunisti era sempre stato profondamente serio, infatti dopo Carrà per quindici anni poltrona di sindaco sarà affidata a Libero Biagi, grande socialista…

Quel che ricordo volentieri della mia esperienza sestese, dove avevo casa e ho continuato per anni ad averla (… ho cambiato residenza perché ho cambiato moglie, non perché ho voluto cambiare città…), era il clima di comunità, di familiarità per cui anche il dissenso non intaccava i rapporti umani e d’amicizia… Il partito era una sorta di casa comune, produceva rapporti solidi, che ancora adesso conservo con molti; ci si ritrova, da Carrà a Pizzinato».

 

E perché dopo hai scelto di operare nel sindacato?

«Perché cambiare è sempre un modo per rimotivarsi e restare svegli… Negli anni 80 e 90 ero segretario regionale della CGIL Lombardia, che ha sede proprio a Sesto, in viale Marelli: abbiamo seguito e, nella misura del possibile, controllato -insieme ad altri soggetti sociali e all’Amministrazione comunale in particolare – la chiusura delle grandi fabbriche sestesi, soprattutto nel senso di non trascurare, di non lasciar solo e perduto alcun lavoratore…

Mentre su un altro piano si trattava (e si tratta perché la questione è ancora aperta) di dare un’anima alla città in trasformazione, di non farla diventare una periferia anonima come è successo altrove con la fine degli agglomerati industriali, di valorizzare il cuore storico e produttivo delle grandi aree dismesse, che sono anche simbolo di memoria e di riferimento sociale, politico, sindacale…

 

La fine di un’epoca non può e non deve – come dici tu – significare il suo accantonamento o la sua liquidazione, comunque è indubbio che l’asse politico generale del Paese Italia oggi è spostato a destra e che questo impone lo studio della nuova situazione e compiti a tutti, alla politica, al sindacato.

«Sesto non è un’isola a se stante, anzi: se Milano che le sta a fianco è governata da tanti anni dalla destra, è buona cosa che Sesto sia riuscita a conservare civiltà e abitabilità diffuse, fatte salve alcune zone limitate, come nell’area verso Cologno … e se Sesto San Giovanni con la dismissione delle grandi fabbriche non si è disgregata e dissolta come Detroit con il collasso dell’industria automobilistica, è per un’Amministrazione civile maggiore, per un sindacato che ha tenuto, con gli strumenti di tutela conquistati nelle lotte, all’interno di un tessuto culturale a tradizione solida… , ma nulla è garantito nella generale evoluzione politica e sociale.

Oggi le carenze a me sembra riguardino la lettura della realtà, soprattutto in politica si tratta di ripartire dalla società così come è andata realmente trasformandosi, capire i cambiamenti avvenuti… la politica non è una cosa astratta in cui tutto si gioca in qualche dibattito televisivo disancorato dalla realtà… il movimento operaio e la classe del Novecento erano il risultato di un lavoro politico, mica nascevano dall’astrazione… e senza coscienza di classe non c’è classe; adesso il mondo del lavoro è cambiato, però bisogna rimettere insieme le persone, i soggetti sociali, ridargli una cultura, un’identità politica, un’organizzazione.

Se non viene fatto questo saremo travolti tutti. E chi lo fa? Il sindacato lo fa, nei suoi limiti è una funzione alla quale cerca di assolvere, è forte e gli iscritti sono in aumento… , ma se non c’è anche una politica capace di costruire radici sociali, se la politica si sradica, si volatilizza, alla fine resta solo la suggestione di qualche messaggio propagandistico, e i voti e le cose vanno dove tira l’aria… perciò occorre memoria storica, e altrettanto occorrono lavoro sul campo e passione… Va realizzata una svolta nel modo di essere dei partiti, non possono cavarsela con un talkshow, bisogna andare porta a porta nelle case, non nel salotto televisivo di Vespa».



Numero progressivo: L23
Busta: 9
Estremi cronologici: 2009
Autore: Damiano Tavoliere
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Cultura -
Note: Bozza
Pubblicazione: “LiberEtà”, 1 settembre 2015. Testo originariamente pubblicato in “La chiamavano la Stalingrado di Italia. Sesto San Giovanni, la città delle fabbriche”, edizioni LiberEtà, Roma, 2000. Ripubblicato in “Sindacato, politica, autonomia”, pp. 151-157