RAPPRESENTARE L’ANZIANO. IDENTITÀ IN TRANSITO

Seminario SPI CGIL nazionale del 7 marzo 2009

Relazione di Riccardo Terzi

La ricerca su Gli anziani e la politica, realizzata dal consorzio AAster, è per lo SPI-CGIL un utile strumento di lavoro, che ci consente di aggiornare e affinare la nostra analisi della realtà. Essa ci consegna un materiale molto ricco e complesso, che non può essere semplificato con qualche formula schematica, e che ci rinvia a nuove domande, a nuovi interrogativi. D’altra parte, questa è l’utilità del lavoro di ricerca: aprire nuove piste di riflessione e problematizzare le apparenti certezze, sollecitando così un ulteriore sforzo di analisi e di pensiero. Cercherò allora di enucleare alcuni nodi problematici, e di ragionare intorno ad alcune domande che sono aperte davanti a noi.

 

Che cosa significa “rappresentanza”?

In primo luogo, che cosa significa «rappresentanza” per il sindacato dei pensionati, chi sono e che cosa chiedono i soggetti che noi intendiamo rappresentare? Il sindacato nasce come rappresentanza del lavoro e nel lavoro. Qui è chiaro il concetto: offrire tutela collettiva e organizzazione alle persone nel loro rapporto di lavoro e nel conflitto sociale a esso inerente. Il sindacato è quindi quello strumento che dà forza collettiva ai lavoratori nella concretezza determinata della loro esperienza lavorativa. Sulla base di questa impostazione l’esistenza stessa di un sindacato dei pensionati risulta essere problematica, e in effetti in molti Paesi i pensionati sono organizzati solo in associazioni, che svolgono funzioni di carattere culturale e ricreativo, senza nessun rapporto organizzato con le centrali sindacali, e il sindacato li riconosce solo come ex lavoratori, mantenendoli collegati con le loro organizzazioni di categoria, in una posizione inevitabilmente marginale. Noi abbiamo sperimentato, in Italia, un modello sindacale del tutto originale e innovativo, immaginando una nuova forma di rappresentanza, centrata non sul lavoro, ma sulla cittadinanza. Il sindacato dei pensionati, infatti, si rivolge a tutte le persone anziane, indipendentemente dal loro precedente lavoro, e le rappresenta per la loro presente condizione, facendo valere i loro diritti in quanto cittadini. È un’esperienza che ha funzionato, dando luogo a uno straordinario processo di sindacalizzazione, anche di persone senza una precedente storia sindacale (lavoratori autonomi, professionisti, casalinghe). Se il modello ha funzionato, significa che c’è una domanda a cui esso ha risposto. Ma di quale domanda si tratta? Occorre considerare diversi tipi di motivazione, diversi livelli in cui si articola questa domanda. C’è una domanda di tutela economica, che riguarda il potere d’acquisto delle pensioni e la loro rivalutazione rispetto all’andamento del costo della vita. In questo caso, siamo ancora all’interno della tradizione sindacale, perché il pensionato è solo il titolare di ciò che ha maturato negli anni del lavoro, e il sindacato lo rappresenta non per la sua condizione attuale, ma per i diritti acquisiti nella sua passata storia lavorativa. Un secondo livello è rappresentato dalla domanda di servizi: pratiche previdenziali, fiscali, sanitarie. Non c’è dubbio che questo aspetto abbia rappresentato un elemento importante nella sindacalizzazione dei pensionati. Con ciò si configura un rapporto strumentale, occasionale, in quanto si tratta di uno scambio di convenienze, senza dar luogo a un processo più profondo di condivisione dei valori che sorreggono l’azione del sindacato. Ma questi aspetti rappresentano solo una prima necessaria condizione, e da soli non riescono a render conto di tutta la complessità delle motivazioni che entrano in gioco nell’adesione al sindacato dei pensionati. C’è qualcosa di più, ed è una domanda di senso, di identità. Una recente ricerca dello SPI dell’Emilia Romagna ha parlato di “identità in transito”, il che non significa solo il passaggio problematico dal lavoro alla pensione, da una vita scandita dai ritmi del lavoro a una vita da reinventare, ma significa più in generale che l’invecchiamento costituisce in ogni caso un momento critico della vita, in cui tutto deve essere ripensato in funzione di un nuovo progetto, di un nuovo orizzonte di senso. L’invecchiamento è quel passaggio cruciale, quel crocevia esistenziale, che può dare luogo a due opposti sbocchi: da un lato la passività e la marginalità, con il suo inevitabile corollario di paure, di rifiuto del nuovo, di ripiegamento nostalgico, dall’altro la possibile apertura verso un nuovo progetto di vita. È in questo passaggio che si inserisce l’azione del sindacato, come una forza organizzata che fa uscire le persone dall’isolamento passivo e le inserisce in una rete sociale, dando loro gli strumenti (conoscenze, relazioni, luoghi di socializzazione) per gestire in autonomia il proprio futuro. Il successo del sindacato dei pensionati sta, a mio giudizio, in questa dimensione esistenziale, che non si esaurisce negli aspetti strettamente economici. Il campo di azione del sindacato si allarga e riguarda la complessiva condizione sociale, nei suoi diversi aspetti. Fare rappresentanza significa allora costruire le condizioni di una cittadinanza attiva, fatta di doveri e di diritti, mettendo le persone al riparo dalle ‘trappole’ dell’invecchiamento, dal rischio cioè di finire nel binario morto di una vita ormai priva di motivazioni.

 

Dal lavoro alla cittadinanza

Dal lavoro alla cittadinanza: è questa una traiettoria che vale solo per i pensionati, o non ha anche una portata più generale? A me sembra che anche per i lavoratori attivi una dimensione esclusivamente lavoristica sia troppo ristretta, parziale, lasciando scoperto un vastissimo territorio, nel quale si determinano altre forme di dominio e di disuguaglianza. Non è solo nel rapporto di lavoro che si rende necessario un riequilibrio dei poteri, ma è l’intera vita sociale che riproduce incessantemente dislivelli, fratture, separazioni, dando luogo a un diritto diseguale, a una stratificazione che dipende dalla condizione familiare, dal territorio, dal sapere, dall’etnia, dalla combinazione di tutti i diversi fattori sociali. Se nella società industriale tutte le linee del conflitto potevano essere ricondotte alla grande fabbrica, come luogo emblematico e rappresentativo dell’intero universo sociale, se dunque in quel contesto la centralità operaia non era solo una costruzione ideologica, ma anche una realtà materiale, oggi è evidente che siamo entrati in un diverso modello, nel quale il conflitto si sposta, si allarga, investe nuovi terreni, e dà luogo a nuove forme di coscienza e di soggettività. In questo passaggio, il sindacato è rimasto ancora troppo ancorato agli schemi tradizionali e rischia per questo non certo l’estinzione, ma una sua relativa marginalizzazione, perché il centro del suo insediamento non è più il centro propulsivo dell’intera società. Un esempio vistoso di questo ‘spiazzamento’ è nel fenomeno, diffuso soprattutto nel Nord industriale, dei lavoratori iscritti al sindacato e nel contempo elettori o militanti della Lega, o di altre forze di destra. Si tratta solo di una normale divisione dei compiti, di una fisiologica distinzione tra sfera sociale e sfera politica? “A ciascuno il suo mestiere” è un antico detto conservatore, in cui si riassume la pretesa di neutralizzare il conflitto, di tenerlo sotto controllo. Questa separazione vuol dire semplicemente che alla dinamica sociale non deve essere consentito di intaccare gli equilibri fondamentali del potere. Si instaura quindi una gerarchia, tra chi ha il comando, e chi deve agire in uno spazio delimitato, con un ruolo subalterno. Ma questo significa appunto la marginalizzazione del sindacato, che deve muoversi in un campo le cui regole e i cui valori sono determinati da una diversa e opposta forza egemonica. Ora, è proprio questo che si sta delineando, un salto di egemonia, e una fortissima pressione sul sindacato per ridurre la sua autonomia alla gestione di un proprio ristretto spazio corporativo. Questo esito sarebbe la definitiva sconfitta dell’ambizione del sindacato di costituirsi come “soggetto politico”. Per questo, quella divaricazione tra impegno sindacale e militanza politica è il segnale allarmante di una contraddizione che non abbiamo saputo affrontare. Ciò vuol dire che il sindacato è efficace nei luoghi di lavoro, ma non nella vita sociale esterna al lavoro, che offre tutela, ma non offre identità, che non sa esercitare una funzione egemone. Tutto questo ci porta ad avanzare una possibile tesi: che alla centralità del lavoro, come fonte primaria dell’identità, subentra un’identità più complessa e plurale, nella quale il lavoro è solo una componente, che dunque mettere al centro la cittadinanza, intesa come l’insieme delle relazioni sociali nelle quali la persona è inserita, è la risposta che si rende necessaria per un sindacato che non voglia adattarsi a un ruolo corporativo. Si conferma così, in un senso anche più ampio e pregnante, il valore della confederalità, intesa, come la intendeva Bruno Trentin, come la capacità di elaborare un autonomo progetto sociale, per dare forza ed effettività ai diritti fondamentali della persona. In questo senso, al problema dell’identità dobbiamo saper dare una risposta dinamica, pensando l’identità non come l’attaccamento alle radici, ma come il progetto che dà un senso all’insieme delle nostre azioni, e il sindacato, con la sua progettualità, accompagna le persone nel loro cammino di autonomia, nel lavoro e nella vita, cercando sempre di spostare in avanti i confini della cittadinanza e della libera realizzazione di sé, e in questa azione esso non si lascia trattenere entro i confini di una preventiva delimitazione delle sfere di competenza, ma investe direttamente le forme e i contenuti della politica.

 

Che tipo di società si viene annunciando?

A questo punto, si impone una seconda domanda: se c’è quella rottura, di cui abbiamo parlato, nell’organizzazione sociale e conseguentemente nelle stesse forme della soggettività, che tipo di società si viene annunciando? Globalizzazione e individualizzazione: sono queste le due grandi coordinate individuate nella ricerca. Da un lato apertura degli spazi, abbattimento delle barriere, spostamento di tutti i problemi su una scala infinitamente più ampia; dall’altro, anche come reazione a un tale processo, che fa venir meno i tradizionali punti di riferimento, una soggettività che si ripiega in se stessa, che si riscopre nella sua individualità. Come agisce questo processo di individualizzazione? Che società è quella che si forma sul tramonto delle grandi identità collettive e delle rappresentazioni ideologiche che ne costituivano il tessuto connettivo? Ci possono essere interpretazioni più radicali o più prudenti, ma il senso di marcia mi sembra essere abbastanza chiaro e visibile. Il senso è quello della ‘smobilitazione’, intendendo con ciò non necessariamente il disimpegno, ma la fine di un certo tipo di impegno, di quell’impegno che significava appartenenza, adesione a un compatto sistema di valori, identificazione di sé in una missione collettiva. Tutte le ricerche sociologiche segnalano questo mutamento dello spirito pubblico, che mette in crisi le forme tradizionali della politica. Non si tratta solo dell’antipolitica, che da sempre sta nelle viscere delle nostre società sviluppate, ma di uno sguardo verso la politica più critico, diffidente ed esigente. Nella nostra ricerca, il sentimento prevalente è quello della “rabbia”: un sentimento attivo, dunque, che indica non l’uscita dalla sfera pubblica, ma il rifiuto delle forme che essa ha assunto, il rifiuto di una politica che viene avvertita solo come un gioco di potere tutto interno a una oligarchia che è staccata dalla società e che tende solo a perpetuare il suo dominio. Non importa qui decidere della giustezza o no di questa rappresentazione, importa capire che nella politica è entrato questo conflitto, questa opposizione, questa tensione che oppone la società civile alle istituzioni della politica, e che dunque siamo entrati in una situazione in cui non c’è più appartenenza, identificazione, rapporto fiduciario. E tutto questo avviene soprattutto nel campo della sinistra, dove è più visibile lo scollamento ideologico e l’assenza di una forza egemonica. In questo vuoto, i più spoliticizzati vengono spinti a destra, e si allarga l’area dell’incertezza, di chi non trova gli spazi e i punti di riferimento per motivare una partecipazione politica attiva. Questo è un processo che si snoda attraverso diverse generazioni politiche. Nel caso dello SPI, è del tutto evidente che la grande risorsa è rappresentata dalla generazione degli anni Sessanta-Settanta, una generazione che ha vissuto intensamente la dimensione politica, non in modo passivo ma con un forte spirito critico. Prima della ‘rottura’ del ‘68 prevale un’adesione passiva, e in quello che viene dopo sembra agire un processo di spoliticizzazione, lo spostamento del baricentro dalla dimensione pubblica a quella privata. Come valutare, nell’insieme, questa tendenza? È solo un declino, una decadenza, un’involuzione? O non c’è anche, potenzialmente, una nuova maturità, un modo di guardare alla realtà con meno illusioni e con meno sudditanza? In ogni caso, non possiamo prescindere dalla rottura che è avvenuta nelle forme della coscienza collettiva. Il rimpianto del passato non serve a nulla, e l’illusione di ripristinare le passate forme della politica è del tutto priva di senso. Dobbiamo operare nel contesto storico che ci è dato, e individuare qui, in questo contesto, le possibili risorse da attivare per una nuova stagione della politica, per una politica che entri in comunicazione con questo nuovo universo sociale e con le sue trasformazioni. La ricerca scientifica ci offre diverse possibili interpretazioni di questo mutamento. Alain Touraine, ad esempio, teorizza la “fine del sociale”, nel senso che il conflitto si svolge ormai su un altro terreno, e si configura essenzialmente come un conflitto culturale, nel quale è messo in gioco tutto il rapporto tra libertà individuale e comunità, tra soggettività e strutture del potere, tra l’idea di una “società aperta” e il tentativo di rinserrare la società in un sistema chiuso di valori. Per questo il fattore religioso, con le sue mai sopite spinte integralistiche, torna a essere centrale. È una tesi discutibile e un po’ forzata, ma essa indubbiamente coglie un dato della realtà, e soprattutto cerca di individuare, nel mutamento, un nuovo campo di azione, rifiutando l’immagine della catastrofe. “La fine di un mondo non è la fine del mondo.” Siamo in un passaggio che richiede un nuovo paradigma, un nuovo criterio di interpretazione della realtà. Questo è comunque il dato comune a tutte le diverse interpretazioni: che siamo entrati in un nuovo mondo. “Modernità liquida”, come la definisce Bauman, nella quale si dissolvono tutti i legami sociali, o “società del rischio”, secondo la formula di Beck, sono tutte ipotesi interpretative che sottolineano la rottura, lo scollamento delle antiche aggregazioni, la fine di una costellazione sociale e ideologica e la movimentazione di tutto ciò che appariva essere stabile.

È in questo generale contesto che la persona si trova a essere come lasciata a se stessa, senza appigli sicuri, senza il riparo di una comunità, di una appartenenza, o di un’ideologia. Non sorprende allora che molti rifiutino di collocarsi lungo l’asse destra-sinistra. Anche nello SPI, che pure ha una forte caratterizzazione di sinistra, c’è una percentuale non disprezzabile del 14 per cento. Non ci si colloca per indifferenza, per apatia, ma anche, forse, perché si vuole sfuggire alla logica di schieramento, e si vuole giudicare di volta in volta, senza assumere una posizione pregiudiziale. Non è solo e necessariamente l’opportunismo di chi va dove tira il vento. Questo movimento ha in sé tutti i germi della crisi, ma contiene anche la potenzialità di una più autentica libertà individuale, senza quei vincoli di dipendenza, di appartenenza a qualcosa di esterno, e quindi di passività, che avevano caratterizzato il precedente modello sociale. In questa situazione, mi sembra più utile scommettere sul futuro piuttosto che rimpiangere un passato ormai tramontato.

È allora evidente che le stesse forme della rappresentanza devono essere profondamente innovate, puntando sulla trasparenza delle scelte, sulla responsabilizzazione e sulla partecipazione attiva alle decisioni. L’alternativa al senso di appartenenza è la scelta di un processo radicale di democratizzazione. Al centro dell’attuale conflitto stanno i diritti della persona. E l’eguaglianza si configura come l’eguale diritto alla diversità, alla libera scelta del proprio progetto di vita: forme della convivenza, approccio alla religiosità, atteggiamento sui temi della vita e della morte. Per questo è essenziale la difesa rigorosa della laicità dello Stato, in quanto essa è la forma che tiene insieme le differenze. Non si tratta, come è del tutto evidente, di una evoluzione non contrastata, è anzi proprio su questo terreno che è aperto il più aspro “conflitto culturale”. La destra gioca, contro le ragioni della libertà, la carta della sicurezza. Il mito della sicurezza (tolleranza zero, immigrazione identificata con la criminalità, giustizia come repressione) è lo strumento per scardinare la nostra civiltà giuridica e per instaurare uno stato di tipo autoritario. E “sicurezza” vuol dire anche attaccamento ai valori tradizionali, alle radici cristiane, a un patrimonio identitario che viene così ossificato, deformato, messo al servizio di una politica di dominio. Questa disinvolta operazione di potere cerca di sfruttare le paure che attraversano il corpo sociale, le sue incertezze, le sue tendenze più regressive, l’illusione di trovare riparo nella comunità tradizionale e nei suoi valori. Gli anziani possono essere esposti più di altri a questa offensiva. Per questo, c’è un grande lavoro politico e culturale da fare su questo nodo, per impostare un discorso alternativo sulla sicurezza, coerente con l’idea di una società dell’eguaglianza, dei diritti e dell’inclusione sociale.

 

Quali sono le risorse politiche oggi disponibili?

Ma quali sono le risorse politiche oggi disponibili? La nostra ricerca mette in evidenza le criticità della politica, il suo stato di sofferenza, la sua distanza, la sua “astrattezza” rispetto alle nuove domande che maturano nella società reale. L’individualizzazione porta inevitabilmente con sé il declino della politica, il suo tramonto? La tesi della fine della politica (o della fine delle ideologie) è a sua volta una tesi politica (e ideologica), è il varco attraverso cui passa l’offensiva conservatrice, che cerca di mobilitare le forze istintive dell’antipolitica al servizio di una precisa operazione di potere. Nella dissolvenza delle tradizionali culture politiche, ciò che si apre non è il vuoto, ma è la corposità di una politica aggressiva e populista, che cerca di sbarazzarsi di tutti i vincoli, per conquistare una forma inedita di potere, inedita perché scavalca il momento della mediazione e del confronto democratico. Occorre allora distinguere tra questo processo di spoliticizzazione, che ci consegna a un potere autoritario, e quella che è la domanda di una diversa politica. Da un lato l’antipolitica agisce come distruzione della dimensione pubblica, come privatizzazione dell’intera vita sociale, dall’altro lato, come possibile contrappeso a questa tendenza, c’è la richiesta di una politica di segno diverso, non costruita per blocchi ideologici che pretendono appartenenza, ma per progetti, su cui liberamente consentire o dissentire, non calata gerarchicamente dall’alto, ma vissuta e partecipata dentro un processo aperto, che dia spazio alle soggettività individuali, alla libera ricerca, al confronto delle idee e dei programmi. Il populismo si può battere solo con una strategia di coerente democratizzazione, opponendo al mito decisionista la pratica della partecipazione. Il punto critico sta proprio qui, in questa difficoltà a far funzionare uno spazio pubblico che sia aperto al libero confronto, nel fatto cioè che si trovano a essere inceppati gli strumenti di una democrazia partecipata. Questo allora è il necessario orizzonte progettuale su cui lavorare: la costruzione dello spazio democratico, e dentro questo spazio la trasparenza dei progetti alternativi. Abbiamo quindi bisogno della politica, e abbiamo bisogno, perché la politica possa funzionare, di posizioni nette, radicali, alternative. Ci può essere spinta alla partecipazione solo se è chiaro l’oggetto del contendere. Mentre, all’inverso, la democrazia muore se c’è una rincorsa al centro, al moderatismo, a occupare tutti la medesima posizione, se c’è insomma la confusione dei linguaggi, il trasformismo, se il conflitto non è di idee, ma di potere. Ora, proprio perché la priorità è la rivitalizzazione del processo democratico, il sindacato, nella sua autonomia, può svolgere una funzione di primo piano. Non può esserci, infatti, nessun rinnovamento della politica, se non c’è un processo sociale, se la società non organizza le proprie forme rappresentative, se non c’è una vitalità dei soggetti sociali. Il sindacato, quindi, può contribuire alla politica non con la riproposizione di vecchi collateralismi, ma mettendo in campo un’esperienza, che sia autentica, di partecipazione e di democrazia. E in questo processo il sindacato dei pensionati, che può dare voce a quella massa crescente di persone, ormai escluse dal lavoro e tendenzialmente estromesse da ogni funzione sociale, ha il grande compito di porre il problema dell’invecchiamento come un problema politico, in quanto si tratta di realizzare una piena cittadinanza, superando quindi un approccio solo assistenziale. Il sindacato entra così in una competizione dialettica con la politica, ponendo sia il problema della partecipazione, sia la necessità di una nuova progettazione che risponda alle domande di una società in trasformazione. È solo in questo modo, con questa iniziativa dal basso, e con la mobilitazione su obiettivi concreti, che si può sbloccare il sistema politico, ridando senso alla competizione democratica. Non a caso, la questione sindacale è tornata al centro della discussione politica, e si è aperto un duro conflitto tra chi punta a emarginare il sindacato, a dividerlo, a stringerlo in una posizione subalterna, e chi, all’opposto, lo riconosce come un interlocutore fondamentale, come una articolazione essenziale della vita democratica. E la CGIL, in particolare, si trova al centro di questo conflitto.

 

Che ruolo ha il territorio?

Un altro aspetto da considerare, in questa ricognizione delle possibili vie di sviluppo della democrazia, è quello dell’articolazione territoriale. Che ruolo ha il territorio, qual è il suo spazio nella dialettica politica? Dobbiamo fare i conti, criticamente, con quella costruzione ideologica, veicolata dalla Lega, che vede nell’identità e nell’appartenenza territoriale il nuovo fondamento della politica, che soppianta le tradizionali linee divisorie (destra e sinistra, rappresentanze e classi sociali). Il territorio diviene il luogo dell’identità, la comunità che si costituisce come soggetto politico, e che elabora la sua mitologia fondativa, le sue radici, i suoi valori, fissando rigidamente i suoi confini, in un rapporto di opposizione e di estraneità rispetto a tutto ciò che è esterno alla sua tradizione. Questa posizione non può che essere nettamente respinta, perché questo modello comunitario è l’esatto rovescio di quello spazio pubblico aperto e plurale che può garantire i diritti individuali e il confronto libero delle idee. Se i diritti appartengono non al singolo, ma alla comunità, ne consegue necessariamente un modello autoritario. L’idea che anche la sinistra debba rincorrere queste suggestioni comunitarie, che per recuperare consenso si debba inventare un improbabile “partito del Nord”, questo è solo il segno di un dibattito politico impazzito, che ha perso il senso della realtà e la percezione dei processi sociali. Il territorio non è la risposta ai problemi, ma è il campo dove vengono a maturazione i conflitti, le contraddizioni, è lo spazio attraversato dai flussi della globalizzazione, uno spazio che deve costruire un suo nuovo equilibrio e recuperare le condizioni della sua interna coesione sociale. È solo in questo senso che può essere assunta la formula della “centralità del territorio”. Stare nel territorio vuol dire stare nel mezzo della realtà, e governare i processi che la attraversano. Ciò che va decisamente superato è il modello di centralizzazione che ha caratterizzato la nostra storia nazionale, e che ancora agisce come un limite, come un impaccio, impedendo lo sviluppo di un autogoverno democratico, che articoli le risposte in rapporto alla diversità dei contesti sociali. E anche nel sindacato ha prevalso, nella sua storia, una logica di centralizzazione, che oggi ci impedisce di sviluppare appieno la nostra iniziativa, di entrare nel vivo dei processi reali, nella concretezza dei mutamenti sociali e produttivi che investono la vita delle persone. Occorre quindi presidiare il territorio, cogliere la sua dinamica, e interagire con i diversi soggetti, con gli strumenti della negoziazione e della concertazione territoriale. Ma questo richiede un rovesciamento della struttura organizzativa, della sua logica piramidale, e una diversa dislocazione delle risorse strategiche, dando priorità a tutto il lavoro di base, di trincea, a tutto ciò che sta in una comunicazione diretta con la domanda sociale. Come sempre, non ci può essere cambiamento, se cambiano solo le parole e non anche le logiche organizzative e le culture politiche.

 

La CGIL è sufficientemente attrezzata di fronte a queste nuove sfide?

Un’ultima domanda: la CGIL è sufficientemente attrezzata di fronte a queste nuove sfide? Il quadro che esce dalla ricerca è quello di un sindacato solido, radicato, con un suo cemento identitario che ha retto finora l’urto dei cambiamenti sociali e politici. Non trova, quindi, nessuna conferma la tesi di una crisi, di uno sbandamento, di un processo dissolutivo. I sostenitori di questa tesi, che hanno sempre un grande spazio nei maggiori organi di stampa, scambiano evidentemente la realtà con le loro illusioni. In un quadro politico che è dichiaratamente ostile al sindacato, e che persegue esplicitamente l’isolamento della CGIL, si può dire, senza enfasi retorica, che la CGIL ha tenuto il campo e ha mostrata intatta la sua forza di mobilitazione. Ma noi dobbiamo saper vedere anche le criticità di questa situazione. Può sembrare paradossale, ma i punti di forza sono anche contemporaneamente i punti di debolezza. Tutte le grandi organizzazioni tendono alla propria conservazione, tendono a riprodurre le loro forme organizzative, le loro procedure, i loro riti. Ma questa forza di conservazione, in una situazione di movimento e di cambiamento, finisce per essere di inciampo, perché ci si illude di poter affrontare il nuovo con gli stessi strumenti che hanno funzionato nel passato. Accade sempre, nelle fasi di cambiamento, che le ragioni della politica e le ragioni dell’organizzazione entrino tra loro in conflitto, perché la politica vede la necessità dell’innovazione, e l’organizzazione vede la continuità della sua forza. È questa, a me pare, la vera dialettica che attraversa la CGIL, non quella più appariscente delle opzioni politiche, tra l’ala radicale e l’ala riformista, ma quella, appunto, che riguarda la disponibilità a rimettersi in discussione e a ridefinire i confini, politici e culturali, di un sindacato capace di misurarsi con le nuove sfide. Di questo lavoro di innovazione ho indicato alcuni aspetti: la cittadinanza, il territorio, la scommessa sulla partecipazione. Penso che anche il rapporto con le altre confederazioni, oggi inceppato, possa rimettersi in movimento se la CGIL stessa è in movimento, se riusciamo cioè a delineare un nuovo scenario strategico, nel quale le vecchie divisioni finiscono per essere superate. L’unità non si realizza al prezzo di un cedimento moderato, ma si costruisce spostando in avanti tutti i termini della discussione, con un nuovo grande impegno di elaborazione programmatica e di radicamento nella realtà.



Numero progressivo: E19
Busta: 5
Estremi cronologici: 2009, 7 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza sostanzialmente identica alla versione di "Gli argomenti umani", piccole differenze con la versione di "Comunitas"
Pubblicazione: “Comunitas”, n. 32, 2009, pp. 81-95. “Argomenti umani”, aprile 2009, col titolo “Ragionando sulla rappresentanza sindacale”, pp. 131-144. Ripubblicato in “Sindacalista per ambizione” col titolo “Rappresentare gli anziani nella crisi della politica”, pp. 73-85