RAPPRESENTANZA E AUTONOMIA DEL SINDACATO
Lo spettro della democrazia. Rappresentanza e sovranità nella crisi italiana - Assemblea CRS 2003
Intervento di Riccardo Terzi, poi pubblicato in “Quaderni di Rassegna sindacale”
Il principio dell’autonomia del sindacato fa parte, ormai da tempo, di quell’insieme di formule ideologiche sulle quali sembra esserci un consenso generale.
L’autonomia non ha più avversari dichiarati, e quindi l’opinione corrente è che si tratta di un problema definitivamente risolto.
Mi sembra una conclusione del tutto affrettata e superficiale. Le rappresentazioni ideologiche hanno un rapporto complesso, e spesso contraddittorio, con la realtà, e non è mai un buon metodo quello di giudicare una determinata realtà sociale sulla base delle sue strutture di autorappresentazione.
L’indagine scientifica è tale solo quando sa penetrare oltre il velo delle ideologie.
Vale ancora oggi la tesi di Marx: è l’essere che determina la coscienza, e non viceversa.
Se invece ci arrestiamo al livello delle rappresentazioni, finiamo rapidamente fuori strada, fuori cioè da una capacità di osservazione oggettiva dei fenomeni storico-sociali.
Dovremmo ad esempio concludere che la democrazia politica è ormai pienamente realizzata, perché essa ha vinto sul terreno ideologico, presupponendo una coincidenza di ideologia e realtà, che solo raramente è dato di verificare.
Il consenso unanime non è mai un segno di forza, ma di ambiguità. Quando tutti dicono la stessa cosa, tutti sono autorizzati ad interpretarla nei modi più diversi.
La parola che entra nel linguaggio del senso comune paga il prezzo di perdere il suo valore conoscitivo, la sua capacità di segnare un confine, in opposizione ad altre parole e altri concetti.
La parola è ritualizzata, e con ciò è resa inoffensiva.
Ho l’impressione che anche l’autonomia stia entrando nel regno delle parole che hanno perduto il loro significato. In un recente Congresso della FIOM, avvertendo forse questa usura della parola “autonomia”, Claudio Sabattini aveva lanciato lo slogan della “indipendenza” del sindacato.
Questa proposta suscitò una fortissima polemica, e alla fine fu lasciata morire. È una vicenda rivelatrice, perché dimostra come un semplice slittamento terminologico, tutto sommato innocuo, possa essere motivo di scandalo e faccia riemergere tutto un fondo oscuro di ostilità e di resistenza che sembrava essere stato rimosso.
È la prova dell’esistenza di un problema tutt’altro che risolto. In realtà, quella proposta era criticabile non per il suo supposto radicalismo, ma all’opposto per il significato più restrittivo che appartiene alla parola “indipendenza”.
L’indipendenza del sindacato è sostanzialmente conseguita, perché non c’è più un centro decisionale esterno che possa imporre le sue condizioni.
Ma il concetto di autonomia rappresenta qualcosa di più pregnante, non significa solo essere al riparo dalle interferenze, ma saper predisporre, nel proprio ambito esclusivo, le ragioni costitutive della propria regolazione.
Come sanno bene i paesi ex-coloniali l’indipendenza è solo il primo passo, che modifica solo gli aspetti formali e non quelli sostanziali, e il cammino verso l’autonomia richiede un processo assai più faticoso, per costruire un proprio originale modello di organizzazione sociale.
All’indipendenza basta l’assenza di coercizione esterna, all’autonomia serve una forza interna di auto-organizzazione.
A me sembra che il sindacato si trovi esattamente in questo passaggio non realizzato dall’indipendenza all’autonomia.
Ma non è solo un problema del sindacato, è l’intera società nazionale che si trova in una condizione instabile, in una transizione incerta, non essendo tracciato in modo chiaro il rapporto della politica con la società civile.
Le autonomie sociali restano tuttora confinate in ambiti residuali, corporativi, periferici, mentre il sistema politico tende ad occupare tutti gli spazi disponibili, secondo una logica invasiva, e tende ad imporre a tutto il corpo sociale una sorta di bipolarizzazione forzata: il rapporto della società con la politica diviene un rapporto di vassallaggio.
Sotto questo profilo, il passaggio alla cosiddetta “seconda repubblica” ha rappresentato un deciso arretramento, un restringimento ulteriore degli spazi di autonomia.
Secondo l’ideologia del maggioritario, nella sua versione fondamentalista che quasi nessuno ha saputo o voluto contrastare, tutta la vita democratica si riassume, senza residui, nel meccanismo della competizione bipolare, perché la democrazia altro non è che la legittimazione popolare dell’autorità di governo.
Sono chiaramente visibili tutti gli effetti perversi che derivano da questa concezione, nel campo della giustizia, dell’informazione, nella vita delle istituzioni; in quanto non c’è più nessuna possibile funzione di regolazione imparziale e tutto è piegato alle necessità contingenti della lotta politica.
Il quadro che ne esce è quello di una competizione onnipervasiva, rompendo così l’equilibrio costituzionale basato sulla divisione e sul bilanciamento dei poteri.
Ci si era illusi, con l’introduzione del sistema maggioritario, di alleggerire l’invadenza dei partiti e di valorizzare l’autonomia della società civile, e su questo motivo era fiorita tutta una vasta letteratura retorica.
È accaduto il contrario: la società civile è interamente colonizzata.
Ai partiti politici, che avevano almeno una funzione di promozione della partecipazione democratica, sono subentrate oligarchie sempre più ristrette e irresponsabili.
È in questo quadro che tutte le parole tradizionali del nostro vocabolario politico -democrazia, autonomia, partecipazione, pluralismo -subiscono una violenta torsione e rischiano di perdere del tutto il loro originario significato.
Siamo entrati in uno scenario del tutto nuovo, che ha sovvertito le forme della politica, le regole, gli attori, le strutture organizzative.
Il vecchio apparato ideologico, di stampo liberai-democratico, sopravvive ormai stancamente, come fatto residuale, in un contesto che lo deforma e lo stravolge; si usano le stesse parole, ma le relazioni oggettive sono ormai di tutt’altra natura.
Anche il sindacato è stretto in questa morsa. La sua autonomia è formalmente riconosciuta, ma nella realtà è fortissima la pressione politica per costringere il sindacato a schierarsi nella competizione bipolare: il sindacato diviene uno dei tanti campi di battaglia dove si giocano i rapporti di forza politici.
E le divisioni attuali sono l’effetto di questa pressione, sono il segno di una difficoltà oggettiva a tenere saldo il campo dell’autonomia sociale.
Da un lato l’autonomia viene declinata in termini corporativi, cercando di gestire i pochi spazi residuali di una concertazione ormai asfittica, e dall’altro lato c’è un’azione sindacale che assume sempre più le forme dell’opposizione politica, dello scontro frontale, della mobilitazione per un’alternativa di governo.
In entrambi i casi, è l’autonomia del sindacato come soggetto sociale che viene messa a rischio.
Le divisioni sindacali sono dunque il riflesso del nuovo clima politico. Non si tratta, per ora, di una rottura irreversibile, ma occorre aver chiaro che senza lo sforzo deciso per una inversione di rotta tutta la situazione può rapidamente precipitare.
La tendenza in atto, se non viene rovesciata, può condurre ad una crisi definitiva dell’esperienza unitaria del sindacalismo confederale, può cioè accadere che la logica della bipolarizzazione politica prevalga e che anche il sindacato sia trascinato su questo terreno.
Questo può accadere anche in modo del tutto indipendente dalle intenzione soggettive, per una catena consequenziale di processi che non si sanno controllare e di cui sfugge la portata.
Ancora una volta, contano i processi reali e non i loro riflessi ideologici.
L’autonomia, quindi, non è affatto un risultato acquisito, consolidato, ma è al contrario un aspetto del tutto problematico.
Non si è ancora valutata, in tutta la sua portata, la radicale mutazione di cultura politica che si è consumata con il collasso della Democrazia Cristiana come perno centrale del sistema politico. La cultura democristiana era una cultura di mediazione, che si fondava sul riconoscimento del pluralismo politico e delle autonomie sociali, affidando alla politica il compito di una sintesi, come esito non di un atto di imperio, ma di una complessa capacità di relazione con la società italiana e con le sue reali articolazioni.
Il principio dell’autonomia dei soggetti sociali entrava quindi organicamente nella strategia democristiana, non solo per ragioni di duttilità tattica, ma per un orientamento di fondo dell’elaborazione politica del cattolicesimo democratico, che ha sempre concepito la società nelle sue concrete articolazioni, come un insieme di corpi sociali intermedi, come una rete di relazioni interpersonali che lo Stato deve saper riconoscere e tutelare, senza imporre un proprio ordine esclusivo.
Il principio della sussidiarietà, che è un importante aspetto della dottrina sociale della Chiesa, significa appunto che c’è un primato della società e che lo Stato è solo un regolatore a posteriori, per risolvere quei problemi e quegli squilibri che travalicano l’ambito dell’autonomia sociale.
L’esito di questa impostazione si può criticare, perché ciò che ne esce è tutto sommato un equilibrio conservatore. Ma è un equilibrio aperto, che lascia spazio all’iniziativa sociale.
Naturalmente, non c’è stata una totale corrispondenza tra l’impostazione teorica e la concreta azione di governo, e anche la DC ha spesso agito nella logica dell’occupazione del potere.
Ma comunque ci si muoveva in un quadro teorico che lasciava aperti molti spazi, e in questi spazi l’esperienza del movimento sindacale unitario ha potuto svilupparsi positivamente.
Con l’attuale maggioranza di centro-destra questa impostazione viene totalmente rovesciata: Berlusconi non è l’erede della DC, ma il suo becchino.
Il modello che si sta affermando è quello di una totale verticalizzazione del sistema politico, per cui tutto il potere decisionale viene concentrato in un solo punto.
Una volta avvenuta la legittimazione popolare, tutto si deve disporre secondo un ordine gerarchico, e ciò che non si adatta a questo ordine deve essere messo a tacere, perché confligge con la sovranità democratica, la quale si trova tutta condensata nel vertice dello Stato e nel capo carismatico scelto dai cittadini.
In questo schema teorico, il concetto di autonomia è del tutto privo di senso.
E tutta la strategia del centro-destra ha come suo chiaro filo conduttore l’obiettivo dichiarato di ricondurre le autonomie sotto il dominio della sovranità politica, si tratti della magistratura o degli organi di informazione, delle istituzioni di garanzia o delle rappresentanze sociali.
Il potere non è più disposto a mediare, a concertare, a costruire la decisione attraverso le vie del confronto e del consenso.
Alla concertazione si sostituisce il decisionismo politico. Il processo non è più dalla società allo Stato come regolatore di ultima istanza, ma è la trasmissione gerarchica del potere, dall’alto verso il basso.
Non c’è più dunque nessuna dialettica tra potere e rappresentanza, tra funzione di governo e autonomie sociali, perché la democrazia si esaurisce nell’atto fondativo che consegna al governo piena legittimità e poteri assoluti.
La democrazia cessa di essere un processo plurale al quale concorrono le diverse rappresentanze in cui si articola la società nazionale, cessa di essere un processo di coinvolgimento e di partecipazione e si riduce all’esercizio del potere legittimamente costituito.
Potremmo trovare qui, in questa opposizione di due modelli democratici alternativi, verticalizzazione o sviluppo delle autonomie, concentrazione del potere o pluralismo delle rappresentanze, il senso più profondo della dialettica politica tra destra e sinistra, nella fase attuale.
Ma ciò non è affatto scontato: è solo una possibilità, un percorso che può essere imboccato, ma non è, allo stato delle cose, un’alternativa evidente e immediatamente percepibile.
La destra ha messo in chiaro le sue carte, ma la sinistra è ancora oscillante e non ha elaborato una sua precisa strategia.
Non si tratta solo della resistenza e della forza di inerzia di una vecchia cultura statalista; se fosse così, la situazione non sarebbe allarmante, perché le resistenze prima o poi finiscono, e ciò che è avviato al declino può solo rallentare ma non impedire la sua fine.
Le difficoltà della sinistra, l’opacità del suo discorso che le impedisce di costituirsi come un’alternativa democratica convincente, non stanno essenzialmente nel suo passato, nella sua tradizione, ma piuttosto nei percorsi che si sono imboccati per superare quella tradizione.
La sinistra ha corretto i suoi schemi ideologici tradizionali, e talora li ha anche troppo brutalmente e sommariamente liquidati.
Ma in quale direzione? Se il punto critico di quella tradizione era rappresentato, come io credo, dalla sopravvalutazione della politica e della sua funzione regolatrice, dall’idea di un “primato” della politica che portava in sé tendenze dirigistiche e anche autoritarie, se l’innovazione necessaria consiste nel declinare in termini del tutto nuovi il rapporto tra politica e società, se questo è il tema, è francamente difficile rintracciare in questa direzione una seria linea di ricerca.
La sinistra non ha lavorato sull’autonomia sociale, ma ha seguito l’onda, e ha pensato che innovazione significa democrazia personalizzata, mediatica, passaggio dalla struttura collettiva del partito alla funzione carismatica del leader.
Basta guardare a tutte le discussioni di questi anni, nelle quali non c’è mai la società italiana, non c’è il divenire di una nuova rappresentanza sociale, ma c’è solo la disputa teologica intorno alla consustanzialità dell’Ulivo e della sinistra, e la disputa più terrena sulle gerarchie da realizzare all’interno di questa nuova unione mistica.
Nel passaggio alla “seconda repubblica” come passaggio dalla democrazia delle rappresentanze alla democrazia dell’investitura diretta anche la sinistra è stata pienamente e coscientemente coinvolta.
Se i tradizionalisti, legati al vecchio apparato ideologico, non dispongono più degli strumenti per capire l’evoluzione della società moderna, gli innovatori risultano essere ancora più improduttivi, perché l’unica idea che hanno in testa è quella del bipolarismo politico, e a questa idea tutto deve essere sacrificato.
In questo loro schema di totale semplificazione non c’è spazio per l’analisi dei soggetti sociali, della loro dinamica e della loro autonomia, più semplicemente non c’è la percezione dei movimenti della società civile.
L’unico problema è la costruzione del soggetto politico che può reggere la competizione bipolare: con quale base sociale, con quale programma, con quale relazione con il sistema economico, è del tutto secondario. Il soggetto politico è un soggetto mistico, che nasce dal nulla.
Se i tradizionalisti pensano ad una società che è tramontata, ad una dialettica di classe che non corrisponde più all’attuale morfologia sociale, gli innovatori hanno semplicemente risolto il problema rimuovendo dal loro universo mentale qualsiasi analisi della società e della sua interna dinamica.
Ecco perché il tema dell’autonomia sociale, se viene preso sul serio e viene assunto come base di una nuova prospettiva strategica, è un tema dirompente e scompagina tutte le analisi politiche correnti.
Per la sinistra, può essere un nuovo punto di partenza per la costruzione di una strategia politica che assuma un chiaro carattere alternativo rispetto al modello plebiscitario della destra, il che fin qui non è avvenuto. Non basta attaccare Berlusconi per essere alternativi.
E la sinistra cosiddetta radicale è solo più aggressiva in questo attacco, restando però all’interno del medesimo modello della personalizzazione della politica.
Se il problema è solo Berlusconi, si tratta solo di trovare un nuovo leader vincente, e tutto il resto seguirà.
Non si capisce che dietro Berlusconi c’è un blocco sociale, c’è un processo che investe la società italiana, e che dunque è a questo livello che occorre agire politicamente.
Ma questo richiede pensiero politico, il che appare sospetto a chi riduce tutto alla propaganda e all’invettiva.
Esplorare il tema dell’autonomia sociale significa esplorare tutto il vasto spazio intermedio tra le due polarità dello Stato e del mercato.
E una volta superate le antiche antinomie, gli opposti ideologismi, appare sempre più chiaro che una società complessa non può essere governata né con l’imposizione dall’alto di un dominio politico, né con l’adattamento passivo alla logica del mercato.
C’è tutta una rete complessa di mediazioni sociali che deve essere costruita.
C’è insomma, tra questi due estremi dello Stato e del mercato, il medium della società che deve sapersi organizzare secondo una propria autonoma linea di azione, secondo il proprio ritmo, in vista degli obiettivi comuni di coesione sociale, di integrazione, di qualità dello sviluppo, i quali possono essere raggiunti solo con una pratica sistematica di concertazione tra i diversi soggetti, sociali e istituzionali.
È in questo spazio sociale intermedio che il sindacato può svolgere appieno la sua funzione, e se questo spazio viene compresso, sia sul versante dello Stato sia su quello del mercato, esso viene colpito nelle sue potenzialità e viene atrofizzata la sua forza espansiva.
Per il sindacato, quindi, non è affatto indifferente la qualità del sistema democratico, perché ne dipende la sua funzione, la sua capacità di interagire efficacemente con le istituzioni politiche e di far valere nel processo decisionale l’insieme degli interessi che si propone di rappresentare.
Il sindacato chiede alla politica di garantire queste condizioni, di costruire un quadro democratico entro il quale esso possa agire nella sua autonomia.
Ciò non configura nessun rapporto privilegiato con una determinata parte politica, nessuna forma di collateralismo, ma solo la definizione di un’architettura politico-istituzionale che riconosca il ruolo autonomo delle organizzazioni sindacali e il loro diritto a concorrere, attraverso precise procedure di confronto e di concertazione, alla determinazione delle scelte politiche e del loro impatto sociale.
Come si vede da questi accenni, il principio dell’autonomia ha complesse implicazioni politiche e istituzionali, che vanno pienamente esplicitate.
Non è solo la fine della “cinghia di trasmissione”, non è solo la rottura di un rapporto di dipendenza dal partito politico: sotto questo profilo già molto prima dello scioglimento della “corrente comunista” deciso da Bruno Trentin, i rapporti col partito politico si erano sostanzialmente modificati e si presentavano come rapporti di confronto alla pari e non di sudditanza.
Se guardiamo poi alla situazione attuale, è chiaro che il potere di condizionamento dei partiti politici è quasi nullo, e anzi sembra esserci un processo opposto, una capacità di pressione politica da parte dei dirigenti sindacali, come dimostra in tutta evidenza la vicenda sindacal-politica di Sergio Cofferati. Ma questa oscillazione del pendolo nei rapporti partito-sindacato resta pur sempre all’interno di un orizzonte teorico che pensa le due funzioni, quella politica e quella sindacale, come due lati di un unico sistema, come le due facce, solo funzionalmente distinte, di un comune processo. Il punto superiore di congiunzione è il concetto di “movimento operaio”, nel quale si riassumono e si articolano i diversi piani di azione, diversi nella loro strumentazione tecnica, ma finalizzati ad una comune prospettiva. Tutta la nostra storia ha questa base teorica, è la storia di un unico processo, articolato ma compatto, per cui c’è una linea di continuità che collega la dimensione sociale a quella politica e a quella ideologica. Dobbiamo domandarci se questo schema teorico possa ancora essere utilmente praticato, se ha ancora una corrispondenza nella realtà. Credo che oggi questa compattezza si sia sfaldata, e che sia ormai solo una rappresentazione ideologica senza un rapporto con i processi reali. Proprio per questo, quell’idea di un’unità organica del politico e del sociale non è più un elemento di forza, perché non si regge su basi reali, ma diviene un impaccio, perché tiene forzosamente insieme due piani che sono sempre più nettamente distinti, e che hanno bisogno entrambi di sviluppare pienamente le ragioni della propria autonomia.
Il discorso sull’autonomia non procede in una sola direzione: l’autonomia sociale ha come suo necessario corrispettivo l’autonomia del politico. Sono due dinamiche distinte, e non è utile una loro sovrapposizione: il sindacato non può essere il braccio operativo al servizio di un progetto politico, né il partito può essere una struttura para-sindacale che si limita a veicolare sul terreno istituzionale le richieste del sindacato.
Naturalmente, per un partito di sinistra, che voglia ancora essere tale, la rottura del modello teorico del “movimento operaio” non può significare in nessun modo un allentamento dell’impegno sociale, dell’essere una forza che sta piantata nella realtà del lavoro e dei suoi conflitti. L’autonomia della politica non consiste nel restare confinati nella sola dimensione giuridico-istituzionale o nel discorso astrattamente ideologico sui valori: significa interpretare politicamente la società e intervenire nelle sue linee di conflitto, nei suoi equilibri di forza.
La dimensione politica riguarda infatti i rapporti di potere nella società e la qualità sociale delle politiche pubbliche: è in questo campo che agisce un partito di sinistra, senza delegare al sindacato questa sua funzione, ma esercitandola in prima persona.
L’autonomia non è la delimitazione di diverse “aree di competenza” (a ciascuno il suo mestiere), ma è la dialettica che si svolge tra soggetti diversi, con funzioni diverse, sul medesimo terreno, sul terreno della società e della sua organizzazione.
I due piani restano distinti, concettualmente e pragmaticamente, perché da un lato c’è una funzione di progettazione e dall’altro una funzione di rappresentanza: funzioni che si incrociano, ma non sono riducibili l’una all’altra. Nella rappresentanza sono le radici profonde dell’autonomia del sindacato. Che cosa significa rappresentare? Ci può essere una rappresentanza astratta, ideologica, presunta, la quale nasce dall’esterno del soggetto sociale, come schema teorico interpretativo che si sovrappone ai processi reali. È lo schema leninista della coscienza di classe che può essere solo elaborata da un soggetto politico esterno. La rappresentanza sindacale, al contrario, è il processo reale di auto-organizzazione del lavoro, un processo tutto immanente, che segue il ritmo della concreta esperienza quotidiana dei soggetti sociali.
Il movimento sindacale non muove dalla teoria come fonte regolatrice della prassi, ma all’inverso accompagna la pratica sociale, ne segue le oscillazioni e le sperimentazioni, e concepisce la teoria solo come il risultato, sempre provvisorio, di questa prassi.
La rappresentanza, in questo senso, è solo il risultato di una pratica sociale, e viene meno se questa pratica non viene attivata. C’è sindacato, c’è rappresentanza, solo se c’è un processo sociale che porta all’emersione delle soggettività del lavoro, al loro riconoscimento e all’organizzazione pratica delle loro domande.
Il sindacato non può mai vivere di rendita, ma è sempre esposto alla verifica, e deve incessantemente rinnovare il suo rapporto fiduciario con un mondo del lavoro in continua trasformazione. Sotto questo profilo, la situazione attuale delle Confederazioni sindacali presenta non pochi problemi, di cui non mi sembra esserci una consapevolezza adeguata.
Il problema sta nel fatto che l’attuale forza rappresentativa del sindacato è il risultato di una determinata stagione storica, caratterizzata da un modello di organizzazione sociale ormai al tramonto, mentre tutti i nuovi processi di scomposizione del lavoro e il nuovo arcipelago sociale che ne risulta non hanno ancora trovato una risposta sindacale, e anzi la struttura sindacale sembra funzionare più come elemento di stabilizzazione che non di innovazione.
Alla lunga questo divario tra la forza consolidata e la scopertura dei nuovi territori sociali può determinare una situazione di crisi, in quanto si inceppa la funzione di rappresentanza. Se rappresentare è un processo sempre aperto, questo carattere di apertura diventa assolutamente decisivo nel momento in cui cambia strutturalmente la configurazione del mondo del lavoro.
Si tratta infatti di rappresentare il lavoro che cambia, in una fase di vorticose trasformazioni, per l’impatto delle nuove tecnologie, delle nuove strategie organizzative dell’impresa, della crescente globalizzazione dei mercati, e questi mutamenti strutturali determinano nuove forme di coscienza soggettiva, nuove rappresentazioni culturali: non cambia solo la condizione materiale del lavoro, ma la soggettività del lavoratore.
Per superare questo spiazzamento del sindacato di fronte al cambiamento sociale, occorre ripensare tutta la sua struttura organizzativa, in modo che essa sia proiettata non alla conservazione, non alla riproduzione di una identità statica, ma alla sindacalizzazione dei nuovi territori oggi non presidiati dall’azione sindacale.
Il modello organizzativo oggi prevalente, in tutte le grandi confederazioni, non è in grado di svolgere questo compito, non è predisposto in funzione di un vasto programma di sperimentazione e di nuova sindacalizzazione. Esso ricalca la forma del partito politico di massa: centralizzazione, gruppo dirigente professionalizzato che concentra in se stesso tutte le scelte strategiche, definizione di una “linea politica” a cui si debbono uniformare tutte le strutture periferiche, e in questo schema sono sacrificate proprio quelle risorse che sono decisive per avviare un processo innovativo, le risorse della sperimentazione, dell’autonomia, della libera circolazione delle esperienze e della promozione di nuovi quadri dirigenti. In una parola, siamo in una classica situazione di burocratizzazione, la quale assicura stabilità e permanenza, ma non è in grado di produrre innovazione.
Qui ritorna il problema dell’autonomia. Se cogliamo il valore più profondo dell’autonomia, essa deve guidare non solo le relazioni esterne, ma anche il processo interno di ricambio organizzativo e di rielaborazione del progetto politico, e per questo occorre un modello non centralizzato e gerarchico, ma aperto ad accogliere in sé tutti gli stimoli di una società in movimento, e a rappresentare quindi le nuove domande, senza costringerle in uno schema precostituito. La rappresentanza è un movimento in due direzioni: un’azione dall’alto che fissa i parametri politici su cui costruire la coordinazione solidale degli interessi, e un’azione dal basso, che fornisce il flusso creativo e che mette in causa tutte le sintesi politiche provvisorie, imponendo un processo continuo di verifica democratica e di rielaborazione programmatica.
La burocratizzazione si determina quando funziona solo la linea di trasmissione delle decisioni dall’alto verso il basso, ed è ostruito il processo inverso, con la conseguenza che il sindacato finisce per assumere una forma politica e non funziona più quell’interscambio sociale attraverso il quale si realizza la rappresentanza. Partendo da questa concezione del sindacato come autonomo soggetto rappresentativo, prendono senso due temi cruciali, quello dell’unità e quello della democrazia, i quali si presentano come temi connessi, che si debbono afferrare insieme, nel loro reciproco rapporto di implicazione.
La rappresentanza sociale ha in sé una naturale disposizione unitaria, proprio perché è l’espressione immediata di una condizione collettiva e di una prassi sociale, e infatti verifichiamo nella storia del movimento sindacale come i momenti di forte mobilitazione dal basso sono anche i momenti di massima unità. Le divisioni sono interferenze esterne, incursioni della politica, o dell’ideologia, o sono il portato dell’autodifesa delle grandi strutture burocratiche.
Già Di Vittorio aveva ben chiaro questo punto. Egli parla di “una unità di carattere sociale che sovrasta le stesse differenze di opinione”, di “una base essenziale di principio che sostiene l’unità dei lavoratori di ogni categoria”, i quali “possono essere divisi da ideologie, da questioni di opinione politica, e di appartenenza a differenti partiti politici”, ma al di là di ciò si trovano uniti nell’identità della condizione sociale. Siamo nel 1947, e da lì a poco quell’unità si spezza, ma è appunto la forza della politica che travolge l’autonomia del soggetto sociale, e questa dialettica si ripresenterà più volte nella storia del sindacalismo italiano. Anche l’attuale crisi dei rapporti unitari può essere letta in questa chiave, come l’effetto di una politicizzazione, di una pressione del sistema politico che esporta nel movimento sindacale le sue tensioni e le sue turbolenze. E la politicizzazione innesca una competizione egemonica tra le maggiori confederazioni, e anche all’interno di ciascuna di esse.
Per sbloccare questa situazione occorre riguadagnare l’autonomia dello spazio sindacale.
Come ha coraggiosamente riconosciuto Guglielmo Epifani in una recente intervista, è necessario un lavoro di risindacalizzazione. E qui il passo decisivo lo deve fare proprio la CGIL, perché essa è assai più esposta, per la sua storia, per il suo più forte intreccio con la vicenda politica, per la stessa biografia dei suoi gruppi dirigenti, al rischio di usare la rappresentanza come un’arma politica.
È indicativo il fatto che le articolazioni interne della CGIL sono sempre state, essenzialmente, articolazioni di partito, e continuano ad esserlo tuttora, nonostante lo scioglimento ufficiale delle correnti. La CGIL è quindi fortemente condizionata dal dibattito che è aperto nella sinistra, dallo scontro interno al partito dei DS, e subisce, da varie parti, una forte pressione verso una sua connotazione come forza di opposizione e di mobilitazione politica, che supplisce alla debolezza dei partiti. Sarà interessante verificare nel prossimo futuro su quale linea si attesterà la direzione di Epifani e se riuscirà davvero a prendere corpo un progetto di risindacalizzazione.
D’altra parte, la CGIL ha perfettamente ragione quando sostiene che l’unità sindacale è possibile solo sulla base di un insieme condiviso di regole democratiche. Autonomia significa letteralmente lasciarsi guidare solo dalle proprie regole interne: essa si oppone sia alla dipendenza dall’esterno, sia al governo dell’arbitrio e della forza. La gracilità e l’evanescenza delle regole di democrazia sindacale sono un serissimo ostacolo all’esercizio della rappresentanza, perché si introduce così una strozzatura nel rapporto tra rappresentati e rappresentanti, consegnando ai gruppi dirigenti un potere del tutto discrezionale. L’unità sociale, di cui parlava Di Vittorio, può essere solo l’esito di un processo consapevole di confronto e di mediazione, nel quale sia data voce e legittimità a tutte le diverse posizioni, e quindi solo una procedura autenticamente democratica può realizzare una sintesi condivisa e può dirimere le questioni controverse. La democrazia è quindi la forma in cui l’unità si può realizzare.
E su questo punto è la CISL che deve fare il passo decisivo, aprendosi finalmente ad un confronto per la definizione di comuni regole democratiche: regole intersindacali, anzitutto, autonomamente decise, sulle quali potrà successivamente intervenire una legislazione di sostegno, per renderle effettivamente cogenti e impegnative per tutti. L’unità, in sostanza, può essere il risultato di due processi paralleli: di risindacalizzazione e di democratizzazione.
Una volta ricostituite le condizioni per un sindacato che fa rappresentanza sociale, si tratta poi di fare i conti con le condizioni politiche. Se il quadro politico-istituzionale non offre alla rappresentanza nessuno strumento di concertazione, nessuna forma di compartecipazione responsabile alle decisioni, viene meno una condizione essenziale. L’altra faccia della rappresentanza è il negoziato.
Rappresentare non è un’attività fine a se stessa, ma deve potersi incorporare in un processo politico, nel quale il soggetto sindacale si misura con gli altri soggetti, con gli altri interessi, con i complessi problemi di equilibrio generale del paese, e in questo processo supera la propria unilateralità, va oltre la dimensione corporativa, e si assume una responsabilità nazionale. Ma se questo processo viene bloccato, se non c’è un interlocutore politico, la rappresentanza non ha il suo sbocco naturale, e può essere spinta a regredire verso forme di massimalismo velleitario o di corporativismo. E così il cerchio si chiude, e rischiamo di essere ributtati al punto di partenza. Questa è la difficile contraddizione di questa fase. La difficoltà sta nel fatto che l’autonomia sindacale ha bisogno di trovare una sponda politica, e con l’attuale governo di centro-destra stanno venendo meno le condizioni di una interlocuzione che sia minimamente efficace. Tuttavia, non si tratta di una situazione del tutto bloccata, perché il sistema politico ha ancora in sé una certa articolazione, e non può essere rappresentato come il compimento di un regime del tutto compatto e monolitico. Esistono sia diversi livelli istituzionali, con un loro elevato e crescente grado di autonomia, anche per effetto delle riforme costituzionali realizzate, sia contraddizioni interne alla maggioranza di governo, sia nuovi terreni di confronto che vanno oltre la dimensione nazionale, soprattutto al livello europeo, per cui una tenace ricerca di momenti di concertazione può produrre, in diverse direzioni, dei risultati concreti. È soprattutto la dimensione territoriale che può essere più largamente esplorata, perché cresce a livello locale l’esigenza di costruire dei sistemi sociali integrati e coesi, con la partecipazione dei diversi soggetti. E c’è tutto il campo della contrattazione con le controparti imprenditoriali private, un campo di contrasti aspri, ma è appunto nel contrasto che si forma un’autentica esperienza sindacale.
In ogni caso, la rappresentanza sindacale deve essere misurata e sperimentata in una continua pratica negoziale, perché solo nell’esercizio di questa funzione essa si consolida e si responsabilizza, e costruisce una esperienza democratica reale, con il coinvolgimento dei lavoratori. Se perdiamo questo terreno, questa capacità concreta di stare dentro i processi reali, diviene allora inevitabile una deriva massimalistica, e il sindacato finisce per essere solo uno strumento di agitazione e di denuncia. Il sindacato, quindi, se riesce a sviluppare pienamente la sua autonoma funzione di rappresentanza può essere, anche nell’attuale difficile situazione politica, un elemento permanente di dialettizzazione della realtà, che tiene aperti gli spazi per una possibile evoluzione democratica del paese. Può pesare politicamente proprio perché agisce come soggetto autonomo. L’autonomia è la chiave che ci può aprire una nuova prospettiva.
Busta: 5
Estremi cronologici: 2003
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna sindacale”, 2003. Ripubblicato in “La pazienza e l'ironia” col titolo “Il sindacato tra indipendenza e autonomia”, pp. 189-205