LE ISTITUZIONI E LA TRASFORMAZIONE FEDERALISTA
Le istituzioni e la trasformazione federalista
Atti del convegno organizzato dallo SPI Lombardia. Con un intervento di Riccardo Terzi dal titolo “Rapporti con gli esecutivi legati alle loro specifiche prerogative”.
Vorrei riprendere alcune considerazioni per quanto riguarda il quadro istituzionale, che è stato ampiamente affrontato nelle relazioni di Balboni e di Vitali, per arrivare al punto che riguarda più strettamente questa mia comunicazione, cioè il sistema delle relazioni sindacali. La mia opinione è che noi ci troviamo di fronte ad un dibattito in gran parte sfasato rispetto a quelle che sono le esigenze reali. Sfasato per due ragioni. In primo luogo, perché i temi istituzionali vengono in qualche modo isolati, come se la crisi italiana fosse esclusivamente una crisi dell’ordinamento, per cui il problema è soltanto quello di rimettere ordine nel sistema delle istituzioni. Io credo che questa sia una posizione non corretta. Quello che è accaduto in questi anni ha messo in evidenza il fatto che la crisi italiana riguarda innanzi tutto il sistema politico. Non si tratta di una crisi costituzionale, è una crisi del sistema politico. E non è possibile ragionare sulle istituzioni senza vedere le connessioni tra le stesse istituzioni e il modo di funzionamento del sistema politico. Senza un sistema politico strutturato, forte, qualunque riforma istituzionale rischia di fallire, cioè di non produrre gli effetti desiderati. Ne abbiamo avuto un esempio, molto evidente, con la riforma della legge elettorale, una riforma necessaria, ma insufficiente da sola a produrre un nuovo assetto politico. Con un sistema politico sfrangiato, destrutturato, come quello attuale, la riforma elettorale non ha prodotto quello che si voleva: il bipolarismo all’inglese. Ha prodotto, invece, una situazione di transizione confusa. Quindi ragionare sulle istituzioni in modo separato rispetto alla dinamica politica, mi pare un modo miope di affrontare il problema.
In secondo luogo, tutta questa discussione si concentra su un solo punto: rafforzamento dell’esecutivo, stabilità, governabilità. Le soluzioni possono poi essere diverse: il presidenzialismo, il cancellierato. Ma sembra che l’unico problema in Italia sia quello di dare più forza, più potere all’esecutivo, in una visione però molto tradizionale, dentro una concezione classica del sistema di potere, dentro lo schema dello Stato nazionale centralizzato. Nel frattempo la situazione reale si è spostata, i luoghi della decisione politica si stanno spostando in altre direzioni. Noi continuiamo a ragionare nell’ottica tradizionale dello Stato nazionale centralizzato senza tenere conto dei processi di integrazione economica a livello mondiale. Nel momento in cui c’è la mondializzazione dell’economia, continuare a stare fissi allo schema dello Stato nazionale non ci aiuta a cogliere i processi reali. E nello stesso tempo c’è un’articolazione territoriale, c’è lo sviluppo di sistemi territoriali che hanno bisogno di proprie autonome forme di regolazione, di autogoverno. Per questo la discussione politica attuale finisce fuori bersaglio. Da un lato c’è l’esigenza di una articolazione dei poteri per ragioni di equilibrio democratico. Si può rafforzare il governo, si possono adottare misure per una maggiore stabilità dell’esecutivo. Ma affrontando contestualmente il problema degli equilibri democratici, dei contrappesi, come è in tutta la tradizione democratica europea. Tutto il pensiero costituzionale europeo consiste essenzialmente nella ricerca di soluzioni che evitino il pericolo di concentrazione del potere. Si può dire, in questo senso, che la democrazia nasce dalla diffidenza, nasce nel momento in cui non ci si fida più del principe, e questa è una preoccupazione tutt’ora attuale. E poi c’è, in secondo luogo, il fatto che i luoghi della decisione oggi sono su diversi piani. Oggi c’è una articolazione di livelli, di sedi decisionali, a livello europeo, a livello mondiale, a livello territoriale, quindi la funzione di governo non sta in un solo punto, non sta soltanto a Palazzo Chigi, è una funzione diffusa su diversi piani. Per anni si è parlato a lungo di tutte le teorie sulla società complessa, ora di colpo questa società complessa sparisce, e si pensa che si debba tornare al principe, che si debba tornare a un modello tradizionale di esercizio del comando. Io credo che questa concezione abbia dei rischi non soltanto dal punto di vista democratico, ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’efficacia. Temo cioè che si tratti di una pura mistificazione, che sia un’operazione ideologica in cui ci si illude di risolvere un problema politico complesso con un mito: il mito del principe, il mito del presidenzialismo, il mito di un rapporto diretto tra cittadini e leader, saltando tutti i luoghi intermedi di mediazione.
E questo ci riguarda direttamente, perché il sindacato è appunto uno di questi luoghi intermedi di rappresentanza e di mediazione. C’è poi tutto il tema dello Stato come grande macchina amministrativa. Non si può pensare ad un’operazione di riforma soltanto dall’alto, che non tocchi i rami bassi dell’amministrazione, perché la nostra crisi istituzionale dipende soprattutto dal fatto che non abbiamo creato una struttura amministrativa efficiente, capace, adeguata. Questo problema non lo si risolve con operazioni di ingegneria costituzionale, ma richiede una più complessa azione di riforma della macchina amministrativa ai vari livelli. Si tratta quindi di concepire il sistema di governo come un sistema complesso. Il presidente del CNEL, De Rita, ama usare il termine “poliarchia”, che dà l’idea di un sistema in cui vi sono più centri di direzione. Questo è in effetti il problema: come si governa una società complessa, nella quale non ci può essere un unico punto di direzione, ma la funzione di governo si organizza in più centri, in più luoghi, sia recuperando la dimensione territoriale, locale, sia affrontando le nuove frontiere, oggi strategicamente decisive, della dimensione internazionale. Per questo c’è bisogno, appunto, di una poliarchia e c’è bisogno di organismi intermedi. Una società complessa non può funzionare solo attraverso meccanismi legati al rapporto diretto tra cittadini e leader. Per questa non nasce il potere democratico, ma al contrario il cittadino diventa un consumatore passivo, che si orienta solo in base ai messaggi televisivi. Ma senza soggetti collettivi la democrazia diventa più povera.
Ciò riguarda sia il sistema politico in senso stretto sia l’organizzazione degli interessi, il che chiama in causa anche il ruolo del sindacato.
Proprio perché è in gioco l’equilibrio dei poteri, è in gioco la concezione della democrazia, è in gioco quindi lo stesso ruolo del sindacato, a seconda del tipo di modello politico e istituzionale che prevale, io non credo che noi possiamo essere assenti, neutrali, o pensare che l’autonomia del sindacato consiste nel fatto che non ci occupiamo di queste cose. Abbiamo bisogno di avere una nostra posizione, per costruire un modello di democrazia che riconosca uno spazio reale alle rappresentanze sociali. Finora si sono realizzati alcuni parziali momenti di concertazione. Per quanto riguarda i rapporti tra il sindacato e il governo centrale, l’accordo con il governo Ciampi del ‘93 in particolare è un accordo importante perché definisce una cornice, un’architettura di relazioni tra confederazioni sindacali e governo su alcune scelte generali di indirizzo di politica economica. Questo sistema di relazioni ci ha consentito di affrontare in modo positivo alcuni passaggi molto delicati come quello sulle pensioni. Dove c’era un governo già forte, come in Francia, è stato un disastro, si è paralizzato l’intero paese; dove c’era invece un governo meno forte, ma con un sistema di relazioni sociali più strutturato, il problema è stato affrontato e risolto. Questo conferma quello che dicevo prima: non basta un governo forte se non c’è contestualmente un sistema di regolazione sociale. Io sostengo che, partendo dall’ispirazione che ci ha portato all’accordo con il governo Ciampi, si possa mettere mano a un sistema strutturato e articolato di relazioni con il governo e con le controparti istituzionali, che vada nella direzione della concertazione. Occorre una concezione chiara in cui sia riconosciuta e visibile l’autonomia reciproca delle funzioni, escludendo quindi un modello consociativo, nel quale tutti fanno tutto e nessuno risponde di nulla. Noi non pensiamo a una confusione e sovrapposizione dei ruoli, ma ad un metodo di relazioni per cui alla decisione politica si arriva solo dopo aver esplorato tutte le possibilità di intesa e avendo coinvolto in una riflessione, in un confronto sulle grandi scelte strategiche, i rappresentanti delle organizzazioni sociali. Questo vale per il sindacato sulle materie per le quali il sindacato ha delle competenze, vale per altri soggetti su altre materie.
Dobbiamo sapere che siamo una parzialità e che ci sono temi sui quali i soggetti diventano altri: i consumatori, le organizzazioni dei cittadini, i movimenti che si occupano di ambiente. I soggetti da coinvolgere in un processo di concertazione variano dunque a seconda degli argomenti che si affrontano. Il modello a cui noi dobbiamo tendere è un modello in cui c’è un potere politico responsabile, che ha piena autonomia di decisione ma che costruisce le proprie decisioni attraverso una pratica di confronto con i diversi soggetti interessati e secondo procedure definite, con una certa istituzionalizzazione delle sedi, dei momenti, delle forme. Ora questo metodo è stato sancito, anche se con qualche difficoltà, a livello nazionale, ma è essenziale che questo avvenga non soltanto nel rapporto con il governo centrale, perché non è l’unica sede di decisione. Questo è un problema che riguarda non solo le istituzione politiche ma anche tutti i diversi soggetti. La centralizzazione non è soltanto statuale, non è soltanto la macchina dello stato che si è costruita in Italia con questi difetti di eccesso di centralizzazione. Per varie ragioni la stessa scelta è stata fatta da tutte le grandi organizzazioni politiche e sociali, sindacato compreso. E qui apriamo un capitolo che mi auguro possa essere affrontato anche nel nostro congresso. Noi non possiamo solo dire agli altri come debbono riorganizzarsi in una visione federalista, pensando che noi non ne siamo coinvolti e che possiamo continuare come prima. C’è qui una contraddizione che prima o poi ci scoppia tra le mani. Altro problema che ci riguarda da vicino è quello di come ci attrezziamo per essere presenti sulla scena delle grandi scelte che avvengono su scala internazionale. A mio giudizio, l’ipotesi federalista in Italia deve tenere conto di alcune specificità nazionali. Possiamo prendere in esame anche gli altri modelli europei, ma è sempre pericoloso pensare che si possano importare modelli che funzionano in altri Paesi e in diversi contesti. Anche i modelli di organizzazione federale vanno valutati in rapporto ad una storia e ad una specificità italiana. Qui vedo tre nodi: il primo: c’è il rapporto Nord-Sud. Non c’è nessun altro paese in Europa che abbia un divario così marcato tra regioni forti e regioni deboli. Dobbiamo allora dimostrare che c’è la possibilità di organizzare uno Stato federale facendo i conti con il tema del Mezzogiorno. Questo è importante anche per il modo in cui il tema del federalismo è entrato nella discussione politica. È entrato su iniziativa della Lega, con i connotati del separatismo e della rottura della solidarietà tra le regioni forti e il Mezzogiorno. Per rispondere a questo primo nodo occorre elaborare una proposta di federalismo solidale, con meccanismi chiari e certi di perequazione nella distribuzione delle risorse; con la garanzia universale dei diritti costituzionali. Le forme organizzative possono essere diverse, ma c’è uno zoccolo fondamentale di diritti che devono essere garantiti ai cittadini, indipendentemente dalla regione in cui hanno la fortuna o la sfortuna di nascere. In secondo luogo, l’Italia ha una storia di città: c’è una grande forza della dimensione locale, municipale, mentre la dimensione regionale è una dimensione debole. In tutte le indagini fatte sul senso di appartenenza i due elementi che prevalgono sono la nazione e il comune. Questi sono i due elementi forti di identità. Però, se vogliamo fare un’operazione vera di riforma dello Stato che sposti sensibilmente i poteri dal centro alla periferia, questo non può che essere fatto su una scala ampia, partendo almeno dalle attuali regioni. E qualcuno propone nuovi e più ampi accorpamenti, così da ridurre a dieci-dodici il numero delle regioni.
Quando si dice federalismo delle città, si dice una cosa di cui non capisco il senso. Per modificare seriamente il funzionamento centralistico dello Stato non basta la rete dei comuni, che non può costituire un’alternativa allo Stato centrale. Dobbiamo creare le condizioni per un rapporto nuovo tra regioni e autonomie locali, e la regione quindi non deve essere a sua volta un nuovo punto di centralizzazione; ma deve essere un centro regolatore che valorizza tutti gli elementi di autonomia, che valorizza quindi tutto il tessuto delle istituzioni locali. Occorre un’alleanza tra regioni ed enti locali. Quello che sta avvenendo invece è che ciascun livello istituzionale cerca di trovare in modo separato le vie del proprio riconoscimento, del proprio rafforzamento, e si determina così una contrapposizione tra regioni ed enti locali, per cui il gioco resta nelle mani del potere centrale. Questo è un punto politico importante. Una soluzione possibile è quella proposta in Emilia, in cui accanto al consiglio regionale si istituisce un consiglio delle autonomie locali, così come a livello nazionale dovrebbe esserci la Camera legislativa e la Camera delle regioni. Bisogna trovare il modo perché la forza delle città, una forza che si è accresciuta dal momento in cui è avvenuta l’elezione diretta dei sindaci, non finisca per essere un freno che impedisce una riforma vera dello Stato. Noi è sufficiente il ruolo e il protagonismo politico di qualche sindaco, se tutto il resto sta fermo, se non si decentra nulla, se non cambia nella sostanza la struttura e l’organizzazione dello Stato. Credo anche che molti dei problemi che riguardano l’ordinamento istituzionale dovrebbero essere lasciati alla valutazione autonoma delle singole regioni. Un caso è quello delle aree metropolitane, per le quali non ha senso definire un unico modello organizzativo e istituzionale, perché sono del tutto diverse le realtà. Ogni regione dovrebbe tentare di risolvere il problema delle aree metropolitane con strumenti che possono essere anche differenziati. Lo stesso criterio può valere per le provincie, anche attraverso una modifica costituzionale, adottando soluzioni diverse, a seconda dei contesti regionali. Tornando infine al problema delle forme di concertazione, a livello regionale abbiamo finora una pratica diffusa di consultazione, spesso puramente formale, anche su temi che sono estranei alla competenza del sindacato. Abbiamo poi avuto un embrione di confronto triangolare tra la Regione e le parti sociali, ma senza una sua precisa codificazione. Dobbiamo tentare di mettere a punto una proposta che definisca meglio il sistema delle relazioni a livello regionale. Si può in primo luogo intervenire sullo statuto, ovvero sui diritti fondamentali e sulla facoltà di autonoma iniziativa legislativa che può essere riconosciuto ad alcune forze sociali e rilevanti. Con il riconoscimento di un diritto di proposta, il sindacato e altre forze sociali possono concorrere a determinare l’agenda dei lavori nel consiglio regionale. Solo così determinate proposte arrivano al tavolo della Regione e, arrivando, richiedono una valutazione e una risposta da parte del consiglio regionale. In secondo luogo, dobbiamo definire meglio le procedure del confronto, individuando le materie e gli atti fondamentali della Regione, che richiedono una procedura preventiva di consultazione. Ciò può dare luogo a un accordo, oppure a una registrazione di posizioni differenti. In caso di disaccordo, la cosa importante è che le eventuali proposte alternative del sindacato siano conosciute, perché il consiglio regionale, poi, nel momento in cui deve deliberare, conosca non soltanto la proposta della giunta, ma anche le controindicazioni, le controproposte avanzate dalle diverse organizzazioni sociali che nel processo di consultazione sono state coinvolte. Si tratta infine di esaminare la possibilità di dare una struttura istituzionale permanente alle rappresentanze sociali. Si è parlato del CNEL regionale.
Il CNEL in realtà è una struttura troppo pesante, e occorre trovare delle forme molto più agili, più operative. Sarebbe comunque utile una qualche sede permanente di incontro, di elaborazione, di iniziativa delle forze sociali, in modo che il tema della democrazia degli interessi trovi una risposta, anche di carattere istituzionale. Tra gli altri aspetti da considerare, uno è quello del rapporto con le Camere di Commercio, che già sono oggi una rete istituzionale importante, nella quale il sindacato è presente in modo molto limitato. Le Camere di Commercio possono essere una struttura operativa a cui affidare determinate funzioni, e probabilmente va riesaminato il modo in cui il sindacato sta dentro questa realtà. Penso quindi che dovremmo lavorare per mettere a punto una nostra proposta organica sull’insieme di questi problemi, naturalmente in accordo con le altre confederazioni.
È necessario un modello che sia capace di reggere, indipendentemente dalla variazione delle situazioni politiche contingenti. Questo vale per la Regione, ma anche per i Comuni, soprattutto per i Comuni, per i grandi Comuni dove con l’elezione diretta dei sindaci si è costituito un potere esecutivo più forte. Siamo in presenza oggi di giunte molto più stabili, con una maggioranza garantita, sia nelle regioni che nei comuni. Questo fatto non è in sé negativo, anzi per i comuni e per le regioni il rafforzamento del sindaco e del presidente della giunta regionale significa un rafforzamento del sistema delle autonomie, a condizione che non si pensi ad una gestione incentrata esclusivamente sulla figura del leader, e si costruisca un sistema di relazioni sociali più complesso. Per tutte queste ragioni c’è bisogno di un impegno del sindacato sui temi istituzionali, e c’è bisogno anche di una battaglia politica e culturale per contrastare alcune tendenze che sono in atto. Quello che ho fin qui detto non è molto in sintonia con quello che è l’umore che circola nella società italiana, e il sindacato stesso viene visto come un pezzo della prima repubblica.
L’idea plebiscitaria, di un rapporto diretto tra cittadini e leader, porta a considerare come degli ostacoli tutte le strutture intermedie di rappresentanza. C’è un pregiudizio quindi negativo nei confronti del ruolo dei partiti e rischia di esserci un pregiudizio negativo anche nei confronti del sindacato. Quello che noi chiediamo, non è una rivendicazione di parte -non si tratta cioè per il sindacato di difendere il suo pezzettino di potere. Quello che è in gioco è la concezione della democrazia. Se vogliamo una democrazia ricca, abbiamo bisogno di più sedi decisionali e di un certo modo di esercizio della funzione di governo, in un rapporto, in un confronto con la società civile, che non è un’entità indistinta e generica, ma è fatta di soggetti, di organizzazioni, di rappresentanze. Io penso che su questo dovremo aprire un lavoro, una ricerca seria dentro la CGIL. Sarebbe sbagliato non vedere che in un momento in cui cambiano gli assetti, anche noi siamo messi in gioco. Se crediamo in una prospettiva di riforma nel senso del decentramento e del federalismo dobbiamo essere attori di una battaglia per il cambiamento, e da ciò derivano delle conseguenze anche per quanto riguarda il modo di funzionamento del sindacato, il suo modello organizzativo, tuttora modellato sullo stato centralizzato.
È una discussione da fare, una ricerca nuova da costruire, anche in vista del prossimo congresso della CGIL.
Busta: 29
Estremi cronologici: 1996
Autore: AA. VV.
Descrizione fisica: Rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Quaderni di Argomenti SPI Lombardia”, 1996, pp. 89-95