PSI, UNA POLITICA CHE NON ENTRA NEL MERITO
di Riccardo Terzi
Dalla conferenza di Rimini a Bari i socialisti tentano di far convivere la parola d’ordine della “governabilità” con un’idea di trasformazione. Ma la loro analisi si confronta davvero con i problemi posti da una società moderna?
Governare il cambiamento: questa parola d’ordine indica con efficacia entro quale cornice si muove le ricerca programmatica del PSI a partire dalla recente conferenza di Rimini.
È un campo di ricerca che è comune alle forze della sinistra italiana. Prevale invece, in generale, la tendenza a dilatare artificiosamente i contrasti, a esasperare polemiche strumentali, a lasciarsi guidare da un’ottica ristretta di partito. Avviene così che l’elaborazione comunista viene ignorata o deformata, e i comunisti italiani sono rappresentati come ideologi astratti alla ricerca di inesistenti utopie. Un esempio illuminante di questo metodo è dato dalla ricostruzione storica dell’esperienza del movimento operaio italiano, secondo la quale tutto il merito sta esclusivamente nel filone riformista turatiano. Secondo Tamburrano «ciò che di positivo è negli ideali della storia porta il nostro sigillo», e da qui egli trae l’affermazione sorprendente che il PSI ha avuto sempre ragione. Fa un effetto curioso questo ritorno all’apologetica e alla storia edificante in un partito che vuole affermarsi e qualificarsi come espressione della modernità. Possiamo, però, lasciar da parte tutto ciò che c’è stato di “rituale” nella iniziativa socialista: possiamo trascurare la messinscena propagandistica. L’interesse sta altrove, nel complesso ricco e variegato di analisi e di proposte programmatiche. La preoccupazione politica del PSI è quella di rielaborare la linea della governabilità e di collegarla a un progetto di trasformazione, di non farsi trascinare quindi in una logica di conservazione dell’attuale assetto di potere. È una correzione significativa e importante, che ripropone in primo piano il tema delle riforme, e ad esso subordina la questione della governabilità a cui un po’ troppo incautamente il PSI aveva affidato la propria immagine, rischiando così di smarrire le proprie peculiari finalità.
Ma quali riforme, quale cambiamento? Come si pone oggi, nella società italiana degli anni ‘80, questo problema? In questi anni sono intervenuti mutamenti profondi, sia nella struttura sociale del paese, sia negli atteggiamenti politici e nella scala di valori in cui si rispecchia la società. Si sottolinea da più parti la nuova “complessità sociale”, il fatto che le struttura di classe della società italiana di oggi non può essere ricondotta a un unico ed elementare antagonismo, che nuovi ceti e nuove figure sociali si affermano e acquistano peso politico, che la stessa classe lavoratrice si configura come un universo complesso e articolato a cui è ormai troppo stretta quella cultura politica imperniata sulla “centralità operaia”.
È però assai discutibile l’“uso politico” che di queste analisi viene fatto dai dirigenti socialisti, o almeno da alcuni di essi. Si rinuncia ad ogni analisi di classe, pensando di poter costruire una teorie politica con le categorie del senso comune e della morale: il bisogno e il merito. Al recente convegno di Bari, Claudio Martelli riprende e sviluppa questa tematica, alla ricerca della “società giusta”.
Mi sembra che, con questa operazione, il pensiero politico sia spinto in un vicolo cieco, come avviene ogni volta che si confondono i confini dell’etica e della politica. La società complessa è tutt’altro che una società avviata verso la pacificazione, verso l’armonia degli interessi, tramite qualche ragionevole proposta di patto sociale, ma anzi caratterizzata da più aspri conflitti, da una più generale opposizione di interessi diversi. Davvero pensa il compagno Martelli che sia così agevole individuare dove sia il merito, e dove sta il bisogno? Che ci possano essere in questo campo criteri universalmente riconosciuti? Mi sembra più realistica l’osservazione del Leopardi: «Raro è chi veramente abbia più di quello che gli bisogna; dipendendo i bisogni in modo quasi principale dalle assuefazioni. Né vale che questo o quel bisogno sia immaginario, perché troppo poche sono le cose nella vita che non consistano o del tutto o per gran parte nella immaginazione».
Insomma, per ogni gruppo sociale il merito e il bisogno vengono valutati sul proprio metro, e per questa via non perveniamo a nessun criterio certo e oggettivo. Anzi, la crisi dello Stato sociale ha la sua radice proprio in questa esplosione di un generalizzato “conflitto distributivo”, nella struttura corporativa che la società viene assumendo. La debolezza del liberal socialismo è in questa immagine irreale della società moderna, in questa illusione che possa realizzarsi una ricomposizione razionale della frattura di classe che ha segnato tutta la storia del capitalismo. Per questa ragione, tutta l’argomentazione di Martelli non riesce a tradursi in indirizzi politici concreti, operativi, ma funziona solo come “messaggio ideologico”.
Ciò che oggi invece occorre è una piattaforma politico programmatica il più possibile concreta e definita, in cui possano ritrovarsi le esigenze e le aspirazioni di uno schieramento sociale assai ampio e composito, nella consapevolezza che non può bastare il riferimento alle classe operaia in quanto “classe generale”, che più arduo e impegnativo è diventato il tema delle alleanze del blocco sociale, delle forze motrici del cambiamento.
C’è tutta una cultura politica della sinistra che è entrata in crisi, che non corrisponde più oggi alla coscienza del paese. Le idee forza del movimento del ‘68 risuonano ormai come miti lontani, come illusioni fallite. Non ha retto alla prova dei fatti l’idea di una lotta sociale e politica che mirasse a “disarticolare” il sistema, a far saltare le sue interne compatibilità, a portare quindi le rivendicazioni economiche e democratiche ad un punto di rottura, attraverso una generale accelerazione del conflitto. In questo contesto le riforme assumevano valore solo in quanto capaci di mettere in crisi l’equilibrio sociale e politico, e di aprire così la strada ad un rovesciamento dei rapporti di potere.
Ma sommariamente e schematicamente possiamo dire che il risultato non è stato questo. Si è arrivati ad una crescente paralisi delle capacità di decisione e di direzione del potere politico e l’attenzione si è spostata dal conflitto alla possibilità di governarlo e disciplinarlo.
Il PSI affida la sua fortuna di partito a questi processi, di cui certo occorre tener conto, e lo fa con grande spregiudicatezza, con una assimilazione disinvolta di temi, di idee, atteggiamenti, che sono propri della tradizione moderata. C’è l’idea che basti un’operazione di snellimento e di ammodernamento dell’’intervento pubblico per rimettere in moto un meccanismo di sviluppo, inceppato ma ancora vitale. C’è la sottolineatura degli effetti perversi della burocratizzazione della politica, delle costituzione di un ceto politico professionale, ed è questa una questione reale, di rilievo. Ma sorge l’interrogativo non solo sulla “coerenza” del PSI rispetto a questa impostazione, ma soprattutto su una rappresentazione così semplificata della società italiana, come se bastasse “rianimare il privato” per ottenere un nuovo impulso allo sviluppo civile del paese. Sorge un interrogativo sulla coscienza che il PSI ha della gravità, della drammaticità della crisi del paese.
La nostra diagnosi è meno ottimistica. Più radicali e profonde ci sembrano essere le necessità di cambiamento, nella politica economica, negli indirizzi di governo, nel funzionamento delle istituzioni, e negli stessi schieramenti politici. L’avvio di un risanamento anche solo parziale e limitato richiede uno sforzo politico eccezionale, una grande mobilitazione delle energie vive del paese, e si scontra inevitabilmente con un complesso potente di resistenze conservatrici e di inerzie burocratiche che trovano protezione e sostegno là dove o hanno sempre trovato, nel sistema di potere democristiano, nella sue sostanziale natura conservatrice che non dipende delle volontà e delle velleità degli uomini.
In sostanza, l’interrogativo che va posto al PSI dopo le iniziative di Rimini di Bari, riguarda essenzialmente la “politica”, le definizione di una strategia che dia credibilità a un progetto di rilancio dell’azione riformatrice. Questo problema viene eluso, e il PSI ritiene di poter districarsi dalle difficoltà solo con una grande elasticità tattica, senza una chiara opzione di alternativa. Qui sta il limite, qui permane un’ambiguità e un’incertezza, che lasciano il giudizio sospeso e rinviano ogni valutazione conclusiva alla prova dei fatti e delle scelte politiche concrete.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1982, 16 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “L’Unità”, 16 giugno 1982