PRIMA CONFERENZA NAZIONALE DEGLI AMMINISTRATORI COMUNISTI

Bologna, 27-29 ottobre 1978

Intervento di Riccardo Terzi – Consigliere comunale e Segretario della federazione di Milano del PCI

Per cogliere esattamente la natura dei problemi e delle difficoltà che abbiamo davanti a noi in questa fase politica è necessario richiamare alla memoria che cosa è stato il 15 giugno, quale tipo di spostamento politico si sia realizzato in quel momento.

Mentre nel periodo precedente avevamo avuto un processo graduale di crescita e di consolidamento delle nostre posizioni, si è prodotto invece nel ‘75 un movimento tumultuoso dalle proporzioni non prevedibili.

Entrato in crisi il tradizionale sistema di potere democristiano, logorate le motivazioni ideologiche che lo sostenevano, lacerato dalla crisi generale della società italiana tutto il complesso di mediazioni sociali che la Democrazia cristiana aveva saputo costruire, è divenuto possibile per il nostro partito realizzare un’operazione di sfondamento, aggregare intorno a sé il generale impulso di rinnovamento della società prima ancora che esso si potesse tradurre in una precisa proposta di linea politica.

Questo fatto ha caratterizzato in modo particolare le grandi città dove è meno saldo il tessuto connettivo tra i partiti e la società civile, e dove quindi vi è una maggiore mobilità delle correnti di opinione.

Ci siamo trovati quindi di fronte ad un mutamento della qualità del nostro elettorato, sia per il fatto che la nostra influenza ha investito per la prima volta nuovi strati sociali, sia soprattutto per il carattere che questa adesione ha avuto: non si trattava di una scelta di campo definitiva, ideologizzata, ma di un movimento di opinione ancora tutto da consolidare, in cui confluivano motivazioni e aspettative assai diverse e talora anche contraddittorie.

Il partito ha dovuto pertanto operare in tempi accelerati una riconversione del proprio modo di essere, dello stile di lavoro, delle forme di collegamento con la società, e tale riconversione non abbiamo ancora saputo portarla a termine in modo soddisfacente.

Non solo, infatti, vi sono ritardi e lentezze organizzative; vi è anche, a mio giudizio, una definizione ancora inadeguata del ruolo del partito e del suo rapporto con la società.

Abbiamo da tempo corretto la teoria e la pratica delle cinghie di trasmissione, ma raramente al superamento di questa teoria è subentrata una concezione nuova.

Quando ci si limita a valorizzare i momenti di autonomia che entro la società civile si sono venuti costruendo, quando si insiste sul carattere non totalizzante del partito politico, corriamo il grave pericolo di accedere noi stessi a quella concezione, tipica della tradizione del movimento cattolico, secondo cui all’autonomia del sociale si aggiunge l’azione politica solo come mediazione esterna, come sfera separata, la cui funzione è solo quella di una regolamentazione equilibrata delle tensioni sociali.

Se una società viene intesa come un sistema di autonomie inviolabili, allora, è evidente, viene meno ogni possibilità di un progetto di trasformazione.

Ora, il movimento tumultuoso del 15 di giugno contiene in sé la domanda di un nuovo rapporto con la politica. E tale movimento può rifluire, può riadattarsi entro lo schema dell’interclassismo moderato se noi non riusciamo a riscoprire in tutta la sua ampiezza il ruolo del partito come forza dirigente nazionale e come portatore di un disegno organico di trasformazione e di rinnovamento.

Il problema per noi, per un partito rivoluzionario, non può essere quello di, fissare sfere di competenza, di delimitare il nostro campo di intervento, ma è invece quello di conquistare nuove posizioni, di entrare in nuovi campi, di essere una forza capace di esprimere una sintesi più vasta.

Il pericolo non è l’ambizione alla totalità ma l’adattarsi a una funzione di parte e minoritaria.

In una grande realtà urbana come quella milanese, il ruolo di governo del partito può consolidarsi se viene decisamente superata ogni tendenza minoritaria, se ci mettiamo in grado di misurarci con la realtà sociale complessiva, con le sue effettive rappresentanze, di costruire organicamente una politica di alleanze, di sviluppare un’iniziativa politica in tutte le direzioni. E lasciamo pure che qualcuno strilli contro la nostra vocazione totalizzante o totalitaria. Costoro ci vorrebbero vedere rassegnati e subalterni, e invece non lo siamo e non intendiamo esserlo.

La situazione si presenta oggi certamente meno agevole di quanto non lo fosse nel ‘75, perché le forze moderate e conservatrici, dopo lo sbandamento del 15 di giugno, si vanno riorganizzando e cercano di mettere a punto una propria linea di controffensiva.

Non abbiamo di fronte un avversario disarmato e sbandato, non possiamo contare sull’esito fortunato di qualche sortita, ma dobbiamo invece agire in tutto il tessuto della società, nel campo della cultura, dell’informazione, dell’economia, delle professioni, per spostare i rapporti di forza e per impedire che si ricostituisca un blocco moderato.

L’offensiva di destra, sviluppatasi con intensità crescente dopo il ‘75, cerca di utilizzare strumentalmente la difficile fase di crisi che il Paese attraversa e che rimette in discussione il ruolo tradizionale di Milano, per accreditare l’immagine di una città in declino e per attribuire la ragione di ciò all’influenza deleteria che i comunisti avrebbero esercitato nel governo della cosa pubblica, al loro schematismo ideologico, alla loro politica punitiva nei confronti dell’iniziativa privata.

Per quanto rozze siano queste argomentazioni, esse mettono in chiaro quale sia l’obiettivo politico a cui punta la destra conservatrice: l’isolamento della classe operaia e dei comunisti, la messa in crisi di tutta la nostra politica di alleanze, la riconquista quindi di una salda capacità di egemonia sugli strati del ceto medio urbano, nel segno di un’esaltazione retorica dei valori di imprenditorialità e di libera iniziativa che hanno nel passato animato e guidato lo sviluppo economico e civile dell’area milanese.

E allora è evidente che nella nostra iniziativa politica il tema delle alleanze diviene fondamentale e prioritario. Occorre che nei fatti, e non solo nelle nostre dichiarazioni di volontà, si realizzi tra le diverse forze sociali una ricerca comune per costruire insieme il futuro sviluppo di Milano.

È necessario ricercare con grande duttilità tutte le possibilità di intesa, così da coinvolgere le diverse forze economiche ed imprenditoriali nell’opera di risanamento e nel rilancio della funzione di Milano nell’economia nazionale.

Qui sta la prova decisiva per il nostro partito e per le forze di sinistra. Ogni errore di massimalismo è in questa fase una sicura premessa di sconfitta.

In questa direzione si è mossa finora con equilibrio la nuova amministrazione di sinistra. Per fare solo un esempio, il criterio fondamentale che è stato seguito nella predisposizione del nuovo piano regolatore è quello di realizzare un equilibrio tra le diverse funzioni sociali, tra l’industria e il terziario, tra l’edilizia privata e quella pubblica, evitando nel contempo che l’esigenza del controllo abbia l’effetto di paralizzare e di deprimere l’iniziativa dei gruppi economici privati.

I problemi sociali più acuti, da quelli della casa a quelli dell’occupazione e della mobilità del lavoro, non potranno trovare soluzione concreta al di fuori di questo metodo di confronto aperto e duttile tra istituzioni politiche e forze sociali.

Per procedere in tale direzione, occorre però che sotto il profilo istituzionale si giunga rapidamente e con chiarezza ad un nuovo assetto che ponga fine allo stato attuale di confusione, di incertezza, di sovrapposizione di compiti.

Nella campagna elettorale del ‘75 avevamo posto l’accento sull’esigenza di una più ampia partecipazione democratica. Questo resta indubbiamente un obiettivo valido, alla condizione però che esca dalle nebbie del democraticismo generico, che si concreti in un sistema agile ed efficiente di autonomie dotate di poteri definiti e di strumenti funzionali.

Si tratta, io credo, di portare avanti in modo conseguente e risoluto tutto il processo di decentramento amministrativo, facendo degli attuali Consigli di circoscrizione delle vere e proprie municipalità, e di ritrovare, d’altra parte, un adeguato livello di governo nella dimensione metropolitana, che è la dimensione obbligata per affrontare in modo rigoroso i problemi di un’area fortemente urbanizzata e integrata.

Abbiamo bisogno, in sostanza, di congiungere democrazia ed efficienza che oggi sono pericolosamente divaricate.

La questione non è dunque di moltiplicare forme partecipative che hanno spesso un carattere angusto e corporativo, ma di dare vita ad un’articolazione delle strutture amministrative che costituisca davvero uno sviluppo ed un potenziamento della democrazia politica e rappresentativa, con un duplice movimento dal basso e dall’alto.

Se alla scadenza dell’80 riusciamo a presentarci con una nostra proposta organica, che affronti contestualmente i problemi dell’assetto istituzionale e quelli dello sviluppo economico e sociale; se su questi temi già da oggi riusciamo a costruire un’iniziativa politica aperta e a coinvolgere le espressioni reali della società; se il partito diviene il punto di riferimento e di aggregazione per un discorso sull’emergenza che non sia retorico e propagandistico ma concreto e puntuale, allora io credo che davvero possiamo guardare con realistica fiducia alle prospettive politiche dei prossimi anni.

Questa fiducia è ragionevolmente confermata dal fatto che non si intravedono proposte e linee alternative che abbiano un grado sufficiente di elaborazione e di coerenza.

La Democrazia cristiana milanese non è andata oltre, in questi tre anni, una linea confusa e generica di contestazione, tutta orientata al solo obiettivo di un ribaltamento dei rapporti politici.

C’è molto attivismo ma non una ripresa di egemonia, non un indirizzo di governo compiuto ed organico. Le non risolte contraddizioni interne trovano un punto di equilibrio, di unità, solo nella scelta di una linea di rivincita, nell’appello all’orgoglio di partito.

Ciò significa che nel breve periodo non potranno determinarsi modificazioni sostanziali nel quadro politico, perché la Democrazia cristiana è costretta ad affidarsi ad una politica di contrapposizione, ma significa anche che la partita è quanto mai aperta, in quanto l’offensiva democristiana può avere successo solo se incontra uno schieramento di sinistra incerto e incapace di misurarsi con la realtà.

È con questa ragionata analisi politica che debbono essere combattute e contrastate tutte le posizioni di disfattismo e di rassegnazione che si traducono nel rito di una autocritica snervante ed inutile.

Dobbiamo anche avvertire il rischio di una linea che si affidi esclusivamente all’ipotesi di una larga intesa democratica, in quanto non sono oggi avvertibili le condizioni e i presupposti di una tale politica.

D’altra parte, il fatto che nelle singole realtà locali si sviluppi liberamente una dialettica politica indipendentemente dalla formula di governo, non può essere giudicato solo in termini negativi, ma è invece un riflesso di quell’articolazione democratica dello Stato che vogliamo salvaguardare.

La strategia del compromesso storico non è una indicazione di formule e di schieramenti, ma è la ricerca di un quadro più generale di solidarietà democratica che costituisca per tutte le forze politiche un punto di riferimento comune e un elemento di reciproca garanzia.

Entro questa concezione diviene più chiaro il nostro rapporto di unità e di collaborazione con le altre forze di sinistra, ed in primo luogo col partito socialista.

L’esperienza milanese dimostra nel suo complesso come possa essere proficuamente perseguito l’obiettivo di una politica unitaria delle sinistre nel rispetto dell’autonomia di ciascuno, delle diverse caratterizzazioni ideali, senza preconcette diffidenze e fobie.

Se si sono venuti accentuando in questa fase politica gli elementi di conflittualità, ciò dipende anche dal fatto che, chiuso il periodo del centro sinistra, comunisti e socialisti si trovano oggi ad operare nella stessa area politica, sia a livello nazionale sia nelle realtà locali, che pertanto si accentua la questione dell’identità, dell’autonomia, dello spazio politico e ideale che ciascun partito può ricoprire.

Noi dobbiamo quindi regolare i rapporti unitari in modo che questa ricerca di identità non sia intralciata e non sia motivo di rottura, e possa invece risolversi in un allargamento complessivo dell’area di influenza della sinistra.

Naturalmente questa attenta considerazione per il ruolo autonomo delle altre forze politiche implica anche contemporaneamente una vigorosa difesa della nostra identità di partito, una nostra iniziativa autonoma e combattiva, uno sviluppo dei nostri tratti caratteristici come grande partito di massa.

Noi abbiamo, rispetto alle altre forze politiche, il vantaggio di poter disporre di una macchina organizzativa capace di svolgere un lavoro capillare e molecolare, capace di stabilire con la realtà sociale un collegamento diretto, capace di una presenza assidua e quotidiana.

È questa macchina che deve essere interamente mobilitata e dispiegata per la costruzione di un blocco sociale che sostenga la nostra azione di governo e che sia l’artefice di una politica di cambiamento.



Numero progressivo: F8
Busta: 6
Estremi cronologici: 1978, 27-29 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Bollettino della sezione Regioni ed autonomie locali del Comitato Centrale del PCI”