PRIGIONIERI DI NOI STESSI
di Riccardo Terzi
Subordinando il rinnovamento alla necessità di preservare l’unità interna, i comunisti continuano ad autoescludersi dal governo. Lama e Colajanni sbagliano a concentrare le loro critiche sull’ultima fase della politica berlingueriana, che invece conteneva in sé le premesse di una rottura colla tradizione del partito.
Napoleone Colajanni e Luciano Lama hanno preso l’iniziativa di riaprire il dibattito politico dentro il PCI con la pubblicazione di due libri che hanno in comune l’intenzione di una lettura critica della complessa eredità berlingueriana. È un’occasione utile per tentare una qualche riflessione sullo stato attuale del PCI e sulle sue prospettive. Un anno fa, con il congresso di Firenze, il gruppo dirigente comunista si unì intorno alla scelta prudente di accantonare le questioni più controverse e spinose, di smorzare il dibattito, e di privilegiare, ancora una volta, l’esigenza dell’unità del partito.
Ma si trattava di un’unità assai fragile, di facciata, frutto di un accorto e faticoso dosaggio di formule, e non di una nuova sintesi politica capace di ridare slancio all’iniziativa del partito. Nella vita di un partito, certamente, ci sono momenti nei quali non si può andare oltre un’opera di assestamento, di aggiustamento parziale, non essendo ancora mature le condizioni, interne ed esterne, per uno sviluppo nuovo e creativo dell’elaborazione politica. Ma è forse questo un momento in cui può bastare una saggia e prudente amministrazione del patrimonio consolidato? Se una tale situazione si protrae, si fa corposo il rischio di un isterilimento e di un declino della vitalità del partito.
Questa minaccia del “declino” è al centro della riflessione di Colajanni, e soprattutto è nei fatti, nei dati materiali della situazione politica, nel processo reale che ha spostato gli equilibri del potere. E, d’altra parte, oggi tutto il quadro politico si è aggrovigliato, si è fatto incerto, aperto ad esiti imprevisti, e quindi tutta l’iniziativa politica richiede una forte accelerazione. Chi sta fermo si prepara ad una sconfitta sicura.
Ho però l’impressione che la logica di Firenze, l’esigenza cioè di salvaguardare un difficile equilibrio di vertice, sia tuttora prevalente, e che il dibattito politico nel PCI si potrà sviluppare solo con grandi difficoltà e con forti resistenze. Mi ha francamente stupito il fuoco di sbarramento preventivo con cui si è accolto il contributo di Colajanni. Non ricordo nessun altro caso in cui, nei confronti di un membro del Comitato Centrale, si sia usato questo metodo sbrigativo di battaglia politica, liquidando come fazioso un libro prima di averlo letto, solo sulla base di generiche indiscrezioni di stampa. Mi auguro che questa caduta di stile sia da attribuire solo alla responsabilità personale del direttore del L’Unità. Ma, certo, non è un segno incoraggiante. È il segno che tutto il problema della democrazia nel partito è ben lontano dall’essere risolto. Credo anzi che è proprio su questo terreno, sul quale il PCI non ha saputo o voluto realizzare nessuna innovazione sostanziale, che è maggiore il ritardo e pesa di più l’inerzia conservatrice.
Che in tutti i partiti sia in atto una centralizzazione autoritaria non può costituire una giustificazione. È anzi un motivo in più di allarme per la tendenza della politica italiana, in tutte le sue manifestazioni, a divenire la sede di una ristretta oligarchia, di un ceto professionale che non è più rappresentativo di forze sociali reali. È questa una questione che tocca anche il PCI. O il problema è risolto perché non c’è più un segretario carismatico come era Berlinguer? Lama sembra essere di questa opinione: ormai è compiuta la laicizzazione del partito e c’è diritto di cittadinanza per tutti. Non è così, purtroppo, e questo giudizio di Lama fa torto alle sue personali doti di franchezza. Il grande nodo politico del centralismo democratico è ancora tutto da risolvere. Non si tratta della legittimazione delle correnti, ma di un problema più profondo di concezione del partito, di “ideologia” del partito. Si tratta cioè di decidere se il PCI accetta fino in fondo, coerentemente, il pluralismo al proprio interno, se lo considera come un dato costitutivo, come un elemento positivo da promuovere, incoraggiando l’autonomia più ampia della ricerca culturale, se dunque debbono valere per tutti regole e norme di democrazia politica che consentano una aperta e libera dialettica interna, o se invece il principio dell’unità è un valore superiore a cui le libertà individuali e collettive debbono essere sacrificate, se debba ancora valere la prassi per cui il gruppo dirigente è in sé il portatore dei valori sostanziali del partito, e dunque orienta, dirige, trasmette le sue decisioni, in un processo che è pedagogico, dall’alto in basso, e mai democratico. Bisogna compiere il passaggio da una concezione “ideologica” del partito, che trascende le opinioni, le volontà e gli interessi dei singoli, a una concezione conseguentemente democratica, per cui il partito è solo lo strumento attraverso il quale prende corpo un processo di partecipazione di massa alla vita e alle scelte politiche, senza vincoli di dottrina, senza il feticismo dell’unità, senza una ortodossia con le sue regole coatte di disciplina. Questo passaggio è la fondamentale e preliminare innovazione da realizzare. Ed è questione non di statuto, ma di cultura politica. Ma questo salto di cultura non si vede, e c’è forse bisogno, per questo, di un accelerato ricambio generazionale.
L’attacco a Colajanni si deve probabilmente al fatto che è uno dei pochi esponenti del PCI a porre in modo esplicito il problema del superamento del centralismo democratico. Ed è questo, a me pare, il centro politico del suo libro. Ma Colajanni è anche uomo di solida tradizione comunista, e la sua battaglia politica, così come quella di Lama, si colloca all’interno di un filone di pensiero e di una cultura politica che ha radici lontane, in Togliatti, in Amendola, in un’idea di partito come grande forza nazionale, come promotore di un vasto blocco di forze sociali, come portatore di una egemonia che si conquista in quanto si rappresentano gli interessi generali del paese. È una forte tradizione politica, che però necessariamente riflette le condizioni di una fase storica determinata. Questa concezione alta della politica e del ruolo del partito tende oggi a decadere a retorica, a costruire uno scenario artificioso da “salvezza nazionale”, mentre si tratta di individuare più concrete e più incisive battaglie di trasformazione sociale.
In questo ancoraggio alla tradizione c’è dunque un limite, una difficoltà a misurarsi con il nuovo, a cogliere i modi di sentire e le culture dell’Italia di oggi. Per questo, al fondo, la proposta politica non convince. È la riproposizione di un’idea dell’unità della sinistra che appare datata, una sorta di ritorno alla via maestra dopo la parentesi di Berlinguer.
I conti con Berlinguer, con la sua eredità politica, il PCI ancora non riesce a farli. Ci sono gli apologeti, che fanno di questa eredità una reliquia da venerare, e questo approccio di tipo religioso non consente nessuna discussione politica. C’è poi la tendenza, diffusa e prevalente, ad accogliere l’elaborazione di Berlinguer, ma smussandone le punte, eliminando le sue spigolosità, le sue durezze, le sue forzature. Insomma il problema sarebbe solo quello di recuperare un senso di misura, un atteggiamento più equilibrato, una duttilità tattica. Ma questo berlinguerismo infiacchito non è in grado di produrre nulla, se non un vago moralismo ed una ripetizione stanca di formule. Senza forzature, senza unilateralità, senza spirito di parte, la politica non è nulla. Quando si vuole tenere conto in modo equilibrato di tutto, si producono discorsi levigati, accademici, inutili. Nei libri di Colajanni e di Lama c’è invece una critica esplicita, che si concreta nel rifiuto degli elementi di settarismo, di arroccamento, di isolamento politico, che sono affiorati con forza nell’ultimo periodo della direzione berlingueriana. Non è negabile, a mio giudizio, che questi elementi siano stati presenti. Ma una lettura condotta esclusivamente in questa chiave è riduttiva, e in ultima istanza fuorviante. Tutto sembra ridursi al temperamento di Berlinguer, alle sue diffidenze, al suo stile di direzione.
Io tenderei a rovesciare il luogo comune che concentra tutte le critiche sull’ultima fase, quella che si è aperta con la seconda svolta di Salerno. Quella svolta, che pone per la prima volta il tema dell’alternativa, ha uno straordinario valore, e contiene grandi potenzialità innovative.
La politica precedente, segnata dalle formule del compromesso storico e dell’austerità, è il proseguimento e l’esaurimento della tradizione togliattiana. È la traduzione in termini politici di alcuni capisaldi tradizionali: l’unità democratica, le più vaste alleanze sociali, l’interesse nazionale. Berlinguer porta alle ultime conseguenze quella tradizione, fino a configurare un’alleanza politica con le forze moderate e con il partito politico che le rappresenta. Ma ad un certo punto, forse in ritardo, ha la forza di invertire nettamente la rotta, di riconquistare al PCI un suo ruolo autonomo in quanto portatore di un progetto alternativo, in quanto scende in campo consapevolmente nello scontro sociale e politico. L’idea dell’alternativa rompe con l’ecumenismo, rompe con la concezione del partito come espressione dell’interesse generale della società, traduzione laica del “bene comune” della dottrina sociale cattolica. Massimalismo settario? Ma tutta la socialdemocrazia europea ha costruito la sua forza su un ben definito ancoraggio di classe, sa di essere e vuole essere espressione di una parte, di un blocco delimitato di interessi sociali.
In questa nuova fase la direzione politica di Berlinguer appare meno salda, meno sicura, e non si evitano quei pericoli di arroccamento più volte denunciati. Si comincia a camminare su un terreno nuovo, e le oscillazioni, gli errori, le velleità, indicano la difficoltà di questo passaggio politico. Ma se vogliamo farei conti seriamente con Berlinguer dobbiamo partire da qui, da questa sua intuizione politica, da questo suo tentativo, che non va abbandonato, ma richiede oggi di essere ricostruito con nuova determinazione, con una elaborazione rigorosa, superando ogni residuo di integralismo ideologico. Berlinguer questo compito non è riuscito ad assolverlo, e tutto il gruppo dirigente del partito, posto di fronte al tema dell’alternativa, è apparso esitante, non ha imboccato questa strada nuova con profonda convinzione e con uno sforzo originale di ricerca.
Con la svolta dell’alternativa, la questione del ruolo di governo del PCI non è più affidata a una legittimazione esterna, ma alla sua intrinseca capacità di presentarsi con una identità politica e ideale e con un programma adeguati alle esigenze di rinnovamento della società moderna.
E questo è, anche nella situazione attuale, il problema essenziale del PCI. C’è una questione di alleanze, ma prima c’è una questione di identità del partito. In sostanza, il mancato accesso all’area di governo non ha la sua causa prima nella discriminazione anticomunista, nell’accerchiamento nemico, nella difficoltà di una politica di alleanze, ma dipende anzitutto dal fatto che è ancora debole, incompiuta, la maturazione di una identità politica che legittimi pienamente la candidatura del PCI come forza dirigente. Se non è chiaro questo punto, si oscilla nella ricerca convulsa di alleanze, quali che siano, di coperture, di riconoscimenti esterni, in una logica subalterna. È aperto dunque per il PCI il problema di affermarsi come una forza di governo matura, come un partito che sta, a pieno titolo, dentro la storia e la cultura della sinistra europea. Un partito “riformista”, potremmo dire, se questa espressione non si fosse caricata di troppi equivoci e di troppe manipolazioni. Questo processo non si apre senza un rinnovamento interno, e più precisamente senza una battaglia politica per il rinnovamento. Anche per questa ragione la pratica dell’unanimismo è di impaccio, perché il metodo della mediazione permanente dà forza alle resistenze conservatrici e costringe la vita del partito dentro una logica di continuismo, nella linea politica e nella composizione dei gruppi dirigenti. Per questo sono essenziali quei problemi di riforma democratica della struttura organizzativa di cui abbiamo prima parlato.
Per questo è urgente un rinnovamento della cultura politica. In quale direzione? Io penso che il cuore di un programma di alternativa stia nell’obiettivo di una redistribuzione democratica del potere: nell’economia, nello Stato, nell’ organizzazione della vita collettiva. In questo senso, si tratta di attuare una politica di classe, in quanto appunto le classi si definiscono in rapporto alla struttura del potere.
Occorre dunque un programma democratico rigoroso, che non si perda nelle astrazioni, nelle genericità, nella enunciazione di buoni propositi che sono comuni a tutti i partiti, e che affronti con decisione, con durezza, l’intreccio materiale dei rapporti di potere: occorre un riformismo radicale, aggressivo. E in questo quadro la linea di alternativa al moderatismo democristiano non è una pregiudiziale astratta, ma un corollario del tutto conseguente. Per questo obiettivo, per un obiettivo di governo non neutrale, è essenziale lo sviluppo di forti movimenti sociali, è necessario attivare nella società civile una vasta iniziativa democratica che si proponga di modificare i meccanismi del potere, i rapporti di classe, la costituzione materiale dello Stato.
Colajanni insiste, ormai da tempo, in una polemica aspra contro il “movimentismo”. Continuo a non capirne il senso. Ci possono essere movimenti sbagliati, che lavorano per fini non accettabili, e in questo caso li si combatte. Ma è possibile per il PCI affermarsi come forza di governo senza un rapporto vitale con i movimenti della società? E, in particolare, dove sta oggi nel PCI il pericolo del movimentismo? Per l’esperienza che ho io del partito, vedo prudenza, moderatismo, ecumenismo. Vedo una tendenza a non scegliere, a non scontrarsi, a non misurarsi nel conflitto sociale. Ma un partito che non sceglie, che non vuole avere avversari, pensa forse di essere “egemone”, ma nei fatti rischia di essere inutile. E questa impressione di inutilità in effetti è stata data, quando su questioni che hanno appassionato e diviso l’opinione pubblica, come sul fisco o sull’energia nucleare, il partito si è collocato in una posizione intermedia, che pretendeva di tener conto delle diverse ragioni contrapposte.
Tra i movimenti sta in primo piano, ovviamente, il movimento sindacale. E qui troviamo un punto decisivo su cui si misura l’atteggiamento politico del PCI e la sua capacità di un rapporto “aperto” con la società. In discussione è l’idea del “primato della politica”, che si traduce praticamente in una linea di intolleranza per le diversità, per l’autonomia reale dei movimenti. Per questo io considero sbagliata tutta la polemica sul cosiddetto pansindacalismo, sul tentativo cioè del sindacato di essere non solo strumento di tutela sociale nel rapporto di lavoro, ma anche soggetto politico che vuole pesare nelle scelte generali di politica economica. I problemi dell’autonomia e dell’unità del sindacato sono un metro di misura, un indice significativo della capacità del partito di affermare in modo nuovo, adeguato alla complessità della struttura sociale, il proprio ruolo dirigente.
Su questo punto insiste, a ragione, il compagno Lama, che ha difeso in condizioni difficili, e in un rapporto spesso conflittuale con il partito, le ragioni dell’autonomia del sindacato. Il pericolo, dunque, non è il movimentismo, ma la pretesa burocratica di ricondurre tutte le diverse espressioni della società dentro un modello partitico, dentro un “primato” astratto della politica che è oggi rifiutato dalla coscienza civile del paese. E, a sua volta, la politica deve avere capacità di movimento, di iniziativa, deve cioè mettere in movimento dei processi, spostare forze reali, scalzare la forza di inerzia del blocco conservatore dominante.
Il PSI, a modo suo, ha tentato di dinamizzare la propria azione politica. Non è solo immagine, non è solo politica-spettacolo, ma un tentativo di rimettere in discussione vecchie centralità, vecchie egemonie. Il PSI può avere un suo ruolo efficace nella predisposizione di nuovi scenari politici, e lo ha in quanto consolida una sua autonomia. Non credo che l’alternativa al settarismo sia la riproposizione di un obiettivo di unificazione della sinistra, perché mi sembra insopprimibile, almeno nel medio periodo, l’articolazione delle forze politiche, ciascuna delle quali gioca le sue carte e rappresenta sensibilità e culture diverse. Questo riconoscimento di autonomia, di legittimità ad una linea di ricerca quale è quella del PSI, può consentire al PCI una politica davvero coerentemente unitaria, e insieme un atteggiamento non subalterno. Il “partito nuovo della sinistra” di cui parla Colajanni può essere già oggi costruito, può essere da subito un terreno nuovo di ricerca, di sperimentazione, per un PCI che voglia fare i conti con se stesso e ritrovare interna forza di convincimento, fiducia nel proprio ruolo. Non dobbiamo aspettare i tempi improbabili della riunificazione. Possiamo lavorare lungo la linea dell’alternativa, dando ad essa sostanza, contenuti, elaborazione culturale e programmatica, e traducendola concretamente in una iniziativa che spinga in avanti tutti i rapporti politici. Con fermezza, con tenacia, senza tatticismi che possono dare solo l’illusione di rientrare nel gioco politico. I tempi dell’alternativa possono anche essere lunghi, ma è urgente avviare la costruzione di un partito che sia all’altezza di questo obiettivo. Io credo che, nonostante tutte le difficoltà e nonostante la pesantezza delle resistenze burocratiche tuttora operanti, questa battaglia non sia persa.
Busta: 8
Estremi cronologici: 1987, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Micromega”, giugno 1987, pp.51-60. Ripubblicato in “La pazienza e l'ironia” col titolo “L'eredità di Berlinguer”, pp. 63-72