PRESENTAZIONE A “VITA ATTIVA?”

I “giovani anziani” fra insicurezza e partecipazione. Dieci anni di ricerche Ires

Questo volume è la testimonianza dell’intensa collaborazione che si è instaurata, ormai da molti anni, tra lo SPI e il gruppo di ricercatori dell’IRES-CGIL che si occupano di politiche sociali e di welfare.

Non è mia intenzione commentare i contenuti specifici di queste ricerche, che offrono un quadro sufficientemente chiaro e documentato e non richiedono un ulteriore lavoro interpretativo.

Può invece essere utile risalire alle motivazioni politiche e culturali che stanno all’origine di questa attività di ricerca, alle ragioni di fondo che hanno portato lo SPI a individuare nel tema dell’invecchiamento attivo un nodo cruciale e strategico intorno al quale si gioca la qualità dell’intero modello sociale.

La fortissima accelerazione di tutti gli andamenti demografici, negli ultimi anni, ha dato luogo ad una composizione sociale qualitativamente nuova e a problemi del tutto inediti, i quali investono la condizione esistenziale e le forme della cittadinanza per quella massa crescente di persone che vede aprirsi davanti a sé una lunga aspettativa di vita, e che nel contempo fatica a riempire di senso questa medesima aspettativa.

È la più grande trasformazione sociale in atto, accanto a quella dell’immigrazione, e in entrambi i casi il problema da risolvere è quello della realizzazione di una piena cittadinanza, di un riconoscimento della persona come soggetto titolare di diritti e di doveri.

La politica, nelle sue diverse espressioni, ha del tutto sottovalutato la portata di questi cambiamenti, e tende a considerare l’immigrazione come un capitolo delle politiche di ordine pubblico, e

dell’invecchiamento come un capitolo delle politiche di assistenza. È un approccio fallimentare, perché le persone divengono l’oggetto passivo di qualche pratica burocratica o di qualche elaborazione statistica, e si perde la concretezza del vissuto individuale. Le contraddizioni sociali finiscono così per essere esasperate.

Mancando una politica di integrazione, all’immigrazione si risponde solo con una linea repressiva, che si rivela inevitabilmente impotente, oltreché ingiusta e persecutoria, perché si affronta su un piano meramente amministrativo e burocratico quello che è un grande processo storico, destinato ad incidere sempre più profondamente nella nostra vita sociale, e che richiede perciò un’azione di governo di tipo strategico. Nel caso dell’invecchiamento, le politiche assistenziali sono solo un aspetto del problema, e falliscono se non si mettono in moto tutte le risorse sociali disponibili (volontariato, famiglia, forme di auto-organizzazione sociale, istituzioni locali) per creare una efficace rete di solidarietà.

Occorre quindi, anche in questo campo, una strategia politica complessa. Per questo insistiamo sull’elemento “attivo”, e pensiamo che proprio qui sta il discrimine fondamentale tra un invecchiamento solo subito, eterodiretto, regolato dall’esterno, e, all’inverso, un possibile prospettiva di autonomia e di realizzazione di sé.

E l’autonomia del fare e del progettare che segna il confine tra vita e non-vita. E ciò vale anche nei momenti estremi in cui si decide del nostro rapporto con la morte.

Proprio perché è messo in gioco, in termini ultimativi, il nostro destino, è solo la coscienza soggettiva che può prendere una decisione, ed è una vera barbarie etica e giuridica l’idea che siano altri lo Stato, la scienza, la Chiesa – ad intromettersi in questo ultimo passaggio.

Invecchiamento attivo vuol dire, quindi, mettere l’accento sulla persona, sulla sua autonomia, sulla sua capacità di elaborare liberamente il suo progetto di vita. Se ciò che deve essere attivato è l’autonomia personale, dovrebbe allora essere chiaro che le forme di questa “vita attiva” possono essere le più diverse e che si tratta di garantire il massimo di flessibilità e di pluralismo, perché diverse sono le traiettorie esistenziali, e su ciascuna di esse incidono diversamente l’esperienza lavorativa, la condizione familiare, la salute, le inclinazioni soggettive.

Non ci può essere un unico schema, un unico modello. Anche in questo caso, non è accettabile una legislazione invasiva e prescrittiva, che scandisca rigidamente i tempi del lavoro e della vita.

Per questa ragione, siamo stati contrari alle varie ipotesi di “servizio civile” degli anziani, come se si trattasse di irreggimentare dentro un unico modello istituzionale tutte le molteplici risorse che si possono esprimere nell’età matura.

Il principio di eguaglianza, che è il cardine fondamentale della nostra Costituzione, non è un principio di uniformità, ma è l’eguale diritto ad essere diversi, è il riconoscimento della dignità della persona nell’autonomia delle sue scelte di vita. Ma è proprio qui, su questo punto essenziale, che è in atto una manovra di svuotamento della Costituzione, nel momento in cui i diritti individuali vengono subordinati all’appartenenza ad una comunità, che ha propri valori e propri principi etici, con la conseguenza che non è più la persona il centro dell’ordinamento.

E naturalmente le prime vittime di questa concezione “comunitaria” sono gli stranieri, senza diritti in quanto estranei alla comunità. Ma, più in generale, nel momento in cui la comunità diviene il fondamento della mia identità personale, finisco inevitabilmente per essere schiacciato in un meccanismo di tipo autoritario. Basti qui richiamare il tema della famiglia, che si pretende di fissare in un’unica possibile forma, lasciando fuori dal diritto tutto ciò che si discosta da quel modello. E tutto il dibattito intorno ai temi “eticamente sensibili” è viziato in partenza dall’idea che ci debba essere una morale di Stato, ovvero un determinato sistema di principi, che si fa valere non nel confronto democratico, ma con la forza della legge.

Ho un po’ allargato il discorso, ma questo richiamo ai fondamenti costituzionali può servire a meglio inquadrare il nostro problema. Ora, tutto il dibattito pubblico sull’invecchiamento si è concentrato solo su un punto, quello dell’età pensionabile, e tutto il ragionamento si riduce all’apparente ovvietà che l’aumento delle aspettative di vita comporta, di conseguenza, un allungamento dell’età lavorativa.

Ciò che non convince è il meccanicismo di questa impostazione, la quale prescinde totalmente dalla necessaria analisi differenziata del complesso contesto sociale che condiziona il passaggio dal lavoro alla pensione.

Se è un obiettivo ragionevole quello di aumentare il tasso di attività delle persone anziane, esso richiede una complessa strumentazione politica, e non funziona la pretesa di imporre la medesima soluzione per situazioni che sono tra loro estremamente differenziate. Occorre anzitutto distinguere le diverse tipologie di lavoro, a partire dalla fondamentale distinzione di lavoro manuale e lavoro intellettuale.

È il noto problema dei “lavori usuranti”, che è ancora in attesa di una soluzione. Occorre inoltre dare una risposta a tutte quelle numerose situazioni in cui si perde il lavoro senza avere ancora maturato il diritto alla pensione.

C’è infatti questa stridente contraddizione: tutti gli esperti pontificano sulla necessità di alzare l’età del pensionamento, ma nella realtà per il sistema delle imprese un lavoratore cinquantenne è già un peso morto di cui liberarsi. Ma di questa contraddizione nessuno sembra preoccuparsi, come se si trattasse di un marginale costo sociale a cui dobbiamo rassegnarci.

In una fase di crisi, quale quella che stiamo attraversando, questo aspetto del problema può divenire ancora più drammatico e insostenibile. L’effetto di un innalzamento forzoso dell’età pensionabile, in assenza di una più complessiva regolazione del mercato del lavoro, sarebbe quindi l’opposto del risultato atteso, perché aumenterebbe non il lavoro, ma la disoccupazione.

Intervengono poi numerosi altri fattori di differenziazione: le condizioni di salute, la situazione familiare, in particolare per le donne su cui si scarica tutto il peso del lavoro di cura, il carattere gratificante o ripetitivo del lavoro, i diversi livelli di professionalità e di conoscenza. L’unica soluzione ragionevole appare quindi quella di una grande flessibilità, per rispondere in modo differenziato alle diverse situazioni personali, con meccanismi non di imposizione, ma di incentivazione, e anche con l’introduzione di una forma di pensionamento parziale, che avrebbe il grande vantaggio della gradualità, evitando il traluna esistenziale di un brusco passaggio da una vita scandita dai ritmi del lavoro ad una vita che appare vuota e che deve essere del tutto reinventata.

Un altro aspetto decisivo è quello della formazione permanente, per mettere in grado le persone, lavoratori o no, di disporre di tutte le conoscenze necessarie e di tenere il ritmo di una società in rapida evoluzione. Le diseguaglianze sociali sono sempre più strettamente intrecciate con il divario del patrimonio culturale, e nella dura partita della competizione sociale è il sapere l’elemento discriminante.

È evidente, d’altra parte, il nesso tra autonomia personale e conoscenza, tra il “fare” della vita attiva e il “saper fare”. Il concetto di vita attiva trascende la dimensione del lavoro organizzato, e il suo significato si fa ancora più stringente nella vita che si apre dopo il lavoro, quando si tratta di scansare le trappole dell’invecchiamento: la passività, la solitudine, la marginalità, l’essere soverchiati dal passato e incapaci di futuro.

Il momento del pensionamento rappresenta quindi un difficile crocevia esistenziale, che può dare luogo ad esiti del tutto opposti, e ciò dipende dal “capitale sociale” di cui ciascuno dispone, dall’insieme di conoscenze, di relazioni, di interessi, di motivazioni. Si può costruire un nuovo progetto di vita, o ci si può adagiare in una quotidianità priva di senso.

Questo interessa in modo particolare lo SPI, questo sindacato atipico, che cerca di inventare una rappresentanza di tipo nuovo, fondata non sul lavoro, ma sulla cittadinanza. La scommessa dello SPI sta nell’idea che le persone esprimono non solo una domanda di protezione economica, ma anche una domanda di senso, di identità, di relazioni, soprattutto nel momento in cui, con l’invecchiamento, devono reinventare la loro vita. Fare rappresentanza, per questa fascia sociale, vuol dire offrire alle persone gli strumenti (conoscenze, relazioni, luoghi di socializzazione) per l’esercizio della cittadinanza e per progettare in autonomia il proprio futuro. L’aspetto economico continua ad essere, ovviamente, un elemento importante, che condiziona la complessiva qualità della vita, ma è solo uno dei fattori, e non può essere visto in modo isolato.

Questo spostamento dal lavoro alla cittadinanza vale solo per gli anziani, o non ha anche una valenza più generale?

A me sembra plausibile la tesi che anche per i lavoratori l’identità sociale non sta tutta racchiusa nel lavoro, ma investe altre sfere di vita. In questa direzione spinge tutta la grande trasformazione delle nostre società, verso identità più complesse e plurali, e verso una scomposizione dei tradizionali blocchi sociali. L’esito è quello di una società più frammentata e individualizzata, dove le linee del conflitto sono meno rigidamente tracciate, non nel senso di un superamento del conflitto, ma di una sua dispersione, di una sua diffusione nel territorio. Ne consegue che anche il sindacato deve allargare i suoi spazi di azione, senza farsi confinare nella sola dimensione lavoristica che rischia di alimentare una pratica di tipo corporativo. È necessario vedere il lavoro nell’insieme delle sue connessioni sociali, e quindi considerare e rappresentare il lavoratore nella pienezza della sua esperienza, come il titolare di una complessiva cittadinanza, nel lavoro e oltre il lavoro.

C’è un segnale di allarme che deve essere colto, là dove, soprattutto nel Nord industriale, la sindacalizzazione dei lavoratori convive con il voto alla destra, in particolare alla Lega. Si tratta di una normale distinzione tra sfera sociale e sfera politica, o non c’è qui una contraddizione che ci chiama in causa? Non mi convince la formula: a ciascuno il suo mestiere, l’idea cioè che il sociale e il politico siano due mondi separati, che si organizzano secondo logiche del tutto differenti.

Quando queste due logiche confliggono, accade infine che una delle due posizioni si affermi come egemone e riduca l’altra ad un molo subalterno. E un sindacato che non riesce a fare egemonia culturale è destinato, prima o poi, ad una posizione di sudditanza. Si può allora dire che il sindacato è efficace nel luogo di lavoro, ma non nella vita sociale esterna al lavoro, che offre tutela, ma non offre identità. Ecco che allora il tema della cittadinanza attiva assume una dimensione assai più ampia, in quanto non si tratta solo dell’impegno civile degli anziani, ma della vitalità democratica dell’intera società italiana.

I problemi dell’invecchiamento vanno inquadrati in questa visione più larga, non sono cioè problemi settoriali, ma sono un capitolo della democrazia politica, e si tratta allora di predisporre le forme e gli strumenti di una democrazia partecipata. Ma è proprio questa valenza politica generale che normalmente non viene colta, viene anzi negata, scegliendo un approccio solo assistenziale o paternalistico.

Mentre con il Governo Prodi era iniziato, sia pure faticosamente, un confronto sull’insieme del sistema previdenziale e sulla necessità di realizzare gradualmente una rivalutazione del potere di acquisto delle pensioni, ora si è tornati all’elargizione caritatevole per i più bisognosi.

Oppure accade, come nell’evoluta Lombardia, che non si sa inventare nulla di meglio della “festa del nonno”, dove l’anziano è rappresentato solo come folclore locale, come il protagonista di qualche festa paesana, dopo di che torna nel suo inevitabile oblio.

Sono molti i segni di questo paternalismo, di questo rapportarsi all’anziano non alla pari, in uno scambio tra persone, ma con quella stessa familiarità che si usa verso i bambini, assimilando così le due diverse condizioni, non essere ancora o non essere più persone. Diventa allora una regola, anche nelle strutture pubbliche, rivolgersi all’anziano con il “tu”, con un rapporto che sembra di benevolenza, ma è in realtà di dominio.

La nostra è quindi una battaglia di civiltà, per il pieno riconoscimento dei diritti della persona, nelle diverse fasi della vita, ed è una battaglia di democrazia, per la creazione di uno spazio pubblico al quale tutti possano egualmente partecipare e concorrere alle decisioni, con il confronto delle idee, in uno scambio libero e responsabile. L’attività sociale degli anziani ha questo senso, come un momento della vita democratica. Ma ciò vale per tutte le diverse forme di impegno civile, di associazionismo, di volontariato, che hanno bisogno non solo di un riconoscimento, ma di entrare nel circuito delle decisioni politiche, della democrazia organizzata, concorrendo così a rinnovare la politica e a capovolgere la sua attuale struttura verticistica e oligarchica.

In questa azione di democratizzazione della vita pubblica, non c’è conflitto generazionale, c’è anzi una possibile alleanza tra le generazioni, perché il meccanismo politico e sociale che tende ad emarginare gli anziani è lo stesso che produce precarizzazione e incertezza di vita per i giovani.

La tesi del conflitto è solo un artificio della politica conservatrice, per dare un colpo agli uni e agli altri.

Nella prospettiva di una società a competizione totale, le persone devono essere piegate alle necessità del mercato, e la loro flessibilità consiste in una definitiva perdita di autonomia, perché i tempi e gli spazi della vita sono decisi da forze esterne.

Giovani e anziani son accumunati in questa condizione di fragilità.

Si tratta allora di ripensare il modello sociale, per organizzare su diverse basi la nostra comune convivenza, e per realizzare quegli obiettivi di eguaglianza e di inclusione sociale che sono a fondamento della nostra Costituzione.



Numero progressivo: E18
Busta: 5
Estremi cronologici: 2009, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine volume
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Fotocopia pagine del volume.
Pubblicazione: Maria Luisa Mirabile (a cura di), “Vita attiva? I giovani anziani fra insicurezza e partecipazione. Dieci anni di ricerche Ires”, Ediesse, Roma, 2009, pp. 9-15