CLAUDIO SABATTINI E L’AUTONOMIA DEL SOGGETTO SOCIALE
Prefazione di Riccardo Terzi a “Claudio Sabattini. Autonomia sociale, conflitto, democrazia”, raccolta di scritti da lui curata.
1) Claudio Sabattini è una figura del tutto singolare nella storia del sindacalismo italiano, fuori dagli schemi usuali, avendo giocato tutta la sua esperienza sul difficile crinale di una critica dall’interno e di una continua tensione per spostare gli equilibri e per aprire nuove prospettive. Si può dire che il suo tratto saliente è quello della radicalità, nel senso proprio del termine, in quanto ha sempre cercato di afferrare le questioni nella loro radice, tirandone tutte le conseguenze necessarie.
Proprio per questo, ha lasciato una eredità complessa, difficile da gestire e da interpretare, e così c’è tutto un deposito di incomprensioni, di pregiudizi e di semplificazioni di cui dobbiamo liberarci, e questa pubblicazione forse può servire a restituirci la ricchezza e l’attualità del suo pensiero. Non è mia intenzione proporre una interpretazione apologetica, sia perché ho una naturale avversione per ogni forma di retorica, sia soprattutto perché non si può capire Sabattini se non come il testimone di un passaggio d’epoca, che ha cercato nel groviglio delle nuove contraddizioni sociali e politiche di individuare un cammino possibile, lungo una via non sempre rettilinea, ma fatta di tentativi, di svolte, anche di errori e di sconfitte. Non lo si può rinchiudere in una formula, in una posizione ossificata, perché c’è sempre un movimento, una ricerca, che rompe con tutte le posizioni precostituite, c’è insomma un pensiero mobile ed elastico, e in ciò consiste, a ben guardare, la qualità essenziale di un dirigente.
L’elasticità del pensiero sta nel saper cogliere tutta la complessità del reale e il suo interno movimento, senza mai fissarsi su singole verità parziali, e questo senso di apertura non va affatto confuso con quella forma di realismo pragmatico che consiste in una pratica di continuo adattamento al mutare delle circostanze e dei rapporti di forza, perché in questo caso non è il pensiero che domina la realtà, ma è la realtà stessa che predetermina ciò che è possibile pensare. È questo il rischio a cui è particolarmente esposto il lavoro del sindacalista, preso dall’ansia di stare comunque dentro i processi reali e di essere riconosciuto come un interlocutore. I processi materiali, che cambiano le forme del lavoro e della convivenza sociale, vanno indagati a fondo, interpretati, per trovare il modo di far valere, dentro la loro materialità, le ragioni profonde dell’autonomia del soggetto sociale, e questo principio dell’autonomia è, a me pare, la bussola che ha orientato, in tutti i passaggi, l’azione sindacale di Sabattini. È su questo tema che intendo soffermarmi in modo particolare, con uno sguardo che non sia solo retrospettivo, ma cogliendone tutta la sua drammatica attualità.
E, in generale, io vorrei parlare di Claudio Sabattini nel tempo presente, senza consegnarlo alla storia, e sento che fare i conti con lui vuoi dire misurarsi con alcuni grandi nodi strategici del nostro tempo attuale. Devo dire, per onestà intellettuale, che la mia non può essere una posizione del tutto oggettiva e distaccata, perché fin dai tempi lontani della FGCI degli anni ‘60 c’è stata tra me e Claudio una intensa amicizia. Ma l’amicizia non è, come qualcuno banalmente ritiene, la totale consonanza del pensiero e dello stile di vita, ma è piuttosto, così almeno io l’ho sempre intesa, lo scambio, il confronto, la disponibilità a mettersi in discussione nel rapporto con l’altro. A che serve un amico se è solo un replicante? Forse può servire nella lotta politica poter disporre di una cerchia di discepoli fedeli, ma il rapporto di amicizia sfugge per fortuna alle regole e alle necessità della politica.
Posso quindi presumere che il mio coinvolgimento emotivo, che mi ha fatto accogliere con slancio l’idea di questa pubblicazione, non sia di per sé un impaccio, un ostacolo a trattare con il necessario spirito critico i temi che saranno l’oggetto della nostra ricerca. Questo libro non è altro che la continuazione di un dialogo, a più voci, con il contributo di persone che a diverso titolo e con diversi orientamenti hanno incrociato la loro esperienza con quella di Sabattini, ed è solo da questa pluralità di voci che può uscire una rappresentazione adeguata della storia che insieme abbiamo attraversato.
2) Ho già detto che la mia idea è quella di parlare dell’oggi, e quindi di vedere in Claudio Sabattini tutto ciò che è ancora vivo e attuale. Ma forse è utile dare prima uno sguardo alla sua formazione politica. Le radici sono note: sono quelle del PCI togliattiano, grande partito di massa con un forte radicamento non solo nel mondo del lavoro, ma in tutto il tessuto sociale. Quando per la prima volta incontro Claudio, è il segretario dei giovani comunisti emiliani, e quindi gli è del tutto chiara la dimensione di massa della politica, di cui all’opposto io avevo scarsissima dimestichezza, essendo cresciuto a Bergamo, dove lo stesso PCI non poteva che essere un partito a vocazione minoritaria, nel mezzo di una società del tutto dominata dalle istituzioni cattoliche. Ma per nostra fortuna Veltroni non aveva ancora cominciato a pontificare, e quella piccola minoranza ha saputo esprimere anche straordinarie energie culturali. È da allora che ho sempre sentito un movimento di simpatia per le battaglie di minoranza.
In contesti politici così diversi, vi era comunque in entrambi l’idea di un rinnovamento necessario, oltre i rituali ormai stanchi di una ortodossia tradizionale, e rinnovare non significava affatto la retorica del nuovismo, oggi di moda, ma la riscoperta e la riattualizzazione delle radici sociali, per dare un senso concreto al carattere “di classe” del partito. Il rapporto con la classe era infatti mediato dall’ideologia, e finiva per essere più un’affermazione di principio che una pratica reale. Il passaggio all’impegno sindacale è quindi uno sviluppo logico di quella posizione. Lo abbiamo fatto in tempi diversi, e con diverse modalità e motivazioni. Ma questo resta, nella nostra biografia, il passaggio essenziale. Mentre l’ordinario cursus honorum va dal sociale al politico, fare la scelta opposta ha un significato di rottura, di critica, e indica una diversa scala di priorità. C’è insomma l’idea contro corrente che il sociale non è una sfera inferiore e parziale, ma è il centro nevralgico che dà un senso a tutta la politica della sinistra. Non siamo diventati sindacalisti per modestia, ma per ambizione.
Non è, sia chiaro, il rifiuto della dimensione politica, ma piuttosto l’idea che la politica resta sospesa nel vuoto e diviene infine irrilevante se non sta ben piantata nella realtà sociale e nei suoi conflitti. Non può bastare la copertura ideologica, che spesso agisce solo come un alibi a protezione dell’autorità e della stabilità dei gruppi dirigenti. E nel PCI già in quegli anni, dopo la morte di Togliatti, le ragioni della politica e le ragioni del sociale cominciano ad essere dissociate. Comincia allora la retorica delle larghe intese, di cui vediamo ora l’epilogo più miserevole. Ecco che allora l’idea dell’autonomia del sociale diviene un’arma politica per tenere in movimento tutta la situazione e per impedire la sua stabilizzazione moderata. La politica ha sempre la vocazione a mettere fuori gioco il conflitto sociale, e a ciò il sociale reagisce mettendo sempre in discussione gli equilibri politici e rifiutando di stare dentro i vincoli della governabilità. È questa dialettica che attraversa tutta la storia della sinistra italiana, sempre in bilico tra le due opposte polarità della funzione di governo e della funzione di rappresentanza.
Sabattini mi ha più volte raccontato l’incontro tesissimo a Botteghe Oscure, con Berlinguer segretario, in occasione della manifestazione unitaria dei metalmeccanici, vista come un atto eversivo e di rottura nel momento in cui il partito era impegnato a consolidare la sua funzione di governo. Era il “primato della politica”, a cui tutto il resto doveva essere subordinato. Quando arriva la “svolta” di Occhetto, i nostri giudizi divergono abbastanza radicalmente. Per Claudio, che aveva ben presenti le rigidità burocratiche e il moderatismo reale del vecchio PCI, poteva essere un’occasione di rinnovamento e l’avvio di una stagione più creativa, mentre la mia posizione, a ragione o a torto, era molto più diffidente e conservatrice, vedendo in quell’atto non l’inizio di una liberazione, ma di un dissolvimento dell’identità storica della sinistra. L’orizzonte culturale entro cui si muoveva Claudio Sabattini era quello delle grandi correnti socialiste europee, dove era chiaro l’ancoraggio sociale della politica e il rapporto di interdipendenza tra politica e sindacato. Il suo sostegno alla “svolta” credo si possa spiegare così, non solo per i suoi rapporti di amicizia con Achille Occhetto, ma per la speranza, poi andata delusa, di un’apertura del partito verso una visione più larga e meno rigidamente ideologica della sua missione sociale.
È il legame tra politica e società ciò che resta decisivo. E quando questo legame si spezza, e il lavoro non ha più una rappresentanza politica, la riflessione di Sabattini si fa disperata, fino al punto di tentare l’impresa del tutto velleitaria della costruzione di un nuovo “partito del lavoro”. Il fatto è che le strade della politica e del sociale si sono ormai divaricate, e non è affatto chiaro se sia ancora possibile ricostruire una relazione. Ci troviamo tutti nel mezzo di questo sconvolgimento delle identità e dei significati, per cui la stessa parola “sinistra” non sta più a significare la centralità del lavoro, e non rappresenta un blocco sociale, ma ha spostato il suo centro di gravitazione sul terreno giuridico e culturale: legalità, diritti civili, laicità. E con ciò cambia radicalmente la composizione sociale delle forze di sinistra, lasciando così scoperto tutto il territorio delle nuove povertà e delle nuove forme di sfruttamento. È in questo nuovo contesto che prendono forza le pulsioni del populismo, perché c’è un mondo sociale senza voce e senza rappresentanza. È tutta la configurazione storica del “partito di classe”, a noi così caro, che si decompone e cede il passo a nuove forme, a nuove costellazioni della politica. Al legame sociale subentra l’immagine, il messaggio mediatico, la suggestione, e soprattutto l’investimento emotivo sulla figura del leader, non più come il rappresentante di una esperienza collettiva, ma come il demiurgo a cui ci si affida passivamente.
A questo punto della nostra evoluzione, non credo che ci si possa attendere dalla politica un sostanziale cambio di passo. Tutto mi sembra spingere verso una definitiva accelerazione del processo in corso, con un prossimo scenario dove la competizione non è di programmi sociali, ma di leadership, e dove il decisionismo politico prosciuga le risorse della partecipazione democratica.
Penso quindi che spetti alle organizzazioni sociali, nella loro totale autonomia, costituirsi come potenza politica e sviluppare con forza un’azione di pressione, di critica, e di sfida progettuale, nei confronti del sistema politico preso nel suo complesso, senza rapporti privilegiati e senza collateralismi. Aveva del tutto ragione Pierre Camiti a proporre il sindacato come “soggetto politico”. Lo spazio per un’azione di massa non sta più nel circuito dei partiti politici, reali o immaginari, ma nella vasta costellazione delle organizzazioni sociali e dei movimenti. I partiti dovranno ridefinire se stessi e il loro ruolo, ma non potranno tornare ad essere quello che sono stati. Una nuova stagione democratica si può aprire solo con il concorso di diverse forze, di diversi soggetti, e i partiti possono essere non il canale esclusivo, ma i promotori e i regolatori di un processo democratico allargato.
Nonostante tutto ciò, resta vero che la dimensione di massa è la condizione necessaria per qualsiasi azione che possa dirsi di sinistra, perché sinistra è esattamente questo, la democratizzazione di tutte le strutture di potere. E il sindacato, oggi più che nel passato, ha la responsabilità di tenere aperto il canale di una partecipazione di massa alla vita democratica. Ciò era ben chiaro a Claudio Sabattini, che non è mai stato tentato dalle avventure minoritarie, ma ha voluto essere a pieno titolo un dirigente della CGIL, con una sua autonomia di pensiero, con una sua posizione critica, ma senza mai spezzare il filo della comune appartenenza e della responsabilità collettiva.
Credo che sia giusto ricordare questa sua fedeltà di fondo all’organizzazione, fino ad accettare, negli ultimi anni della sua vita, una posizione marginale, nella FIOM siciliana. Era anche un modo per dire: un dirigente deve essere anche disposto a ripartire dal basso, a stare in prima linea, perché sono del tutto false le nostre presunte logiche gerarchiche, e ciò che conta è solo l’energia che si mette nel lavoro, là dove siamo chiamati a svolgerlo, e il rapporto vivente che riusciamo a costruire con i lavoratori. Non era un atto di umiltà, né di arroganza, ma un modo per restare fedele a se stesso.
3) Nella formazione di un dirigente comunista era sempre essenziale la capacità di inquadrare i singoli problemi nel contesto internazionale. L’internazionalismo non era solo un moto di solidarietà, ma era la struttura fondamentale del proprio pensiero e della propria analisi, perché solo così si può cogliere la dinamica reale delle forze in campo. Mi pare essere ancora oggi una essenziale lezione di metodo. Non basta infatti ripetere all’infinito che siamo entrati nell’epoca della globalizzazione e dell’interdipendenza, perché sono tutte da scoprire e da interpretare le relazioni concrete che si vanno organizzando sul terreno economico, politico, militare, culturale. La globalizzazione non produce solo processi di omologazione, ma anche rotture, discontinuità, conflitti, ed è del tutto falsa l’immagine ottimistica ed irenica di un mondo ormai integrato e unificato.
Sabattini ha fatto un’importante esperienza, come responsabile dell’ufficio internazionale della CGIL, dal 1986 al 1989, e sono gli anni di una grande vitalità nelle relazioni con le diverse organizzazioni sindacali in Europa e nel mondo. Forse questo aspetto del suo lavoro meriterebbe uno studio specifico e approfondito. Io mi limito qui a segnalare come nella sua formazione politica sia stata sempre presente la capacità di pensare, come era nell’antico costume comunista, in termini globali, perché è a questo livello che si può vincere o perdere la partita, e se non c’è una strategia internazionale siamo sicuramente avviati ad un destino di irrilevanza e di impotenza. Anche il sindacato è in grave ritardo, non essendosi ancora costituito come una effettiva potenza organizzata, capace di incidere nella dimensione globale. Non si va oltre un debole coordinamento delle politiche nazionali. Partendo da queste premesse, Sabattini ha guardato con grandissimo interesse al quel composito movimento di associazioni e di gruppi che si sono dedicati allo studio e alla critica della globalizzazione e delle istituzioni che la governano. Per la prima volta la dimensione internazionale entrava nel dibattito di massa, e si andava formando una nuova generazione politica, non più impantanata nel piccolo cabotaggio della politica corrente, ma con questo sguardo aperto sul mondo. Penso anch’io che la sinistra abbia perso l’occasione di entrare in una relazione forte con questo movimento, e ciò ha contributo ad un suo progressivo sfilacciamento.
La partecipazione della FIOM al Forum di Genova, fortemente voluta da Sabattini, anche in disaccordo con la CGIL, si fonda su questo convincimento politico, che c’è un nuovo campo di azione che si è aperto, e che non possiamo lasciarlo nelle mani di qualche agitatore o di qualche gruppo estremista. Nel frattempo, molte cose nuove si sono prodotte in varie parti del mondo, dalla Spagna alla Grecia, dai Paesi arabi agli stessi Stati Uniti d’America, e sempre più appare chiaro che il teatro della politica si è dilatato, fino ad occupare l’intera scena internazionale. E cominciano ad apparire i segni di un movimento di opinione che si colloca a questo livello, sottoponendo a critica le strategie finanziarie, politiche e militari su cui è costruito il nostro attuale e precario equilibrio. Ciò che colpisce è il silenzio della politica ufficiale, che continua a riprodurre i suoi riti e la sua ristrettezza provinciale. Non si vuoi capire che essere forza di governo, in questo mondo che è entrato in ebollizione, significa saper dare risposte a quelle domande, e saper progettare nuove istituzioni e nuove forme di partecipazione democratica, riportando la politica nel cuore dei processi reali, senza più subire il dogma autoritario dell’ortodossia liberista.
4) Se devo individuare un’idea centrale e dominante nel pensiero di Sabattini, a cui tutto il resto si ricollega, direi senz’altro che si tratta dell’autonomia del soggetto sociale. Il fatto di ricondurre il tutto ad un centro nevralgico non è affatto una negazione della complessità, ma sta piuttosto a significare che la complessità non è dispersa, frammentaria, ma è organizzata dentro una struttura. D’altra parte, i grandi pensatori non sono gli eclettici, ma sono quelli che intorno ad un’idea centrale hanno saputo riorganizzare tutta la visione del mondo.
Viene spesso ricordata la formula della “indipendenza” del sindacato, proposta da Sabattini al Congresso nazionale della FIOM del 1996. Si scatenò allora una polemica piuttosto assurda e incomprensibile, con un durissimo braccio di ferro tra la FIOM e la CGIL di Cofferati, come se i due concetti di autonomia e di indipendenza fossero incompatibili e rimandassero a due opposte linee strategiche. Sembrava di assistere a quelle complicatissime discussioni teologiche che mettevano a rischio l’unità della Chiesa. Sabattini parla di “indipendenza”, perché la ritiene una parola più impegnativa rispetto alla formula più tradizionale dell’autonomia. Si può discutere, e io personalmente sono dell’opinione opposta, che indipendenza è solo l’assenza di vincoli esterni, mentre autonomia vuoi dire avere una propria capacità di progetto. Ne sanno qualcosa i paesi ex coloniali, che hanno ottenuto l’indipendenza, ma sono ancora lontani dal raggiungere il traguardo dell’autonomia. Ma si tratta, fin qui, solo di una diversa sensibilità linguistica, volendo dire in sostanza la medesima cosa. Ma allora, che cosa si temeva, che cosa spaventava in quella dichiarazione di indipendenza? Io credo che la discussione, non esplicitata e non chiarita, si svolgesse su un altro terreno, il quale riguardava il rapporto democratico del sindacato con i lavoratori.
Per Sabattini, infatti, l’indipendenza, o autonomia, del sindacato ha come suo esclusivo fondamento la libera soggettività del mondo del lavoro. L’autonomia non è una proprietà dell’organizzazione, ma ha la sua radice nel soggetto sociale, e il sindacato è autonomo solo in quanto riesce a rappresentare senza filtri burocratici questa originaria soggettività del lavoro. Questo forse può spiegare quella polemica, perché, al di là delle parole, veniva messo in discussione il primato burocratico dell’organizzazione e la funzione di comando dei suoi gruppi dirigenti. E questo è tuttora il nodo strategico che il sindacato non ha saputo risolvere.
Intendiamoci, la questione non può essere banalizzata o semplificata oltre misura. Sono sempre necessari i due lati, la direzione e la spontaneità, l’istituzione e il movimento. Ma il rapporto tra questi due termini cambia storicamente, e non può più funzionare oggi, in una società individualizzata, una linea paternalistico-autoritaria, perché solo una pratica partecipativa può riuscire ad incanalare e ad organizzare le nuove domande sociali. L’accento sulla soggettività, sulla libera determinazione dei soggetti, è reso sempre più necessario da tutto il processo di modernizzazione, e quindi in quella disputa teologica era Sabattini a cogliere con più lucidità i “segni dei tempi”, e la necessità quindi per il sindacato di rinnovare, su nuove basi, il suo patto di solidarietà con i lavoratori. Ciò che finisce è lo spirito di appartenenza, è l’identificazione ideologica con l’organizzazione, e quindi la funzione di rappresentanza non è data a priori, ma deve essere quotidianamente riconquistata.
Ora, tutto ciò merita di essere meglio approfondito, perché la formula “autonomia del soggetto sociale”, in apparenza semplice, contiene in sé un ventaglio complesso di implicazioni e di interpretazioni. Che cosa è, e come si costituisce, il “soggetto sociale”?
Soggetto vuoi dire coscienza, vuoi dire quindi non solo la materialità della condizione, ma la capacità di un’azione consapevole. C’è tutta una tradizione di marxismo ortodosso che considera la “coscienza di classe” come un prodotto che viene trasmesso dall’esterno, dall’élite politica, dall’avanguardia cosciente, e quindi il soggetto sociale non ha vita propria, ma esiste solo all’interno dell’organizzazione. In questo convergono totalmente Kautsky e Lenin, seconda e terza internazionale. In questo quadro teorico, non c’è autonomia possibile, ma c’è il primato della politica, mentre la spontaneità sociale non può che sfociare in una pratica corporativa. In Claudio Sabattini c’è un diverso percorso culturale, che si riallaccia a Rosa Luxemburg, a cui aveva dedicato la sua tesi di laurea. Il rapporto tra coscienza e organizzazione viene ribaltato: non è l’organizzazione che produce la coscienza, ma all’inverso c’è un possibile processo interno di maturazione che via via si può elevare verso forme sempre più elaborate e complesse, e l’organizzazione è solo il risultato di questo processo, è l’effetto, non la causa, della coscienza di classe.
Questo tipo di approccio lo avvicina a Bruno Trentin, che ha cercato di riscoprire e di valorizzare tutte le correnti minoritarie e libertarie, in opposizione al paradigma leninista dominante, tutto centrato sulla conquista del potere politico come condizione esclusiva per qualsiasi avanzamento sociale. Per Trentin, “la libertà viene prima”, e quindi tutta l’azione sociale non è in funzione della politica, ma tende ad aprire, quale che sia l’assetto politico, spazi di libertà e di autonomia per i lavoratori.
Inoltre, in che cosa consiste l’autonomia del soggetto? Qui è molto importante chiarire che non si tratta di un valore astratto, spirituale, ma della possibilità concreta di padroneggiare la propria condizione, nel lavoro anzitutto, ma più in generale nel complesso delle relazioni sociali. È autonomo chi è in grado di governare la propria vita. E il conflitto sociale sta esattamente in questo: tra chi vuole riappropriarsi della sua vita, e chi vuole imporre una situazione di dominio, tra il principio di autonomia e il principio di autorità.
Questo tema lo ritroviamo, variamente articolato, in tutta la riflessione di Claudio Sabattini. In un vecchio testo del 1972, dedicato all’analisi del movimento studentesco, egli cerca di indicare agli studenti la via di un intervento concreto e puntuale sull’organizzazione scolastica, per far saltare i meccanismi gerarchico-autoritari, per organizzare su basi alternative tutto il processo educativo, e critica di conseguenza gli ideologismi astratti che stavano avviando quel movimento su una strada senza uscita. E questa concezione dell’autonomia è la guida essenziale per tutta l’iniziativa sindacale, che si occupa del lavoro nella concretezza delle sue condizioni, come il luogo in cui si decide della qualità della vita delle persone e della loro identità. Non si tratta quindi solo di negoziare il salario, né si tratta solo di promuovere l’occupazione, perché al centro sta la persona che lavora e stanno le sue esigenze di autorealizzazione, di crescita professionale, di gestione dei tempi e degli spazi della sua vita.
Si potrebbe parlare, in proposito, di riformismo: riforma sociale che nasce dal basso e dal protagonismo dei soggetti. E intervento sulle cose, sulla materialità delle condizioni, sui rapporti di forza e di potere, senza perdersi nel fumo delle astrazioni e delle idee generali, e senza attendere l’avvento mitico della presa del potere. La parola “riformismo” è stata successivamente deturpata, fino a renderla del tutto irriconoscibile, ma sta a noi salvare il suo significato originario, e saperla usare ancora oggi come un’arma di lotta per una diversa organizzazione sociale.
5) Se è chiaro dalle cose fin qui dette il senso della soggettività del lavoro, è chiaro anche che essa si costituisce in una situazione di conflitto. La negazione del conflitto è il tratto comune di tutti i modelli dispotici e autoritari, e ciò oggi si ripresenta nella nuova forma del potere tecnocratico, che agisce in nome di una presunta oggettività e neutralità delle leggi economiche, escludendo ogni possibilità di pensiero alternativo. Ci troviamo tutti schiacciati sotto il peso della necessità, e chi cerca di sottrarsi a questo dominio viene fatto passare per un visionario o, peggio, per un provocatore. Se guardiamo all’attuale dibattito politico, vediamo come esso sia del tutto svuotato di senso, perché su tutto incombono soluzioni obbligate, necessarie, e la disputa si riduce alla rivendicazione di una migliore, più coerente e più efficace, capacità di interpretare lo stato di necessità. Il processo democratico viene così inceppato, perché le soluzioni sono già date, l’agenda politica è già scritta, ed è inutile perdere tempo a ricercare fantasiose alternative.
Ma vediamo di tematizzare con più precisione la categoria del conflitto. C’è conflitto quando si fronteggiano punti di vista diversi, interessi diversi, proposte alternative, e la democrazia consiste appunto nel riconoscere la legittimità di queste differenze e nel costruire uno spazio comune dove sia possibile il confronto, l’argomentazione motivata, per giungere infine ad una decisione consapevole e a possibili soluzioni di mediazione. Il conflitto, dunque, è nelle cose, è nella realtà di una società diseguale, è il punto di partenza, non quello di arrivo, e resta tutta aperta la ricerca delle soluzioni che possono dare una risposta a questo conflitto originario. Non c’è bisogno di aderire alle teorie marxiste per capire che le nostre società sono segnate da una distribuzione ineguale delle risorse e del potere, e che dunque tra il capitale e il lavoro c’è una disparità di potenza, che contiene in sé, in modo strutturale, la matrice di un conflitto mai del tutto risolto.
Per questo, contrapporre il “sindacato conflittuale” e il “sindacato partecipativo”, come due modelli antitetici, non ha assolutamente alcun senso, perché questi due momenti sono sempre necessariamente intrecciati, e l’uno rinvia all’altro. Il loro equilibrio può di volta in volta variare a seconda delle situazioni concrete, delle scelte degli attori sociali in campo, dei rapporti di forza. Il punto chiave nelle relazioni sindacali è se si riconosce che l’impresa è un sistema sociale complesso, nel quale convivono diversi punti di vista, diverse soggettività, e se dunque si apre uno spazio di negoziazione che renda possibile la definizione di un punto di equilibrio. Nella storia sindacale italiana c’è un movimento altalenante, con un alternarsi di momenti di scontro e di momenti di dialogo. A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, sembrava aprirsi una nuova prospettiva, un nuovo terreno di incontro, anche cogliendo le nuove opportunità che venivano offerte dall’ondata delle innovazioni tecnologiche. Nei testi di Claudio Sabattini qui riprodotti troviamo molti spunti e molte analisi in profondità sull’evoluzione del sistema delle imprese e sulla possibilità di sperimentare nuove forme di partecipazione dei lavoratori alle decisioni e nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Tutto il sindacato sembrava proiettato verso la ricerca di nuove soluzioni, di nuovi strumenti di democrazia economica, e un segnale importante di cambiamento sembrava venire dal protocollo IRI, del 1985, a cui aveva attivamente contribuito lo stesso Sabattini.
Nella medesima direzione vanno le elaborazioni della CGIL sulla “codeterminazione”, le iniziative rivolte ai quadri e ai tecnici, l’attenzione crescente ai temi della professionalità e della formazione, l’idea, in sostanza, che con l’innovazione tecnologica si apre un possibile spazio per un lavoro meno irreggimentato gerarchicamente e più compatibile con le esigenze di autonomia dei lavoratori. Come dice Sabattini in un articolo del 1992, “se l’impresa, insomma, è un intreccio di rapporti sociali, a seconda del mutare di questi rapporti sociali l’impresa si modifica in quanto non è un feticcio meccanico, quanto piuttosto il risultato di queste interazioni dei rapporti sociali. Diversamente ci troveremmo nell’orbita della contestazione e del condizionamento, ma mai entro l’orbita di soggetti diversi che possono diventare protagonisti di questo processo, cioè consapevoli protagonisti delle loro relazioni nell’impresa di cui sono il vero motore”. In quel momento, Sabattini guarda con interesse all’esperienza giapponese, e vede nel modello Toyota una possibile alternativa alle rigidità del taylorismo. Ma qui è chiaro che non si tratta affatto di negare il conflitto, ma di individuare le forme di una sua possibile regolazione, pensando l’impresa come un sistema nel quale tutti i soggetti possono essere protagonisti attivi.
Ma quella stagione, che sembrava essere potenzialmente ricca di sviluppi positivi, si chiude rapidamente senza produrre nessun risultato concreto. È questo un tema di indagine storica che meriterebbe di essere ripreso e approfondito. Lo stesso protocollo IRI resta sostanzialmente inattuato, per le resistenze di tutto l’apparato dirigenziale delle imprese, ma anche per una sostanziale sordità e indifferenza del quadro sindacale. L’idea era quella di un coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti in tutto il processo di innovazione e di riorganizzazione, con una contrattazione d’anticipo e con una gestione condivisa delle sue diverse fasi attuative, configurando così un equilibrio accettabile tra responsabilità dell’impresa e soggettività del lavoro. Ma ciò richiedeva un fortissimo salto qualitativo dell’azione sindacale, una forza progettuale e una assunzione di responsabilità, ed è invece prevalsa la forza di inerzia, la routine tradizionale, senza capire per tempo che quella era forse l’ultima occasione per far valere il proprio ruolo contrattuale e per conquistare un peso politico e decisionale nel sistema delle imprese.
Alla fine, tutto si spegne, e la controffensiva padronale si fa durissima, fino all’ultimo scontro con la Fiat di Marchionne, dove il modello è quello del comando unico ed esclusivo, ed il sindacato è ammesso solo se è a priori subalterno e collaborativo. Chi non si adegua a questa regola non ha diritto di cittadinanza. Questo vulnus è stato in parte risolto da una importante sentenza della Corte Costituzionale, mentre il mondo politico, anche della sinistra, è stato indifferente o complice. È il fascino del decisionismo, che si vorrebbe introdurre anche nel funzionamento delle istituzioni politiche. O è, per molti, l’idea che le battaglie difficili è meglio non darle, in attesa di tempi migliori. Torna, nella biografia di Sabattini, lo spettro della Fiat, dopo la durissima lotta del 1980, su cui rinviamo alla sua testimonianza diretta nel libro-intervista con Gabriele Polo Restaurazione italiana.
Sabattini non è affatto un teorico del conflitto fine a se stesso, e nella stessa vicenda dell’‘80 giudica, a ragione o a torto, che si sono bruciati gli spazi di un possibile compromesso. Il conflitto è solo un momento, che può essere radicale quando è necessario, e può essere mediato quando esistono le condizioni. Un dirigente sindacale deve saper usare con intelligenza entrambe queste possibilità. Chi è sempre rigido o sempre arrendevole non ha capito nulla del suo difficile lavoro. E ora, nell’attuale situazione così deteriorata, resta aperto il problema di quale sia per il sindacato la proposta, il modello su cui costruire nuove relazioni, e ciò richiede, con urgenza, uno studio accurato di tutte le trasformazioni del lavoro e dei possibili modelli di impresa, riprendendo il filo interrotto di quella discussione di vent’anni fa. Per vincere, occorre soprattutto la forza di un progetto politico. Occorre sì il conflitto, ma avendo chiaro un traguardo possibile, avendo una risposta al tema antico della democratizzazione dell’economia.
6) L’autonomia sociale ha bisogno, per esprimersi, di una rete democratica organizzata. E il tema della democrazia sindacale ha via via assunto in Claudio Sabattini un rilievo sempre più centrale, anche perché avvertiva il rischio drammatico di una rottura nel rapporto di fiducia tra sindacato e lavoratori. Democrazia, come, quale, con quali regole? Non è un problema semplice, e non può funzionare nell’azione sindacale l’adozione del modello della rappresentanza politica. Sono due piani diversi, con proprie distinte logiche di organizzazione. Il momento più alto di democrazia sindacale è rappresentato dal sistema dei consigli, nel quale non si rappresenta il pluralismo delle idee e delle organizzazioni, ma si costruisce un rapporto fiduciario diretto tra lavoratori e delegato, reparto per reparto, rispecchiando nell’organismo rappresentativo l’articolazione reale del luogo di lavoro. Era questo uno straordinario punto di forza, perché il sindacato poteva disporre di una rete capace di tenere sotto osservazione l’intero processo produttivo, e soprattutto perché erano i lavoratori la vera forza trainante, e il sindacato agiva come struttura di supporto. È a questo modello che fa riferimento l’idea di democrazia di Claudio Sabattini, ed egli interpreta tutta la drammatica vicenda della vertenza Fiat del 1980 come uno scontro che è avvenuto esattamente su questo terreno. Il vero tema, per la Fiat, non era la produttività o l’efficienza, ma la liquidazione di tutti gli strumenti di controllo sociale, resi possibili ed efficaci dalla struttura dei consigli. Il recupero della funzione di comando era considerato come la condizione preliminare da cui dipendevano tutte le scelte successive. Proprio per questo, la conclusione di quello scontro sociale deve essere definita come una sconfitta, perché sono i rapporti di potere ad essere sostanzialmente ribaltati.
Dopo la stagione dei consigli, cambia la logica della rappresentanza sindacale, in quanto è il sindacato esterno che diviene il titolare delle decisioni, e i lavoratori contano solo in virtù della loro appartenenza organizzativa. Comunque, credo che si possa lavorare per un effettivo rilancio del ruolo delle RSU, e il recente accordo interconfederale sulle regole della rappresentanza può agire positivamente per un nuovo clima nei rapporti sindacali e per affermare, finalmente, un quadro di regole condivise. Ma insisto: per il sindacato la democrazia non può essere solo una cornice di regole, ma deve essere vista nella sua sostanzialità, come il processo entro cui si realizza la libera determinazione dei lavoratori. Possono variare le soluzioni tecnico-giuridiche, di matrice contrattuale o legislativa, ma il tutto deve comunque essere valutato con il metro sostanziale dell’effettiva partecipazione dei lavoratori alle decisioni. Era questo l’assillo di Sabattini, la sua crescente angoscia per un processo di svuotamento della democrazia reale, fino a giungere alla prassi distorcente degli accordi separati, senza nessuna possibile verifica democratica del consenso. Qui giunge al suo punto estremo il conflitto tra organizzazione e lavoratori, tra azione dall’alto e consenso dal basso.
Ma c’è un altro aspetto, più complicato e anche più inquietante, sul quale voglio fissare l’attenzione. Siamo davvero sicuri che democrazia e burocratizzazione siano i due poli di un’alternativa, o non può anche accadere che l’una sia il puntello dell’altra? Spesso le procedure democratiche sono tutte rigorosamente rispettate: si fanno i congressi, si eleggono a maggioranza i gruppi dirigenti, si approvano tutti gli atti fondamentali, ma resta l’impressione che tutto ciò sia solo un meccanismo di autoconservazione, di manutenzione della struttura. Burocrazia e democrazia, in questo caso, si sostengono vicendevolmente, e il prodotto che ne risulta è la forza di inerzia che impedisce qualsiasi significativo cambiamento. La democrazia ha sempre in sé anche questo rischio di essere una forza al servizio della conservazione, di riprodurre gli equilibri già consolidati. Tocqueville aveva messo in guardia dal pericolo di una “dittatura della maggioranza”, e tutta la cultura costituzionale ha cercato di individuare i contrappesi, le garanzie, per impedire il costituirsi di un potere eccessivamente concentrato. Ma nella libera attività di un’associazione sindacale, sono deboli e incerti i contrappesi giuridici, e l’unica sostanziale garanzia, a me pare, è quella di una superiore lungimiranza del gruppo dirigente. Voglio dire, in sostanza, che la democrazia, in quanto potere della maggioranza, può avere anche l’effetto perverso di schiacciare sul nascere tutti i tentativi di innovazione, i quali hanno per loro natura bisogno di tempo e di maturazione per produrre degli effetti visibili e per conquistarsi il consenso necessario.
Potremmo introdurre anche qui il tema dell’autonomia, cercando di configurare un’organizzazione che, dentro una cornice comune di valori e di regole, lascia spazio alla libera sperimentazione, e anzi la sollecita e la promuove, dando così impulso alla formazione di nuovi gruppi dirigenti. Il rischio di una omologazione al ribasso e di un conformismo strisciante è del tutto evidente. Di fronte a ciò la democrazia può essere impotente, o perfino complice. Occorre quindi una discussione più complessa che vada davvero al fondo dei problemi. A meno che non si pensi di adottare, anche per il sindacato, il meccanismo democratico-plebiscitario delle primarie. Ma il sindacato ha bisogno di un altro tipo di fondazione, che non nasca dall’alto, dalla scelta del leader, ma dalla maturazione del soggetto sociale e dalla sua autonoma responsabilità. Le forme di un’autentica democrazia sindacale sono ancora, in questo senso, tutte da inventare.
7) Ho cercato di far venire alla luce il nucleo centrale del pensiero di Sabattini, ed esso sta, a me sembra, in questa triade di autonomia sociale, conflitto e democrazia. Sono concetti tra loro strettamente intrecciati, i quali costituiscono quindi un tutto unitario ed organico.
Occorre dire che il lavoro di Sabattini non era di ordine teorico, ma essenzialmente di ordine pratico, e quei temi li troviamo incorporati nella sua azione sindacale concreta, senza che abbia voluto o potuto dedicarsi alla costruzione di una teoria sistematica. Claudio era un sindacalista, e pensava da sindacalista, cercando non la verità, ma l’efficacia dell’azione, e tutti i testi qui pubblicati sono legati al momento concreto, sono atti politici, sono proposte di azione. Ma è notevole, e abbastanza inusuale, il suo lavoro di scavo nella realtà, senza mai accontentarsi del pragmatismo a buon mercato del giorno per giorno. Teoria e pratica sono tra loro congiunte, come i due lati di uno stesso processo, di pensiero e di azione.
Le sue tesi e le sue posizioni sono tutte discutibili, e talora eccessivamente forzate e unilaterali, ma non c’è dubbio che egli abbia saputo esattamente individuare quelli che sono, ancora oggi, i nodi strategici essenziali, che insomma abbia saputo occuparsi dell’essenziale e non del contingente, il che mi sembra essere un notevole titolo di merito. Sulle risposte si può sempre discutere, ma ciò che conta è che siano giuste le domande. E in Sabattini le domande essenziali erano già tutte formulate. Sta a noi ora produrre un ulteriore lavoro di analisi e di pensiero.
Sarebbe sbagliato, io credo, rinchiudere l’eredità di Sabattini solo nell’ambito della FIOM, anche se ovviamente è stato questo il luogo delle sue esperienze più rilevanti. Ma Sabattini non è solo la FIOM, e la FIOM non è solo Sabattini. La FIOM, naturalmente, sente tutto il peso dell’eredità di Sabattini, ma questa stessa eredità, se viene intesa in tutta la sua ricchezza e complessità, la deve spingere ad un ruolo più attivo e dinamico nel dibattito complessivo della CGIL e del sindacalismo confederale. E naturalmente ci deve essere in tutti l’estrema disponibilità ad una libera dialettica democratica, senza la quale il prossimo Congresso della CGIL finirebbe per essere un’occasione mancata.
8) Veniamo infine alle conclusioni. Sabattini ha ancora qualcosa da dirci, per l’oggi e per il domani? Io penso che si debba dare una risposta positiva, non per le singole posizioni da lui di volta in volta assunte, ma per l’inquadramento critico generale in cui si colloca la sua riflessione. Il punto di partenza è la consapevolezza che abbiamo subito una sconfitta. Possiamo forse prescindere da questo dato della realtà? Tematizzare la sconfitta è già un modo per tentare di uscirne. E allora, dove, perché, come, abbiamo dovuto subire questo generale arretramento dei rapporti di forza e di potere? Questo è il tema, oggi. Questa è la domanda da cui tutto il resto discende. In discussione non è la nostra capacità di combattimento e di lotta, ma la nostra efficacia, è lo scarto drammatico che si è determinato tra obiettivi e risultati. E l’efficacia è il risultato di una analisi, di una comprensione dei processi reali, cogliendo i punti su cui agire, e le possibili alleanze, e il potenziale umano da mettere in campo. Uno degli effetti più sintomatici della burocratizzazione è proprio la perdita di efficacia, perché si continua a lavorare sui binari conosciuti e sperimentati, mentre tutta la situazione richiederebbe la sperimentazione di nuove forme organizzative e di nuove politiche contrattuali. C’è un meccanismo che si autoriproduce, ma che non ha più la forza di incidere nella realtà.
È una discussione da fare. E il disfacimento in atto del sistema politico rende più urgente e drammatica questa discussione, perché anche il sindacato ne è inevitabilmente coinvolto, e deve ridefinire la sua identità e il suo progetto. Io mi limito qui a dire che non potrà esserci nessuna discussione utile se non si parte da questo scenario di crisi e da una sua attenta ricognizione. Sabattini è un testimone di questa crisi, che egli sente drammaticamente, negli ultimi anni della sua vita, come il crollo di un’epoca, senza più riuscire a trovare risposte efficaci, se non di estrema resistenza. Possiamo prendere le distanze da alcune sue conclusioni disperate, ma non possiamo negare la profondità della crisi che ha investito tutte le forme organizzate della sinistra, sul piano politico e su quello sociale.
Ma io cercherei ancora di lavorare su quel nucleo di intuizioni che Sabattini aveva elaborato, a partire anzitutto dall’autonomia del soggetto sociale. Il problema, oggi, è che il soggetto sociale non è immediatamente visibile, non è concentrato nelle grandi unità produttive, ma è disperso, frammentato, e occorre un lungo lavoro per farlo riemergere e per dargli nuova visibilità. Non condivido la tesi della “fine del sociale”, sostenuta da Alain Touraine, per il quale l’unica risorsa in campo è quella della libertà individuale, e della battaglia per i diritti civili, ma penso piuttosto alla necessità di un lavoro di scavo nel sociale, per rendere visibili le sue contraddizioni, i suoi conflitti, e per dare vita a nuove forme di coscienza collettiva. Credo che a Sabattini potrebbe piacere questa idea di ripartire dal basso, dalla materialità del lavoro e della vita, per ricostruire i legami di una possibile e rinnovata iniziativa di massa, diversa dal passato, nelle sue forme e nei suoi contenuti, ma identica nella sua ispirazione, perché in ogni caso si tratta di riconsegnare alle persone il governo autonomo della loro vita. Autonomia sociale, conflitto e democrazia, sono le parole morte di una stagione ormai finita, o possono essere l’inizio di un nuovo lavoro sociale? Credo che abbia ancora senso scommettere sulla loro attualità, senza illusioni e senza rassegnazione. Il primo passo da fare è quello di alzare il livello delle nostre ambizioni e dei nostri progetti.
Busta: 9
Estremi cronologici: 2014
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: Luca Romaniello e Riccardo Terzi (a cura di), “Claudio Sabattini. Autonomia sociale, conflitto, democrazia”, Edizioni LiberEtà, Roma, 2014. pp. 35-54