POPULISMI IN EUROPA

Intervento al Forum della Rivista delle politiche sociali, Roma, 24 novembre 2011

Nutro una certa diffidenza per la parola “populismo”, che mi sembra carica di ambiguità e di indeterminatezza, e credo che essa sia di scarsa utilità nell’analisi dei processi politici.

E tuttavia non se ne può non parlare, data la straordinaria diffusione che essa avuto nel dibattito politico corrente e nella produzione giornalistica; si tratta in ogni caso di valutarne la portata, il significato e i risvolti che essa racchiude.

Nel vasto contenitore del populismo si fanno rientrare fenomeni politici assai differenti, e anche tra loro confliggenti; si ha l’impressione che si tratti non di una spiegazione, di una interpretazione della realtà, ma di un espediente a cui si ricorre proprio quando non è data nessuna spiegazione. “Populismo” diventa allora tutto ciò che sfugge alle nostre categorie interpretative, tutto ciò che sfida la nostra razionalità e irrompe nella nostra realtà contemporanea con i tratti inquietanti dell’irrazionale o dell’eversivo.

C’è sempre una connotazione spregiativa che si accompagna alla definizione di un fenomeno come populista. All’analisi scientifica si sostituisce così il giudizio etico-morale. Il populismo è il negativo che deve essere combattuto, è il sottofondo di violenza e di intolleranza che riemerge nelle nostre società civilizzate, è la forza distruttiva degli impulsi elementari, che deve essere riportata sotto il controllo della ragione. Inoltre, una qualsiasi definizione del populismo implica in premessa una ricognizione intorno al concetto di “popolo”, e anche qui siamo nel campo di una pluralità di significati e di interpretazioni. Ma su questo tornerò successivamente. Mi soffermo ora su alcune possibili declinazioni del populismo. In primo luogo, il modello della democrazia plebiscitaria, nella quale il popolo si riconosce nel suo leader, senza mediazioni, senza istituzioni intermedie, in un rapporto diretto, con una investitura fiduciaria totale che non sopporta limitazioni, regole, garanzie.

In questo modello, il protagonista non è il popolo, ma è esclusivamente il capo carismatico a cui il popolo si concede.

Più che di populismo, si tratta quindi di leaderismo, di personalizzazione della politica, di autoritarismo, perché tutto il sistema politico deve essere funzionale all’esercizio concentrato del potere, senza gli impacci e le lungaggini delle procedure democratiche.

In questa logica, l’ostacolo da abbattere e tutto l’apparato delle istituzioni di mediazione e di garanzia, per far risplendere in tutta la sua potenza la figura del leader, l’unico che è unito al popolo da una simbiosi di tipo mistico.

Gli esempi storici che illustrano questa situazione sono molteplici e ricorrenti.

In Italia Berlusconi ha tentato di adottare questo modello, ma ciò è avvenuto più nelle intenzioni e nelle dichiarazioni verbali che non nei fatti reali, perché i contrappesi istituzionali hanno continuato, bene o male, a funzionare.

Comunque sia, non si tratta certo di una innovazione, perché la storia è stata ripetutamente attraversata da esperimenti di tipo autoritario, e anche nel nostro mondo civilizzato è sempre all’opera la tendenza alla concentrazione e alla degenerazione del potere, e il compito delle Costituzioni è proprio quello di costruire un sistema efficace di difesa.

Il berlusconismo non è che un episodio di questa perenne dialettica della storia. Sotto questo profilo, dunque, non è accaduto nulla di nuovo, e il concetto di populismo qui non ha altro valore se non quello di registrare, ancora una volta, come il meccanismo autoritario si copre sempre dietro la retorica del popolo.

C’è un leader, un capo, perché c’è un popolo che lo incorona. E il processo è sempre ambivalente, con una miscela di potere arbitrario e di consenso, di costrizione e di adesione. La novità è l’apparire di questa ideologia autoritaria del potere nel cuore dell’Europa, che sembrava essere immunizzata da queste tentazioni. Ma ormai l’Europa è un campo di battaglia dove tutto può succedere.

Nella democrazia autoritaria, il popolo esiste solo come forza passiva, come moltitudine indifferenziata, incapace di una propria iniziativa, e la politica si riduce al meccanismo di identificazione con la figura del leader. Naturalmente, ci sono nella realtà diverse possibili gradazioni di questo fenomeno, cosi come può essere estremamente differenziato il concreto contenuto sociale di un tale modello, il quale non è di per né di destra né di sinistra, ma è solo la dilatazione estrema della discrezionalità del potere, indipendentemente dal suo progetto politico.

Ma il risultato è in ogni caso la passivizzazione delle masse, la negazione di una qualsiasi autonomia della società civile, perché tutto il potere è concentrato in un solo punto, e ogni velleità di autonomia assume un carattere eversivo.

Il moderno uso dei mezzi di comunicazione e della loro potenza manipolatoria introduce una variante, che ha però solo il valore di un potenziamento degli strumenti di controllo dell’opinione pubblica, senza determinarne un mutamento della struttura di fondo del potere.

Ciò che cambia è solo la disponibilità di strumenti più pervasivi che possono essere messi al servizio del potere, ma già questa situazione si sta in parte modificando con il passaggio dalla televisione alla rete di Internet, che è per sua natura aperta a una pluralità di soggetti e che offre un quadro di informazioni estremamente vasto e differenziato, con scarse possibilità di essere sottoposto a un controllo preventivo. Non condivido perciò l’enfasi sulla cosiddetta democrazia mediatica, o sulla telecrazia, perché in queste teorie si scambia la causa per l’effetto.

Non sono i media il luogo del potere, ma essi sono solo uno strumento, il cui uso e i cui effetti sono dipendenti dalla struttura del potere, autoritari se il potere è autoritario, aperti e plurali se il potere è organizzato su basi democratiche.

Una seconda tipologia del populismo è in tutte quelle rappresentazioni politiche e ideologiche che concepiscono il popolo come l’unico depositario dei valori positivi, come il custode della tradizione, della saggezza originaria, dell’identità profonda della nazione, in opposizione alle élite, alle oligarchie, alla casta dei politici e degli intellettuali. In questo caso, l’uso del termine “populismo” appare più appropriato, perché è sul popolo che cade l’accento, sul suo essere il depositario di tutto ciò che merita di essere salvaguardato.

Ma che cosa è il popolo, in questa accezione? E un concetto solo astratto, ideologico, che prescinde dalle sue interne articolazioni, dal pluralismo degli interessi e delle culture, è l’idealizzazione una comunità originaria, che va difesa da tutte le contaminazioni, da tutto ciò che dall’esterno la può inquinare.

Nel caso della Lega Nord in Italia, come in molti altri analoghi movimenti xenofobi in Europa, il cemento è il fondamentalismo etnico, l’idea cioè di una comunità chiusa, autocentrata, che non ammette nessuna interferenza dall’esterno, nessuna autorità e nessuna regolazione sovraordinata.

È un disperato tentativo di resistenza e di autodifesa di fronte al processo di globalizzazione, il quale fa saltare tutti i confini tradizionali e mette in atto un gigantesco rimescolamento dei poteri, delle culture e delle forme di vita.

Il problema del nuovo ordine mondiale da costruire, del rapporto tra il globale e il locale, tra ciò che e comune e ciò che deve restare distinto e autonomo, è un problema reale, di grandissima portata.

Ma è del tutto velleitaria e regressiva la risposta di questi movimenti comunitari, che tendono solo a costruire barriere, chiusure, intolleranze, là dove si tratta invece di dare una forma democratica e aperta alla nostra convivenza.

E l’esito di questa operazione ha inevitabilmente un carattere autoritario, perché la comunità è un tutto indifferenziato che non riconosce nessuna dialettica interna, e si riproduce così la delega a un capo carismatico che sia il garante esclusivo della comunità.

Per questo, si rende possibile una convergenza tra le due forme politiche che abbiamo fin qui analizzato, tra il modello plebiscitario e quello comunitario, perché entrambi si innestano su una comune radice, sulla crisi della democrazia politica e su una struttura sociale individualizzata. Il meccanismo è il medesimo: una massa atomizzata, dispersa, che trova la sua unità apparente in una forza esterna, in una autorità, in un mito.

E quando queste due tendenze riescono a dar vita a un unico blocco conservatore, si producono allora profondissimi effetti devastanti sia sull’ordinamento democratico, sia sulla coscienza collettiva del Paese. Ed è quanto è accaduto in Italia negli ultimi anni Il fondamento di tutte queste forme è la fragilità individuale nell’epoca dell’individualismo dispiegato. È una dialettica che merita di essere attentamente studiata e che riguarda tutto il rapporto tra l’individuale e il collettivo.

L’io non si realizza se non nel rapporto con l’altro, e ha quindi bisogno di un noi in cui potersi riconoscere. Accade così, nei casi fin qui considerati, che l’individualismo si capovolga nella sua negazione, perché si affida alla figura carismatica del capo o al mito della comunità etnica. Il noi, in questo caso, non è dato da una effettiva relazione interpersonale, ma da una proiezione immaginaria, da un mito, appunto, il quale copre solo in apparenza la solitudine impotente della vita individuale.

Nell’attaccamento al mito si trova un senso, un’identità apparente, dentro una rappresentazione della realtà di tipo conflittuale, dove è la minaccia di un nemico che struttura l’esistenza, un nemico che può prendere le più diverse forme (i poteri forti, gli immigrati, la burocrazia, la magistratura, il fantasma del comunismo), e in ogni caso c’è bisogno di un bersaglio su cui scaricare tutta l’aggressività delle pulsioni insoddisfatte. È l’antico meccanismo del capro espiatorio, attraverso il quale si ricostituisce l’ordine della comunità, e in proposito lo studio più approfondito è sicuramente quello svolto da René Girard, che ha visto l’intima connessione tra la violenza e il sacro.

Nel momento in cui sulle nostre società civilizzate si abbatte il vento della crisi, dell’incertezza, della precarietà, riprendono forza gli antichi rituali del sacrificio, e viene così fabbricata l’immagine di un nemico, non importa se reale o immaginario. E, come sempre è accaduto, la violenza si scatena sul bersaglio più facile e più debole. Ecco che allora prende forma, in tutta Europa, la caccia allo straniero, all’islamico, al nemico che insidia le nostre tradizioni, le nostre radici cristiane. Il sacro e la violenza tornano a congiungersi.

C’è infine un caso assai diverso da quelli finora analizzati ed esso è rappresentato da quei movimenti di autonomia della società civile che si contrappongono alla politica istituzionalizzata e al sistema dei partiti.

C’è tutto un arcipelago di movimenti, di associazioni, che trovano nella rete il loro principale strumento di comunicazione e di organizzazione, e che hanno dato luogo anche ad alcune importanti mobilitazioni di massa, in Italia come in altri Paesi. Il profilo può essere più o meno radicale, ma al fondo c’è sempre l’idea che solo un movimento dal basso, di auto-organizzazione sociale, può dare una risposta ai problemi attuali del mondo globalizzato, mentre la politica tradizionale, di destra o di sinistra, è del tutto impantanata e compromessa, è una palla al piede di cui dobbiamo liberarci.

C’è dunque qualcosa in comune con i populismi appena descritti, perché anche in questo caso il bersaglio polemico è tutto il sistema istituzionale della democrazia rappresentativa. Ma è di segno opposto il processo culturale e psicologico di questi movimenti, perché qui siamo in presenza di un individualismo sicuro di sé, spesso anche aggressivo, che non ammette deleghe, che non riconosce autorità, che non si rifugia nel mito, se non in quello della sua illimitata autonomia.

È un fenomeno che ha per ora una portata sociale limitata, e ha soprattutto un andamento fluttuante, senza continuità e senza solide basi organizzative. Il referente sociale è quello degli strati più evoluti e acculturati, è quello che è stato definito il “ceto medio riflessivo”, il quale ha una vocazione cosmopolitica e ha uno sguardo aperto sul mondo senza essere inchiodato a nessuna determinata identità territoriale. Le affinità sono quindi più apparenti che reali: diversi sono i soggetti, e diverso soprattutto l’universo culturale di riferimento.

Ma è anche questo un segno importante dello stato di sofferenza in cui si trovano le nostre democrazie, e forse sta proprio qui il lato più problematico della situazione, che non può essere affrontato con una sommaria liquidazione moralistica.

Non c’è, in questo caso, l’arretratezza di un popolo immaturo, prigioniero dei suoi impulsi primitivi e dei suoi miti, ma c’è piuttosto la pretesa del tutto insoddisfatta di una diversa qualità della politica, e questo fenomeno si manifesta soprattutto nelle giovani generazioni, sempre più insofferenti verso i rituali di una politica inconcludente, fatta di retorica e non di soluzioni concrete.

Può essere allarmante il livore antipolitico che in alcuni casi si manifesta, può essere inquietante il credito del tutto immeritato di alcuni personaggi assai discutibili che si propongono come i moralizzatori del sistema, e tuttavia qui c’è un nodo reale, che non può essere sciolto con la litania delle buone intenzioni.

Come si vede, il ventaglio del cosiddetto populismo è estremamente variegato e frastagliato, ed è legittimo domandarsi se abbia un senso usare la stessa parola per fenomeni così differenti. Sarebbe utile una definizione più selettiva. E dobbiamo allora risalire al significato della parola “popolo”. Populismo non è qualsiasi idea che si riferisce al popolo, ma è quella concezione che vede il popolo come una unità, come un tutto indifferenziato, nel quale c’è il deposito dei valori della tradizione, c’è la radice della nostra identità. In questo senso, questa rappresentazione si contrappone a tutto ciò che divide l’unità mistica del popolo: le classi sociali, i partiti, le diverse ideologie.

Il populismo è allora la negazione del pluralismo, della dialettica, del conflitto, in nome di una identità originaria, di un’appartenenza alla comunità, nella quale ciascuno ha il suo ruolo prefissato, proprio perché si tratta solo di conservare l’ordine costituito. È la stabilità e l’ordine, contro la forza disgregante delle fazioni di partito, è il principio di autorità, contro le dissolutezze della libertà individuale, è il dominio della morale ufficiale, contro ogni forma di eresia e di deviazione.

Il concetto di popolo viene così stravolto, e perde tutta la concretezza delle sue interne articolazioni. Cessa di essere una struttura sociologica aperta, suscettibile delle più svariate combinazioni, per divenire l’oggetto di una devozione, di una unione mistica.

Resta solo l’appartenenza, vale a dire l’essere ancorato a un dato oggettivo, naturalistico, nel quale si dissolve ogni autonoma capacità di scelta. Se usiamo questo criterio interpretativo, il campo del populismo viene rigorosamente circoscritto, e in Italia solo la Lega, e anch’ essa solo in parte, corrisponde a questa definizione, con la decisiva variante dello spostamento del culto comunitario dalla dimensione nazionale a quella locale, con l’invenzione del mito della Padania.

Ma anche la Lega, in realtà, e un universo più mosso e variegato, con forti contraddizioni interne, come dimostrano anche le più recenti vicende politiche, ed essa può mantenere la sua forza espansiva solo se riesce a schiodarsi dalle sue origini, a sviluppare una politica più dinamica, a rappresentate una più vasta domanda sociale, per non restare chiusa nel localismo angusto e primitivo delle vallate alpine.

Ma quello che importa, al di là dell’accademismo delle definizioni, è cogliere il senso complessivo del processo storico in corso, e allora possiamo vedere come la nebulosa del populismo, nelle sue svariate significazioni, sia comunque rappresentativa di un mutamento reale che sta attraversando le nostre società più sviluppate. Non si tratta solo di ideologie, di forme della coscienza, ma di qualcosa che trova il suo fondamento e la sua ragion d’essere nella realtà.

Il punto da cui partire è il fatto della crescente frammentazione sociale, che tende a dissolvere le tradizionali identità collettive, i blocchi sociali, le appartenenze di classe, per dare luogo a una struttura sempre più fluida e indefinita nei suoi contorni, e in questo processo si rovescia la relazione tra l’individuale e il collettivo, tra l’io e il noi, e l’intera società si configura come un reticolo estremamente complicato di relazioni individuali, senza un centro ordinatore, senza una struttura portante.

Su questo processo si innesca l’ideologia neoliberista, che si riassume nella famosa affermazione della signora Thatcher: «non esiste la società, esistono solo gli individui». Ora, tutti i fenomeni di cui ci siamo occupati sono il riflesso di questo processo sociale, sono i diversi possibili percorsi su cui si può incamminare una società individualizzata.

In conclusione, quindi l’analisi del populismo ci riconduce alla struttura sociale e alle sue trasformazioni, e si conferma la tesi che considera l’ideologia come l’espressione di una determinata configurazione storico-sociale, ed è solo a questo livello che noi posiamo determinare dei cambiamenti che investano anche le forme della coscienza collettiva.

Per questo, mi lascia del tutto insoddisfatto il modo in cui normalmente di questo problema si tratta, perché non si vede quasi mai il nesso tra la realtà e la rappresentazione.

Le diverse ideologie qui considerate (il mito del leader, il mito della comunità, l’idealizzazione della società civile) non sono che il velo, l’apparenza, e dietro questo velo si tratta di cogliere la realtà effettiva di una struttura sociale che ha perso il suo equilibrio, la sua coesione, e che proprio per ciò tende a rifugiarsi nell’immaginario. Se è così, quello che si tende a chiamare populismo non è una devianza, ma è il modo di essere e di autorappresentarsi della società attuale, è l’effetto di un mutamento storico che è in corso, e a nulla valgono le prediche moralistiche, le retoriche, le quali scivolano sulla realtà senza riuscire in nessun modo a modificarla.

Prendiamo il caso della Lega Nord: un movimento regressivo, grossolano, antinazionale. Ma è del tutto illusorio pensare di contrastarlo con l’enfasi patriottica sull’unità nazionale, così come è un tentativo velleitario e ridicolo quello di ammorbidirne le asprezze, di assorbirne il potenziale eversivo in una visione più equilibrata, proponendo una sorta di leghismo temperato, il quale ha solo l’effetto di un cedimento sul terreno dei valori e dei principi.

Occorre un combattimento, ma non in astratto, non nel mondo metafisico delle idee, ma nella materialità concreta dei processi sociali. E a sua volta questo processo non è che il prodotto di scelte politiche, di orientamenti culturali, del salto di egemonia che si è compiuto con il primato del pensiero liberista. La «Società liquida», di cui ci parla Bauman, non è un destino, non è la forma inevitabile del mondo contemporaneo, nell’epoca della globalizzazione, ma è solo la risultante dei rapporti di forza e di potere che si sono determinati. Le varie interpretazioni sociologiche spesso colgono solo gli effetti del processo in corso, e non risalgono alle cause, e il problema finisce per essere solo quello di come convivere con le attuali condizioni di incertezza e di precarietà.

In ogni caso, occorre vedere, senza illusioni consolatorie, il corso reale delle cose, il processo che è in atto, e l’esistenza di potenti forze oggettive che lavorano per una progressiva dissoluzione del tessuto sociale. Questo è il campo nel quale oggi ci troviamo ad agire. L’urgenza che ci sta di fronte è quella della ricostruzione di tutto il tessuto delle rappresentanze sociali, che si è in questi anni gravemente deteriorato e sfilacciato, lasciando interi territori sociali senza rappresentanza, senza identità, e quindi del tutto permeabili dalle ideologie individualiste e dalle suggestioni autoritarie.

Senza un lavoro in profondità nel sociale, nelle sue contraddizioni e nei suoi conflitti, senza un programma sistematico per dare voce e organizzazione a quella moltitudine che si trova oggi in balia degli eventi senza potersi riconoscere in nessun progetto di cambiamento, senza una politica, quindi che torni a mettere al centro la condizione sociale delle persone, ci troveremmo di fronte a un destino già scritto, perché una società senza rappresentanza è del tutto incompatibile con la democrazia organizzata.

E, d’altra parte, proprio per effetto di questi processi sociali, la crisi della democrazia è un dato reale, che va apertamente fronteggiato. Che rapporto c’è oggi tra il popolo e la sovranità? A chi rispondono gli effettivi centri di decisione? Non è sorprendente quindi il risorgere di pulsioni autoritarie, non è senza fondamento il diffondersi dell’antipolitica, del livore contro il sistema dei partiti, perché in effetti qui si è aperta una gravissima frattura, e la democrazia reale rischia di apparire solo come un affare delle oligarchie, come un gioco truccato, sul quale la nostra possibilità di incidenza è pressoché nulla. I due processi si alimentano l’un l’altro: la rottura dei legami sociali, delle identità collettive, e sull’altro versante l’involuzione delle istituzioni democratiche.

È una crisi di sistema, che va affrontata nella sua globalità. Il populismo è solo uno degli effetti secondari di questa situazione, e il segno dello sbandamento in cui ci troviamo, e il termometro che registra il nostro stato febbrile. Ma è sulle cause che dobbiamo intervenire. Questo è il lavoro, lungo e faticoso, che la sinistra deve cominciare a intraprendere. Se invece vuole correre dietro alle farfalle del postmoderno, del post-ideologico, se insomma non sa o non vuole più fare il suo mestiere, allora si rende del tutto superflua, e sarà giustamente travolta dalla logica impietosa dei reali rapporti di forza.

L’attuale situazione politica, con la formazione del governo Monti, può avere paradossalmente un effetto provvidenziale, perché finalmente sono uscite di scena, almeno per ora, le retoriche, le demagogie, le contorsioni di un bipolarismo sgangherato, e appare in tutta la sua crudezza il vuoto della politica, e la necessità di riempirlo con dei contenuti, con dei progetti.

A questo punto, può avere voce in capitolo solo chi ha delle idee e delle proposte concrete. Vale per tutti, per i partiti, come per le organizzazioni sociali.

Non ci sono più per nessuno rendite di posizione, rappresentanze precostituite, ma tutto è rimesso in discussione. E forse può accadere che in un confronto più serrato, più argomentato, più attento ai contenuti, anche le suggestioni del populismo perdano la loro forza, la loro presa sulla coscienza collettiva. In ogni caso, il passaggio da Berlusconi a Monti è il passaggio dall’imbroglio mediatico alla sobrietà dei contenuti. Può essere l’occasione per rimettere la politica con in piedi per tetra. Ma il tempo per questa operazione di verità e di bonifica del discorso pubblico è assai stretto, e nulla ci garantisce da un possibile ritorno, forse ancor più minaccioso, di quell’ondata autoritaria su cui può infrangersi il nostro equilibrio democratico. Se ancora una volta si dovesse fallire, il contraccolpo può essere devastante. Sarebbe già molto condividere l’analisi, e concordare sulle domande. Se le domande sono giuste, si può sperare che arrivino anche le risposte.

La registrazione completa del convegno è disponibile su Radio Radicale.



Numero progressivo: H19
Busta: 8
Estremi cronologici: 2012, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza con piccole differenze rispetto al testo a stampa
Pubblicazione: Pubblicato col titolo “Populismi in Europa”, in “Argomenti umani”, 2012, pp. 29-39. Pubblicato anche sul Blog di Josè Luis Bulla il 28 gennaio 2012 col titolo Populismos en Europa. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Populismo”, pp. 223-234