POLIARCHIA, RINASCITA DELLA POLITICA?
di Riccardo Terzi
Il federalismo è l’occasione per la riforma dello Stato nel senso della sua “funzionalizzazione” in rapporto alla domanda sociale. Ma anche la condizione per dare spazi nuovi alla politica.
Nonostante la forte pressione, sul piano politico-ideologico, verso la semplificazione delle forme del potere (il presidenzialismo, il rapporto diretto tra cittadini e leader, la logica del maggioritario), avviene nella realtà un processo del tutto rovesciato rispetto a queste rappresentazioni ricorrenti, in quanto cresce e si complica il policentrismo dei poteri e si moltiplicano le sedi e i soggetti attraverso i quali passa l’esercizio reale delle decisioni politiche.
Tra realtà e rappresentazione c’è uno scarto sempre più marcato, e per questo gran parte del dibattito politico è solo una guerra di parole, senza nessun rapporto con l’effettiva dinamica sociale.
Un approccio diverso e fecondo è quello su cui insiste da tempo Giuseppe De Rita, ponendo in primo piano il pluralismo che già esiste nella realtà, e che però non ha ancora trovato una sua adeguata sistemazione istituzionale. È il tema della poliarchia, ovvero delle istituzioni di una società complessa. Le ideologie della semplificazione hanno oggi successo proprio perché sembrano offrire una soluzione, del tutto apparente e velleitaria, al problema intricato che ci sta di fronte. È il ricorso al mito nel momento in cui mancano le risposte razionali.
E i miti, quando assumono la forza di una adesione di massa, non sono affatto illusioni inoffensive, ma provocano tutta una catena di effetti politici: effetti non previsti, non calcolati, e spesso potenzialmente distruttivi, proprio perché manca un’analisi reale della situazione.
Nell’attuale transizione italiana, il pericolo maggiore mi sembra essere proprio quello dello stravolgimento emotivo e mitologico. La Padania di Bossi può essere un esempio di questo irrompere non indolore del mito in una situazione di incertezza. E il dibattito politico viene così trascinato su un terreno falso.
Così, su un altro piano, tutta la mitologia referendaria di Mario Segni finisce per invocare il ritorno del “principe” (camuffato pudicamente nelle vesti del “sindaco d’Italia”), e alimenta una pericolosa spinta autoritaria.
Ora, il fatto fondamentale che ci sta di fronte è che diventa sempre più problematico il rapporto tra la politica e la società, tra la forma classica dello Stato centralizzato, gerarchico, luogo esclusivo della sovranità e la forma dell’organizzazione sociale, segmentata, differenziata, non riducibile a identità politiche lineari e omogenee, ma popolata da una pluralità di soggetti, di interessi, di motivazioni, di culture.
In questa situazione le istituzioni politiche finiscono per apparire un’astrazione lontana, perché non entrano in comunicazione con la complessità del reale. La società non si riconosce nelle sue istituzioni, ma anzi le avverte come una forma di oppressione. È in questo nodo irrisolto che stanno tutte le contraddizioni e le tensioni di questa fase. La società complessa mette in crisi la dimensione tradizionale della politica, la quale si fonda ancora sostanzialmente sull’idea classica della polis, sull’immagine idea lizzata di una comunità trasparente nei suoi conflitti e quindi regolabile attraverso il confronto pubblico tra di verse alternative politiche.
Ed è questa idea della polis che rivive oggi nella concezione di un bipolarismo virtuoso, animato solo dal senso di moderazione e dallo spirito pubblico: è il mito della democrazia dei cittadini, dell’autogoverno della società civile, che ignora i caratteri reali della struttura sociale, e il groviglio degli interessi e degli egoismi.
Siamo posti di fronte a una domanda inquietante, perché è la stessa dimensione politica a essere messa in questione; ci si può domandare se esiste ancora uno spazio politico, il che significa uno spazio di libertà e di responsabilità, o se ci troviamo ormai in un intreccio inestricabile di vincoli e di necessità, di processi globali che sfuggono al nostro controllo, e in una condizione di opacità degli interessi, ciascuno chiuso nel suo guscio, per cui la politica sopravvive solo come esercizio retorico, senza nessuna possibilità di presa sulla realtà.
È una domanda cruciale. Ed è in rapporto a questa domanda che prende senso il tema della poliarchia, come progetto di costruzione dello spazio della politica nella società complessa, individuando per questo progetto gli strumenti, le sedi, i soggetti.
L’obiettivo del federalismo indica una prima e parziale risposta a questo ordine di problemi.
Con il federalismo si disarticola la compattezza e l’uniformità dello Stato-nazione e si riconosce il pluralismo delle realtà territoriali, che sono chiamate a misurarsi in un’azione di autogoverno.
È un processo, necessario e auspicabile, di avvicinamento alla realtà, di riconoscimento delle diverse dinamiche che alimentano sistemi territoriali fortemente differenziati.
In un processo federalista si costituiscono nuovi livelli di potere e di regolazione, e questi livelli non possono che essere di carattere regionale o sovra-regionale, perché solo realtà territoriali sufficientemente estese possono dar luogo a una effettiva azione di Governo.
Lo studio più convincente resta quello della Fondazione Agnelli. Possiamo discutere modi e tempi per un nuovo accorpamento delle Regioni, possiamo anche realisticamente partire dall’attuale strutturazione regionale; ma deve essere chiaro che il federalismo, se non vogliamo parlarne a sproposito, si può realizzare solo su una scala territoriale molto ampia. Non esiste il federalismo delle città, e tutti coloro che insistono sul ruolo primario dei Comuni propongono in realtà il mantenimento dell’attuale struttura statale centralizzata, sia pure con qualche concessione in più alle istanze di autonomia degli enti locali.
Il rischio dell’illusionismo
È certamente vero che in Italia la dimensione regionale è una dimensione debole, e che il regionalismo fin qui sperimentato ha dato risultati deludenti. Si tratta ora di valutare se questa debolezza storica può essere superata, e se si può tentare una riforma dello Stato imperniata sulla costruzione di nuovi poteri regionali. Questa, e non altro, è la sfida del federalismo. È una sfida arrischiata, non scontata nei suoi esiti, e i motivi di diffidenza non sono del rutto infondati. Evitiamo però il classico pasticcio all’italiana, per cui il federalismo diviene una parola magica nella quale ci sta tutto e il contrario di tutto, e alla fine cambiano solo le parole e non i fatti.
Una questione essenziale, in una riforma federalista dello Stato, è la costituzione di una “seconda Camera” come Camera delle Regioni, analogamente al modello del Bundesrat tedesco. Si verrebbe così a costituire un organismo chiaro nelle sue funzioni, nel suo mandato rappresentativo, chiaro proprio in quanto è delimitato a una precisa dimensione istituzionale.
Se invece la seconda Camera dovesse caricarsi di più ampie funzioni rappresentative, inglobando in sé tutta la realtà delle autonomie locali, o anche la rappresentanza sociale degli interessi, essa perderebbe, proporzionalmente alla sua apparente forza rappresentativa, la sua forza decisionale, divenendo un organo retorico e confuso, abilitato solo a funzioni secondarie di consulenza.
Ma il federalismo non è una risposta sufficiente ed esaustiva. Perché, anche al livello delle singole realtà territoriali, si ripropone il nodo problematico del rapporto tra politica e società, e il federalismo rischia allora di divenire una moltiplicazione perversa dei meccanismi burocratici, riproducendo su scala allargata le storture dell’Amministrazione pubblica.
Il federalismo ha senso solo se c’è contestualmente una riforma dell’amministrazione. È questo il cuore del problema istituzionale, e se esso non viene affrontato qualsiasi “grande riforma” (presidenzialismo o federalismo) finisce per essere solo una grande illusione.
In che senso va cambiata l’amministrazione?
Io condivido le analisi e le proposte formulate nel libro di Bruno Dente, In un nuovo Stato, nel quale si ipotizza una radicale rottura dell’attuale struttura ministeriale e la costituzione di un insieme di strutture autonome, regolate al proprio interno da meccanismi di efficienza, in rapporto alla qualità del servizio. L’intera Amministrazione pubblica diviene così un sistema di autonomie funzionali.
Una politica diffusa
Di fronte alla cronica inefficienza dell’amministrazione, si è affermata la tendenza a creare “autorità indipendenti”. Ciò è il segno di una difficoltà e di un disagio. Ma è anche, in molti casi, il segno di una rinuncia a mettere davvero le mani in un’opera sostanziale di riforma della Pubblica amministrazione. Per questo, mi sembra che il tema delle “autonomie funzionali” non possa essere inteso come l’individuazione di un canale parallelo rispetto alle strutture amministrative dello Stato, ma al contrario come il filo conduttore della riforma delle strutture pubbliche. La riforma dello Stato consiste nella “funzionalizzazione” del suo ruolo, nella sua articolazione in rapporto alla domanda sociale. Il federalismo può divenire allora l’occasione per questa riforma, per questo ridisegno generale delle strutture dell’amministrazione, costruendo nelle Regioni non una duplicazione del modello ministeriale, gerarchico-burocratico, ma una rete di autonomie, sulla base di principi di efficienza e di flessibilità, in un rapporto reale con il contesto sociale esterno.
C’è un ultimo punto da considerare: il ruolo delle forze sociali e le forme di auto-organizzazione della società civile. È anche questo un aspetto essenziale, perché in una rinnovata concezione del ruolo dello Stato non solo va perseguito il massimo di decentramento possibile dal centro alla periferia, ma anche il massimo possibile di integrazione e di sinergia tra iniziativa pubblica e privata.
L’azione di Governo, a tutti i livelli, non può prescindere da un confronto sistematico con i diversi soggetti sociali, da un metodo di concertazione per individuare, nei diversi campi, il possibile punto di equilibrio tra i diversi interessi.
In questo senso si trasforma l’idea classica della politica, e cade la separazione astratta di politica e società, di interesse generale e interesse particolare, perché la politica non può che essere la costruzione di un processo complesso nel quale i diversi interessi sociali sono implicati. La politicità diviene una politicità diffusa. In questo contesto, si aprono nuove possibilità di ruolo istituzionale per le organizzazioni sociali, per il sindacato, per le Camere di Commercio, per un organismo come il CNEL che può essere riformato e rilanciato.
La politica, nella società complessa, non è racchiusa in un luogo esclusivo, ma è un insieme di luoghi, di sedi decisionali e chiama in causa diversi soggetti istituzionali e sociali. Da questa pluralità di sedi può venire anche un impulso nuovo alla partecipazione, all’esercizio di responsabilità, alla condizione che si affermi, nei diversi campi, un processo di democratizzazione e di sburocratizzazione.
Ciò vale per il sindacalismo confederale, che può essere un attore istituzionale rilevante, e che proprio per questo suo ruolo deve garantire al proprio interno regole certe di democrazia. E ciò vale per i diversi soggetti in cui si articola la poliarchia di una società complessa.
Ciò vale anche per le strutture pubbliche, la cui autonomia deve significare una capacità nuova di dialogo con la società civile, con le sue associazioni, con i movimenti organizzati dei cittadini e degli utenti.
Per questa via, riconoscendo la complessità e il pluralismo sociale, e modellando la struttura dello Stato su questa complessità, possiamo costruire le istituzioni politiche e democratiche adeguate a questa fase, e possiamo così rispondere alle domande e alle incertezze di questa difficile transizione.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1996, settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Impresa e stato”, settembre 1996, pp. 45-47