PERCHÉ È GIUSTO DIFENDERE LA COSTITUZIONE

di Riccardo Terzi

Per quali ragioni è importante che anche una organizzazione sindacale affronti i temi istituzionali, i quali sembrano essere estranei al suo lavoro quotidiano? Quando parliamo della Costituzione, parliamo del patto che fonda lo convivenza civile, e quindi tutti ne sono coinvolti, tutti senza eccezioni. La politica costituzionale non può essere un affare riservato agli specialisti, perché essa riguarda il tessuto connettivo della nostra società, riguarda i valori di fondo che lo costituiscono. Inoltre, l’ordinamento costituzionale ha una ricaduta concreta sul sistema dei diritti, civili e sociali. Non è affatto un ordinamento neutro, ma può agire in diverse direzioni, e rispetto all’iniziativa del sindacato può avere l’effetto di aprire o di chiudere degli spazi, di offrire un fondamento giuridico alla battaglia per i diritti del lavoro, o viceversa di negare questo fondamento. Ora, si tratta innanzitutto di cogliere questo rapporto, di cui non sempre abbiamo consapevolezza. Occorre per questo un’opera di chiarificazione, per rendere evidente qual è la posta in gioco in tutta la discussione sulle riforme costituzionali.

Nella storia del movimento operaio c’è stata spesso una sottovalutazione di questo tema. Da un lato, c’è lo tendenza a considerare gli aspetti istituzionali come delle sovrastrutture giuridiche che non hanno alcuna attinenza con lo concretezza della vita sociale, per cui l’unica cosa che conta è il movimento, lo lotta sociale, e l’ordinamento giuridico non ha, in questa rappresentazione, nessun peso significativo. Dall’altro lato, c’è l’idea che i problemi costituzionali sono una volta per tutte risolti, che si tratta quindi solo di difendere la Costituzione, vedendo in ogni progetto di riforma, quale che sia il suo contenuto, un attentato alla democrazia. In entrambi i casi i problemi istituzionali passano in secondo piano, o perché irrilevanti, o perché già definitivamente risolti.

Occorre allora chiarire in quale senso sia giusto e necessario “difendere lo Costituzione”.

La Costituzione è il fondamento della nostra vita collettiva, è il patto unitario che regola l’intera vita democratica e civile del paese. Per questo, non deve esser soggetta a continue oscillazioni, non deve dipendere dalla variabilità delle maggioranze di governo e delle contingenze della politica. Essa sta su un piano assolutamente diverso rispetto alla legislazione ordinaria, e deve avere una sua stabilità, deve durare nel tempo. Qualsiasi operazione di riforma costituzionale richiede perciò una estrema prudenza, e non può essere dettata dalle convenienze politiche del momento, o dai calcoli di opportunità della maggioranza di turno, perché così ne verrebbe stravolto il suo significato, il suo essere il fondamento comune della vita democratica, che legittima il conflitto politico, ma ne resta al riparo, in quanto non è, non deve essere, l’espressione di una parte.

Nello stesso tempo, lo Costituzione non è un corpo morto, ma si deve misurare con i grandi cambiamenti della società, e possono rendersi necessarie nel tempo correzioni anche sostanziali. Di riforme costituzionali, in Italia, si parla da tempo, e in diverse fasi il Parlamento ha dato vita ad apposite Commissioni per discutere dei progetti di riforma. L’ultima occasione è stata quella della Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema, i cui risultati infine sono finiti nel nulla, perché è mancato l’accordo tra le forze politiche. Tutti questi tentativi avevano il fondamentale difetto di voler produrre una generale “riscrittura” della Costituzione, con tutti i rischi, quindi, di una manipolazione disinvolta dell’ordinamento attuale, non sufficientemente elaborata e giustificata. Può essere più utile invece procedere per singole e parziali correzioni, là dove effettivamente vi sia la necessità e vi sia il consenso politico sufficiente.

Sul secondo punto, quello dell’equilibrio dei poteri, tutte le costituzioni moderne si pongono il problema di impedire una eccessiva concentrazione del potere, di limitare il potere, di tenerlo sotto controllo, predisponendo tutta una serie di contrappesi, di garanzie, in modo che sia bloccata sul nascere la possibilità di una degenerazione di tipo autoritario. A questi due temi possiamo aggiungere un terzo punto, che è stato sicuramente importante nell’orientamento della nostra Assemblea Costituente: come impedire il ritorno della guerra. Dopo la catastrofe della guerra mondiale, si poneva con estrema urgenza la necessità non solo di una netta affermazione di principio, per cui l’Italia «ripudia la guerra», ma della costruzione di istituzioni e di norme giuridiche internazionali che siano in grado di garantire la pace e di risolvere politicamente i conflitti tra gli Stati. L’Europa, che è stata il teatro delle guerre più sanguinose, ha cercato una risposta a questa necessità, e il progetto dell’unità europea è il modo in cui l’Europa cerca di superare le sue passate lacerazioni. Ma il tema della guerra oggi ritorna, e da varie parti si tenta una nuova giustificazione e legittimazione, dietro il paravento della difesa dei diritti umani o dell’affermazione dei principi democratici. Anche per questa via, il vincolo costituzionale finisce per essere aggirato.

Ho richiamato questi principi generali, perché è con questo metro che dobbiamo valutare le proposte di riforma costituzionale che sono oggi in campo, su iniziativa della maggioranza di centro-destra. Quali sono i punti critici di questa proposta? In primo luogo, si delinea un sistema politico accentrato nella figura del primo ministro, il quale viene legittimato da una procedura di elezione diretta, introducendo così una logica plebiscitaria che è estranea alla nostra tradizione parlamentare, e che è del tutto distante anche dagli altri modelli europei. Al primo ministro viene attribuito il potere di scioglimento delle Camere, sottraendolo alla suprema istituzione di garanzia che è rappresentata dal Presidente della Repubblica. Con queste due misure (elezione diretta e potere di scioglimento) il primo ministro diviene l’unico arbitro del sistema politico, senza contrappesi, e con un Parlamento indebolito e sottoposto al continuo ricatto del suo possibile scioglimento.

Il criterio fondamentale della divisione dei poteri viene quindi completamente eluso, e si introduce un modello che non ha eguali nelle moderne democrazie. Anche nei sistemi presidenziali, infatti, c’è un preciso equilibrio, perché Presidente e Parlamento sono due poteri che hanno una loro autonoma legittimazione, per cui il Parlamento non può sfiduciare il Presidente e il Presidente non può sciogliere il Parlamento. Tra i due poteri c’è una dialettica e un reciproco condizionamento.

Il secondo aspetto critico è l’ulteriore modifica del titolo V°, in materia di federalismo, con l’introduzione della cosiddetta devolution, che è stata il cavallo di battaglia della Lega. Mentre nella riforma approvata nella passata legislatura c’è un equilibrio tra regolazione statale e autonomie territoriali, c’è un sistema che deve funzionare attraverso la cooperazione tra i diversi livelli istituzionali, ora invece alcune competenze vengono attribuite in via esclusiva alla legislazione regionale, e si tratta di competenze che interessano alcuni diritti fondamentali di cittadinanza: la sanità, l’istruzione, la sicurezza. Si rompe così, in alcuni punti nevralgici, l’unitarietà dei diritti di cittadinanza, con l’effetto di allargare il divario tra regioni ricche e regioni povere, tra il Nord e il Sud del Paese. Inoltre, il problema, che era rimasto irrisolto, di una riforma del Parlamento con l’istituzione di un Senato federale, che sia rappresentativo delle istituzioni locali, non trova una effettiva e convincente soluzione, perché il nuovo Senato è “federale” solo di nome, e continua ad essere eletto a suffragio universale, con un meccanismo politico del tutto tradizionale, senza nessun rapporto con i poteri locali. I rappresentanti delle Regioni e degli Enti Locali potranno avere solo una funzione “consultiva”, il che significa qualcosa di meno rispetto alla prassi attuale della “concertazione” nella conferenza Stato-Regioni.

C’è infine un problema di funzionalità complessiva del sistema. Ci sono infatti tutte le premesse per una conflittualità permanente ed endemica tra i diversi livelli istituzionali (Camera e Senato, Stato e Regioni), senza che vi siano poteri arbitrali e di garanzia sufficientemente forti e autorevoli. Anzi, tutta l’ispirazione della riforma si basa sul principio che tutti i poteri spettano alla maggioranza politica, la quale non deve essere impacciata da vincoli esterni e deve poter realizzare il suo programma di governo senza rendere conto a nessuno, se non agli elettori nella successiva tornata elettorale. Il sistema proposto è una dittatura della maggioranza, e la stessa maggioranza di governo si esprime solo attraverso la funzione del primo ministro. Per la stessa Corte Costituzionale, che è l’organo di garanzia dell’intero sistema, si prevedono modifiche nella sua composizione, aumentando il numero dei membri eletti dal Parlamento, con il rischio di una sua politicizzazione e di una sua minore autonomia rispetto al sistema politico.

Noi abbiamo operato, in tutti questi anni, per una riforma dello Stato che renda più efficiente e più vicina ai cittadini l’amministrazione pubblica, e in questo senso ci siamo misurati costruttivamente con le riforme amministrative promosse dal Ministro Bassanini, e abbiamo incoraggiato un’idea di federalismo che fosse basata sull’autogoverno territoriale e sulla solidarietà nazionale. Ora, di tutto questo non c’è nulla nelle proposte del centrodestra. C’è invece una ricentralizzazione, che indebolisce tutto il tessuto democratico del Paese. Per tutte queste ragioni, il nostro giudizio è del tutto negativo. Se questa riforma costituzionale dovesse andare in porto, dobbiamo prepararci ad affrontare il referendum, per il quale non c’è il quorum, ma conta la maggioranza dei voti. Prepararci al referendum vuoi dire anzitutto conoscere il problema, partecipare ad una campagna di informazione, di discussione pubblica, in modo che poi ciascuno possa decidere con conoscenza di causa, possa cioè fare un uso responsabile e consapevole del suo diritto di voto. Anche il sindacato deve essere in questa campagna una forza attiva, e dovrà coinvolgere e responsabilizzare tutti suoi iscritti. La qualità della nostra vita democratica ci riguarda tutti. Non dobbiamo permettere che la nostra democrazia venga svuotata.


Numero progressivo: E31
Busta: 5
Estremi cronologici: 2005, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Nuovi Argomenti SPI”, n. 2, dicembre 2005, pp. 7-10