PER UN’ALTERITÀ POLITICA DEL SINDACATO
di Riccardo Terzi
Abstract
L’intervento ricostruisce brevemente il rapporto tra sindacato e politica nel Secondo dopoguerra, in Italia, distinguendo tre diverse fasi: una prima fase di sussidiarietà del sindacato rispetto all’egemonia del partito politico, seguita da un momento di forte discontinuità – il cosiddetto “pansindacalismo” – e un’ultima fase caratterizzata dalla “concertazione”. L’autore si interroga quindi sulla fase attuale per comprendere le ragioni di una sempre più forte spinta della politica contro ogni logica concertativa. Tale opposizione si associa alla destrutturazione in atto delle categorie del politico progressivamente sostituite da un paradigma del potere di matrice tecnocratica che prescrive l’esercizio del governo da parte di un leader e offusca tanto lo spessore di qualsiasi progetto politico quanto la partecipazione del corpo sociale alla vita democratica. Il sindacato non può adeguarsi a questo svuotamento della politica e nemmeno opporvisi con una strategia restaurativa, comunque subalterna, ma deve promuovere un nuovo modello sociale a partire dalla propria “alterità” progettuale e organizzativa.
The union trade: political alterity
This intervention briefly rebuilds the relationship between trade unions and Second World War politics in Italy, distinguishing three different phases: an initial phase of a subsidiarity union compared to the hegemony of the political party, followed by a moment of strong discontinuity – the so-called “Pan-unionism” – and a final phase characterised by “consultation”. The author raises the question of the current phase in order to understand the reasons for an increasing political drive against all consultative logic. This opposition is associated with the deconstruction, in place at the moment, of political categories which are progressively replaced by a technocratic paradigm of a power matrix requiring exertion by a government leader, so obscuring the depth of any political project as well as the participation of a social democratic life. The union cannot adapt to this emptying of politics and can neither oppose it with a restorative strategy, however subordinate, but must promote a new social model from its “alterity” design and organisation.
1) Sindacato e politica: un rapporto a fasi alterne
Sindacato e politica: non possiamo parlarne come se fossero due categorie stabili, identiche nel tempo, ma dobbiamo cogliere questa relazione nel suo mutamento, nella sua evoluzione; oggi tutto il quadro appare profondamente sovvertito, e per questo non funzionano più gli schemi teorici che abbiamo usato nel passato. Nella storia di questa relazione tra il politico e il sociale possiamo distinguere tre fasi, tre diversi modelli, i quali non danno luogo, nella realtà, ad un’evoluzione lineare, ma sono tra loro variamente intrecciati, come sempre accade nella complessità del reale.
Un primo momento vede il ruolo egemone del partito politico, rispetto al quale il sindacato svolge una funzione sussidiaria e subordinata. Il partito è il luogo della sintesi, della visione strategica, della piena maturazione della coscienza di classe, e qui si tratta ovviamente di quel campo politico che ha il suo fondamento, pratico e teorico, nella realtà del movimento operaio. In questa visione, il sindacato è il momento della coscienza economico-corporativa, un momento del tutto necessario, che ha la funzione di organizzare una larga mobilitazione di massa, che però a un certo punto viene superata, con il passaggio dalla dimensione economica parziale alla dimensione politica più generale. Da un lato, dunque, sta l’immediatezza delle organizzazioni di massa che danno forma al livello più elementare dei bisogni e delle rivendicazioni dei diversi strati popolari, dall’altro, ad un livello superiore, sta la centrale strategica che dà un indirizzo unitario a tutta la molteplice rete dei movimenti (come si direbbe oggi). Questa è stata, in effetti, la configurazione storica dominante fino agli anni ‘60, in particolare, in tutto il campo che ruotava intorno al PCI, di esplicita e dichiarata vocazione egemonica, mentre il rapporto partito-sindacato era più flessibile per il PSI, e assumeva una forma del tutto peculiare nella DC, in quanto partito interclassista, attento a coltivare una trama multiforme di relazioni sociali.
Una decisa rottura di questo schema si produce con l’autunno caldo, col sindacato dei consigli, con l’unità sindacale, e si tratta di un vero e proprio rovesciamento, perché nasce un sindacalismo di tipo nuovo, che rifiuta qualsiasi intromissione da parte della politica e si candida ad essere protagonista della trasformazione sociale del Paese. Questa svolta si riassume nella formula, coniata da Pierre Camiti, del sindacato come “soggetto politico”, con la quale si vuole indicare che il sindacato ha in se stesso lo spessore politico la visione generale, lo sguardo strategico, e che non ha nulla da imparare dalla politica strettamente intesa. È una sorta di irruzione dell’eresia, che fa saltare tutta l’apparente compattezza e razionalità degli schemi teorici tradizionali, e a questa eresia si dà, con un’accezione negativa, il nome di “pansindacalismo”, intendendo con ciò una pretesa abnorme e velleitaria di allargare gli spazi del sindacato, invadendo un campo che non gli è proprio, e negando la superiore funzione regolatrice della politica. A proposito di eresie, si può dire che per fortuna esse ogni tanto compaiono, e talora hanno anche la forza di deviare il corso della storia, di produrre uno strappo nella sua evoluzione. Nella vicenda storica del sindacato, sono quelli gli anni della sua massima espansione e delle conquiste più avanzate, dovute soprattutto alla straordinaria spinta unitaria che viene dal basso, la quale però non riesce a produrre il salto, pur se a un certo punto era sembrato a portata di mano, verso una nuova organizzazione unitaria. Quella stagione si chiude, alla fine, con una soluzione fragile e compromissoria, in bilico tra unità e pluralismo, tra autonomia e dipendenza dalla politica, tra spinta democratica e controllo burocratico.
La terza fase è quella caratterizzata dai grandi patti concertativi. Potremmo dire che la battaglia per l’egemonia, tra l’affermazione del primato della politica e la sfida irriverente del pansindacalismo, si conclude con un impegno reciproco a negoziare sulle materie di comune interesse, con uno “scambio” nel quale ciascuna parte trova legittimazione e spazio. Il momento più significativo, in questa direzione, è il protocollo d’intesa siglato con il governo Ciampi, per il quale è stato determinante l’apporto di Bruno Trentin, allora segretario generale della CGIL. Ma anche questa è una stagione di breve durata, e quell’equilibrio si spezza. Non è questa la sede per una ricognizione approfondita intorno ai risultati e ai limiti della concertazione. Mi interessa piuttosto cogliere le tendenze e i mutamenti che sono in atto, per capire come si è giunti ad una rottura, ad uno stravolgimento di fondo delle relazioni tra politica e sindacato, al punto che oggi l’intero versante della politica è impegnata a rimuovere ogni possibile traccia riferibile a una logica concertativa.
2) L’involuzione della politica, dal progetto alla tecnica
Dove va la politica? E forse la domanda è più radicale: esiste ancora uno spazio politico, o esso si è dissolto? Possiamo ancora usare la parola “politica” per descrivere l’attuale condizione? lo tendo ad interpretare l’attuale passaggio come una destrutturazione di tutte le categorie del politico. In ogni caso, è evidente un salto di sistema, l’irrompere di una configurazione del tutto inedita dello spazio pubblico. Questa mutazione consiste nel passaggio dalla logica della rappresentanza alla logica del potere, dallo spazio democratico, che resta sempre aperto al confronto delle idee e delle proposte, verso un diverso modello, dove le idee sono del tutto soppiantate dalla competizione oligarchica per l’accesso alle posizioni di comando, nell’indifferenza per i contenuti e nella generale accettazione dei capisaldi ideologici che regolano il funzionamento del sistema. L’oggetto del conflitto politico non è più “che cosa” fare, ma “chi” lo fa, all’interno dei vincoli indiscussi di un comune modello tecnocratico. La politica è solo l’arte della manutenzione tecnica del sistema.
In questa logica, è chiaro che il rapporto con il sindacato non ha alcuna rilevanza, anzi tale rapporto viene inteso come un impaccio di cui occorre liberarsi, proprio perché il potere si è affrancato dai vincoli della rappresentanza e intende agire nella sua pienezza e nella sua totale discrezionalità. La concertazione viene relegata nel deposito degli attrezzi ormai inservibili, e lo stesso sindacato viene visto come un ostacolo, come una forza di conservazione, come un inciampo sulla via della modernizzazione del sistema. Non si tratta più solo di una diversa sensibilità tra destra e sinistra, di una fisiologica differenziazione fra le parti, ma dell’affermazione pervasiva di una nuova logica di sistema, che investe in profondità tutte le forme della politica. La politica stessa ne esce del tutto trasformata e prosciugata, perché il mezzo si è sostituito al fine, la tecnocrazia al progetto, e la governabilità, ovvero l’esercizio del potere, è l’unico valore che sopravvive. Al conflitto tra destra e sinistra si sostituisce il conflitto tra politica ed antipolitica, tra razionalità del sistema e irrazionalità della protesta.
Stiamo entrando in un nuovo universo simbolico e ideologico, nel quale tutti i nostri tradizionali criteri di valutazione finiscono per essere spiazzati, senza alcuna presa sulla realtà, perché è cambiata la logica, è cambiato il linguaggio, e si viene affermando un diverso stile di vita e di pensiero. Forse si è avverato l’antico sogno dell’avvento di un “uomo nuovo”, con la variante imprevista che non si tratta del “regno della libertà”, ma dell’infinito adattamento. Alle antiche e forse ingannevoli rappresentazioni ideologiche si sostituisce una ragnatela nella quale tutti ci troviamo impigliati. Un giudizio così drastico può apparire come una delle tante lamentazioni nostalgiche sulla decadenza della nostra civiltà, sul tramonto dell’Occidente, come la reazione impotente e rabbiosa di chi non sa più essere in sintonia con i ritmi del cambiamento. Ma vediamo i fatti, i dati concreti di questo cambiamento di fase.
Anzitutto, c’è il fatto della definitiva uscita di scena del partito politico. L’ultimo partito che era sopravvissuto alla catastrofe, il Partito Democratico, ha compiuto una straordinaria innovazione con il ricorso alle primarie aperte a tutti per la scelta del suo segretario, un’innovazione di successo, indubbiamente, ma il risultato di questo successo è che il partito si è dissolto, e ad esso si sostituisce l’investitura plebiscitaria del leader. Molti si affrettano a ricordare che la politica ha sempre avuto bisogno di figure autorevoli e carismatiche; ma qui tutto il rapporto viene rovesciato: non c’è una comunità politica che si riconosce in un capo, ma c’è un capo che si sostituisce alla comunità. Il partito, in quanto tale, in quanto organizzazione collettiva, è del tutto evaporato, e sopravvive solo come struttura di servizio, come infrastruttura tecnica che agisce da supporto nella competizione di vertice per il potere. E la forza di Matteo Renzi sta proprio in questo, che il “popolo di sinistra”, ormai del tutto privo di qualsiasi ancoraggio ideologico, ha solo l’ansia spasmodica di vincere, a qualsiasi costo, e in questo c’è piena sintonia tra la massa e il leader, perché entrambi stanno dentro questo processo di svuotamento della politica. In questo senso, Renzi è una figura assai significativa, perché interpreta in modo coerente e radicale questo passaggio di fase e si presenta senza infingimenti come l’incarnazione di questo nuovo modo di sentire, dove non sono più in gioco le idee, ma solo il successo, dove quindi la stessa politica si rattrappisce nel gioco tattico, nell’iniziativa mediatica, nell’immagine, non avendo altri fini che quello dell’accesso al potere.
Troviamo una conferma illuminante di questo nella proposta di una nuova legge elettorale, la cui unica ratio è quella della governabilità, con uno stravolgimento totale del principio della rappresentanza. A questo punto, non solo non ci sono più i partiti politici, ma non c’è più una democrazia parlamentare, e c’è solo una sorta di lotteria bipolare per dare all’uno o all’altro campo pieni e straripanti poteri. Premio di maggioranza, soglia di sbarramento altissima, spinta forzata a stare comunque in una coalizione, totale controllo di vertice sulle candidature: l’effetto combinato di tutte queste misure è un Parlamento che si riduce ad essere solo la cassa di risonanza del leader vincente, senza più nessun rapporto con la complessa articolazione politica e sociale del Paese. Ma anche questa operazione, che rappresenta una inaudita violazione degli equilibri costituzionali, rientra a pieno titolo in quel nuovo universo simbolico di cui abbiamo parlato, in quella mutazione culturale e antropologica che stiamo attraversando. La semplificazione autoritaria in atto riflette gli umori della società civile, riflette quella generale insofferenza per il pluralismo, per la complessità, per le mediazioni, in sostanza per la politica, che costituisce il sottofondo melmoso e aggressivo di una società che, avendo perso la sua forza regolatrice, cerca una scorciatoia nella mitologia decisionista. Purché si decida, in fretta, senza perdere tempo con le lungaggini della democrazia, tutto è giustificato. E le minoranze devono solo rassegnarsi alla sparizione, perché il decisore, chiunque esso sia, deve avere le mani libere e non può essere intralciato in questo suo lavoro dagli eterni fomentatori del dubbio, o dai professionisti del conflitto. Nessuna eresia è ammessa: c’è chi comanda, e chi deve obbedire.
Non so se con queste nuove regole vincerà la coalizione di destra o quella di sinistra, ma so per certo che il sistema che viene impiantato è radicalmente di destra, nella sua essenza, e diviene quasi ininfluente quale sarà il risultato della prova elettorale. Le rappresentanze sociali, in questo nuovo sistema, sono relegate in una posizione di totale irrilevanza, perché esse hanno un senso e un ruolo solo se c’è uno spazio democratico aperto, se c’è un confronto e un’attitudine alla mediazione, mentre nel paradigma della democrazia decisionista tutto questo è negato alla radice e il vero statista è quello che sa prendere le decisioni più impopolari. In questo nuovo contesto, tutto ciò che sfugge alla logica stringente del sistema viene pregiudizialmente respinto e bollato come un segno dell’antipolitica, o del populismo. In realtà, tra il politico e l’impolitico non c’è un confine chiaro, rigidamente tracciato, e ciò che appare come impolitico non è altro che una variante del politico, un diverso progetto, una diversa idea di società, spesso del tutto inaccettabile o velleitaria, ma tutto questo fermento dell’impolitico va comunque analizzato e compreso, senza chiudersi nell’arroganza intellettualistica di chi ha la verità dalla sua parte, e vede solo come deviazione tutto ciò che mette in discussione il pensiero politico ufficiale e istituzionalizzato.
È nelle pieghe dell’impolitico che dobbiamo saper scavare, perché in ogni caso qui troviamo i segni di una società lacerata, non pacificata, e troviamo forse i germi di qualcosa di nuovo che può essere fatto crescere. Appiattirsi nella difesa istituzionale del sistema vuol dire solo adattarsi ad un modello politico che non lascia ormai più nessuno spazio alla diversità, al conflitto, ad una progettualità innovativa. Resta solo la falsa retorica consolatoria di un sistema che si autocelebra come l’unica possibile razionalità. In questa crisi della politica, in questa sua metamorfosi, anche il sindacato rischia di essere trascinato e coinvolto. E in effetti oggi le grandi organizzazioni sindacali sono avvertite, a ragione o a torto, come un anello del sistema di potere, come una struttura sussidiaria che continua a cercare la sua legittimazione nel rapporto con la politica.
3) Il sindacato come alterità politica e organizzativa
Si apre a questo punto una discussione assai complicata e impegnativa sulle prospettive del sindacato, sul suo destino, sulla sua stessa identità. Ed è chiaro che non basta ribadire il principio dell’autonomia, perché essa può essere declinata in forme assai differenti e perché comunque occorre una risposta nuova, capace di misurarsi con i profondi cambiamenti che sono intervenuti nell’assetto politico-istituzionale, nella cultura politica dominante, nel funzionamento del sistema democratico. La risposta più accessibile, per il sindacato, è quella di ritagliarsi uno spazio corporativo proprio, senza entrare in collisione con i nuovi meccanismi della politica. È una strada praticabile, lungo la quale il sindacato abbandona ogni pretesa di costituirsi come “soggetto politico” e si limita a svolgere una funzione di servizio, negli spazi stretti che gli vengono lasciati, sia sul territorio che nell’impresa, accettando di essere uno strumento di lubrificazione del sistema, di intervento ex post sugli effetti sociali delle decisioni politiche e strategiche che vengono prese in altra sede, fuori da ogni possibilità di intervento e di controllo delle organizzazioni sociali. È l’antica tesi conservatrice per cui ciascuno deve stare al proprio posto, come insegna il famoso apologo di Menenio Agrippa: “a ciascuno il suo mestiere”. Al sindacato può essere riconosciuta una funzione solo se accetta un ruolo del tutto subordinato, senza mettere in discussione il modello sociale e istituzionale da cui è regolato l’intero sistema.
A questa traiettoria si oppone, in modo speculare, l’idea di un sindacato che si fa opposizione politica, centro di resistenza al sistema dominante, e che, proprio per questo, resta nell’attesa di trovare finalmente un interlocutore politico, di ripristinare quell’antico rapporto tra sociale e politico che è stato spezzato. Si continua così a pensare dentro lo schema del primato della politica, dentro una visione che tiene ancora insieme i due momenti, senza prendere atto della definitiva rottura che si è consumata. La divisione sindacale di questi ultimi tempi ha qui la sua radice, in questa divaricazione delle risposte di fronte al nuovo quadro politico, in questa oscillazione tra adattamento e politicizzazione. Ma entrambe queste risposte finiscono per essere insufficienti e subalterne, perché continuano ad essere pensate dentro uno schema ormai sorpassato. Sindacato collaborativo, o di opposizione politica, sono le due facce di una incompiutezza, nelle quali il soggetto sociale non prende pienamente coscienza della sua autonomia, del suo essere altro, del suo punto di vista radicalmente distinto rispetto alle logiche della politica.
In questo senso, è la parola alterità quella che mi sembra più pertinente, perché indica che i due percorsi, del sociale e del politico, stanno su piani diversi, non sovrapponibili. Ciò non vuol dire negare la politica, o assumere una posizione di indifferente neutralità, ma che il sociale stabilisce con la politica un rapporto che è di sfida e di competizione. Così stanno le cose oggi in Italia, mentre non escludo affatto che in altri Paesi ci possano essere sviluppi diversi. Non intendo stabilire una legge generale, ma solo cercare le risposte più adeguate ad una situazione che vede una fortissima accelerazione dei cambiamenti politici e istituzionali.
Da questo modo di intendere il ruolo attuale del sindacato, come forza che gioca fino in fondo la sua partita per l’egemonia, con un lavoro di organizzazione e di progettazione che sta tutto nel perimetro del sociale, senza interferenze esterne, discendono numerose e complesse implicazioni: sulle forme organizzative, sullo stile di lavoro, sulla selezione dei dirigenti, sulle regole della democrazia interna. Non affronto ora questo ordine di questioni, ma vorrei solo chiarire che tutto deve essere messo in discussione, perché è un nuovo modello sindacale quello che a questo punto occorre realizzare, e c’è bisogno di una nuova leva di quadri per attuare questa svolta.
La logica della continuità, della stabilizzazione, della difesa di un modello organizzativo collaudato: questo è il rischio micidiale che dobbiamo assolutamente evitare, perché vuol dire non cogliere la drammaticità delle alternative di fronte alle quali siamo posti. L’organizzazione resta comunque un punto di forza da cui non si può prescindere; essa però non è un dato oggettivo, ma è solo l’insieme delle soluzioni che vanno costruite, in coerenza con le scelte strategiche che di volta in volta vengono compiute. È quindi urgente aprire un cantiere per l’innovazione, per la sperimentazione di nuove forme organizzative, per un sindacato che si metta radicalmente in gioco, e che voglia rappresentare, nell’attuale crisi di sistema, il luogo in cui raccogliere le energie e le potenzialità di una nuova stagione democratica.
Busta: 5
Estremi cronologici: 2014, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Con bozza
Pubblicazione: “Economia e società regionale”, n. 32, 2014, pp. 48-57. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” con il titolo “Sindacato e politica”, pp. 179-187