PER LA DIGNITÀ DELLA PERSONA: RIFLESSIONI SULLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Convegno Nazionale SPI CGIL - Napoli 26-27 marzo 2007
Introduzione di Riccardo Terzi – Segretario nazionale SPI CGIL
Il nostro intento è quello di esplorare, attraverso il concetto di “dignità”, le contraddizioni e i conflitti della nostra società contemporanea. Perché partire dalla dignità? C’è una prima ragione, politica e costituzionale, in quanto la dignità ha assunto nella Carta dei diritti dell’Unione europea il rango di un principio fondativo, che sta alla base dell’intera categoria dei diritti. È solo un’affermazione retorica, senza nessuna forza cogente, come qualcuno sostiene, e quindi questo incipit della Carta è il segno del suo arretramento rispetto alla stagione delle costituzioni sociali? Ci sarebbe in questo caso un salto teorico dal “lavoro”, ovvero da un principio sociale, con cui si apre la nostra Costituzione nazionale, a un principio di diverso segno, che rispecchia il carattere ormai individualistico delle nostre società. Che ci sia anche questo cambiamento di humus culturale non c’è dubbio. Ma non regge la tesi di una ormai compiuta resa teorica al liberismo conservatore, una tesi che viene usata strumentalmente dagli avversari del progetto europeo: l’Europa come costruzione artificiale che si fonda solo sulla logica del mercato, senza vedere che il rapporto tra politica ed economia viene messo universalmente in crisi, e la politica può ricostruire il suo spazio e la sua funzione regolatrice solo se riesce ad agire su una scala tendenzialmente globale, superando i confini nazionali che già sono stati travolti dai processi economici reali. E il principio di dignità non è affatto un principio neutro, socialmente irrilevante, perché esso mette a nudo tutto il grande tema dell’autonomia della persona e della qualità sociale delle relazioni in cui essa è inserita. Rispetto alla libertà di mercato, che implica l’infinita possibilità di manipolazione della libertà personale, la dignità fissa un argine, in quanto guarda alla società a partire dalla persona e dalla sua originaria dotazione di diritti. Naturalmente, tutto ciò deve essere tradotto in principi giuridici vincolanti, in un sistema di norme, in una intelaiatura concreta di diritti esigibili, ed è sempre presente il rischio che la dignità finisca per essere solo un’astrazione, un vuoto orpello ideologico, con una funzione solo di copertura e di occultamento delle relazioni sociali oggettive. Ma questo ormai è il destino di tutte le parole, di essere un campo di battaglia. Il lavoro teorico deve saper ricostruire l’universo dei significati, il che vuol dire vedere i singoli concetti dentro il conflitto che li rende significativi, dentro la dialettica sociale che dà un senso a tutto il nostro linguaggio. Quando si perde la dimensione del conflitto, si perde anche il significato delle parole, perché la parola definisce in quanto esclude, afferma in quanto nega il suo contrario. Allora anche la dignità prende senso nel momento in cui si definisce a che cosa essa si oppone, quali sono le forze e le situazioni che la negano, quale il campo conflittuale nel quale essa assume il suo significato concreto. La dignità va quindi pensata come un processo di liberazione. È questo un esercizio semantico indispensabile, nel momento in cui tutte le parole sembrano affogare in una palude indistinta, nella quale si perdono le differenze: tutti democratici, tutti riformisti, tutti progressisti. Tutti, e quindi nessuno.
In secondo luogo, l’attualità del problema sta nel fatto che si è aperto un grande dibattito, etico e politico, intorno a ciò che significa libertà della persona, e in questo dibattito tornano ad affiorare antiche contrapposizioni ideologiche che sembravano essere riassorbite. Laici e cattolici tornano a scontrarsi in un conflitto teorico che tocca i principi e i valori di fondo su cui regolare la nostra vita, individuale e collettiva. Dove sta il cuore di questa discussione? Da un lato c’è l’idea relativistica della libertà, in quanto a ciascuno è data la possibilità di scegliere in autonomia il proprio progetto di vita, dall’altro c’è la necessità di un vincolo morale oggettivo, che traccia a priori i confini entro i quali la libertà deve essere disciplinata. La famiglia tradizionale come unico modello, o la possibilità di diverse forme di convivenza. Le radici cristiane dell’Europa, o il riconoscimento di un pluralismo di culture e di fedi. La vita e la morte come tempi scanditi da una necessità superiore, o la possibilità di un intervento umano, di una soggettività che cerca di riappropriarsi del suo destino. In breve, la tradizione come regola di vita, o l’apertura verso nuove possibili forme di vita e di pensiero. Non dobbiamo affatto banalizzare questa discussione e prendere una posizione manichea, perché tra tradizione e libertà dobbiamo saper costruire un ponte che le metta in comunicazione. Anche il concetto di dignità è preso dentro questo conflitto, e può essere diversamente declinato e interpretato. Può esserci una versione tutta soggettivistica, secondo la quale la dignità coincide totalmente con l’autonomia personale e non ammette nessun vincolo esterno. Sull’altro versante, la dignità della persona consiste in un processo di adeguamento alla norma, ed essa si configura quindi non come una scelta, ma come una condizione di equilibrio, in cui la soggettività viene disciplinata. Entrambi questi estremi ci possono condurre verso esiti non accettabili: un individualismo radicale che dissolve i legami sociali, o il dominio autoritario della comunità, che riconosce e include la persona solo in quanto essa si lascia plasmare passivamente da quella terribile forza ideologica che è il senso comune. Cerchiamo allora un diverso approccio. E lo possiamo trovare se pensiamo alla persona nel contesto delle sue relazioni sociali, e se la stessa dignità è affidata alla qualità di queste relazioni, al processo reciproco di riconoscimento, intendendo quindi la libertà come un bene non solo individuale, ma sociale. Tutto ciò lo troviamo già scritto nella nostra Costituzione, che rappresenta un punto fondamentale di sintesi tra le diverse culture politiche. Va riconosciuto a merito del cattolicesimo democratico il principio del “primato della persona”, l’idea cioè di un corpus originario di diritti che viene prima della legge, prima dello Stato, che viene quindi non fondato, ma riconosciuto dall’ordinamento giuridico. E nello stesso tempo la Costituzione considera la persona come inseparabile dalle sue relazioni sociali, per cui la sua autonomia si inquadra non in un orizzonte individualistico, ma relazionale e sociale, e implica quindi un’assunzione di responsabilità.
È questo il filo conduttore che ci può aiutare, anche oggi, a dirimere le insorgenti controversie politiche e ideologiche. Rispetto a questa tradizione, c’è oggi una novità nelle posizioni della Chiesa cattolica, perché al primato della persona sembra subentrare il primato della legge, e l’obiettivo strategico sembra essere quello di imporre giuridicamente, per via politica e statuale, un sistema di norme a sostegno e a presidio della morale cristiana. È come un passo a ritroso dal Nuovo all’Antico testamento, da una religione che sta nel cuore degli uomini a una religione che si identifica con la Legge, con un sistema oggettivo di norme e di divieti. È una via azzardata, perché immette il discorso religioso, direttamente, nel cuore della politica, con tutti i rischi, da entrambi i lati, di un rapporto strumentale. Se non c’è più una linea di distinzione tra il piano religioso e quello politico, ciò che si produce è una forma di fondamentalismo. Si mette a rischio il carattere laico e democratico del nostro ordinamento, in quanto la politica non è più pensata come il luogo della mediazione, ma della contrapposizione non negoziabile tra diversi e opposti valori. A questo possibile esito occorrere agire, riprendendo il filo concettuale della nostra Costituzione, tornando cioè a considerare la persona come un soggetto attivo, dotato di autonomia e di responsabilità. E il concetto di dignità può essere il filo conduttore di questa ricerca, la dignità vista nella relazione, come reciprocità del rapporto interpersonale, come riconoscimento dell’altro. Nel corso del convegno esamineremo distintamente i tre momenti della vita, della cittadinanza, e della socialità. Ma questa distinzione ha solo una utilità pratica di articolazione del discorso, e non va mai persa di vista l’intima connessione che unisce questi tre aspetti. L’obiettivo di fondo che ci proponiamo è proprio quello di riconnettere ciò che rischia di essere slegato, e di vedere cioè che la difesa della vita non è separabile dai diritti di cittadinanza e dalla qualità sociale delle relazioni, che la persona è sempre, in ogni momento, il punto di congiunzione di una pluralità di dimensioni, e la sua identità è sempre molteplice e complessa. Potremmo aggiungere che la dignità della persona è messa a rischio proprio nel momento in cui questa complessità non viene riconosciuta e l’unità della persona viene scissa, quando c’è solo la nuda vita biologica, una sopravvivenza senza qualità sociale (e per molti questo è il destino dell’invecchiamento), o quando tutta la vita è messa esclusivamente al servizio del processo economico, quando la persona è solo una macchina produttiva da spremere fino al limite delle sue risorse fisiche. È il processo sociale complessivo che deve essere analizzato, per vedere dove esso produce una menomazione della persona, dove non c’è reciprocità, ma c’è un rapporto diseguale, nella forma dell’esclusione o del dominio. Per cogliere la sostanza delle diverse forme sociali, dobbiamo adottare un punto di vista che non sia solo quello giuridico, perché la dignità non è affatto garantita dall’osservanza della norma, e anzi spesso essa entra in conflitto con il formalismo astratto della legalità. Prendiamo alcuni esempi: la famiglia, anzitutto, oggi al centro di polemiche politiche spesso strumentali. Si può davvero pensare, con un minimo di fondamento, che il problema essenziale sia quello della forma giuridica, che si tratti cioè solo di fissare, o meglio ribadire, il confine tra la famiglia legale e ciò che non rientra in questa legalità, come se questo fosse il confine tra l’ordine e il disordine? Sappiamo bene che in moltissimi casi la legalità nasconde forme intollerabili di violenza e di sopraffazione, verso la donna o verso i minori, o forme di convivenza del tutto inaridite e ipocrite, tenute insieme solo da un calcolo di convenienza. La difesa e la promozione della famiglia richiede allora un’azione più in profondità, che guardi alla sostanza delle relazioni umane, la cui intensità affettiva non ha quasi nessun rapporto con la condizione giuridica. Da questo punto di vista, l’attuale disputa politica è del tutto deviante, perché contano solo le maschere ideologiche, con le loro relative mobilitazioni di piazza, e non conta il vissuto reale delle persone. Una politica per la vita dovrebbe invece approntare tutti i possibili strumenti di sostegno che possano dare alle persone le necessarie condizioni di serenità e di responsabilità, cercando in ogni modo di impedire e di contrastare l’imbarbarimento della nostra vita collettiva. Prendiamo un altro esempio, quello estremo della dignità della persona nella situazione carceraria. Qui ci troviamo nel mezzo della legalità realizzata, di una sofferenza che è resa necessaria dal rispetto della legge. E tuttavia, c’è un problema acutissimo di riconoscimento della dignità della persona perché tutto questo processo di limitazione della libertà dovrebbe essere finalizzato, come dice la Costituzione, a un reintegro sociale, a un investimento sul futuro, mentre la realtà attuale è spesso solo una realtà di umiliazione, di degrado e di esclusione sociale. È assai indicativa la violentissima polemica che si è scatenata a proposito dell’indulto, che ha fatto venire allo scoperto tutte le peggiori pulsioni giustizialiste, l’idea di una giustizia vendicativa che non dà scampo e non off re nessuna via d’uscita a chi si è reso responsabile di un reato. Secondo questa visione, la nostra sicurezza dovrebbe esser pagata con la definitiva negazione di ogni dignità per tutto questo universo di persone sbandate e sofferenti, e la soluzione torna a essere quella di un grande internamento di massa, come è stato nel passato, per tutte le forme di devianza. Ancora più evidente è il problema della dignità per la grande ondata di immigrati, lavoratori o in cerca di occupazione, considerati e tollerati solo come forza di manovalanza per lavori da noi rifiutati, ma privi di diritti politici e di riconoscimento sociale, tenuti ai margini della convivenza civile, e sospettati, soprattutto se di fede islamica, di attentare alle nostre libere istituzioni. Con il progressivo incremento di questo flusso migratorio, che può essere parzialmente regolato ma non bloccato, le nostre democrazie tornano a essere, come nell’antichità classica, democrazie di casta, che escludono tutti quelli che svolgono un lavoro servile. Dobbiamo invece riproporre l’idea di una costituzione politica che sia un grande fattore di inclusione e di universalizzazione dei diritti. E qui prende tutto il suo significato il tema del lavoro, in quanto mezzo di realizzazione della persona. Potremmo continuare. Ma sarà il convegno a trattare con più ampiezza questi e altri problemi. Questa linea di interpretazione del tema della dignità, che ho cercato di motivare, chiama in causa direttamente la politica, la sua idea di società, il suo modello culturale, il suo rapporto con la vita reale delle persone. La politica non può essere imperativa, non può imporre una sua verità, una sua morale, ma deve essere lo spazio pubblico nel quale si realizza un libero confronto e al quale ciascuno ha diritto di accesso, sia come singolo sia per il tramite di una associazione collettiva. La laicità non è altro che questa organizzazione di uno spazio comune, che dà voce e riconoscimento a tutte le diverse posizioni, e che tende a trovare, sui temi più controversi, delle mediazioni condivise, senza mai cedere all’arbitrio di una maggioranza, quale che sia, che voglia imporre il suo esclusivo punto di vista. Tutto ciò che cosa ha a che fare con la nostra quotidiana azione sindacale? Io credo che il sindacato sta nella nostra società come un soggetto che non si lascia rinchiudere in una ristretta dimensione corporativa e che cerca di rappresentare le persone, lavoratori e pensionati, in tutta la complessità della loro esperienza. Non c’è una netta linea di demarcazione che separa il campo della politica e il campo della rappresentanza sociale. Il nostro non è un mestiere specialistico, ma un rapporto vitale che costruiamo con le persone che rappresentiamo, cercando di rispondere alle loro diverse e complesse domande. E quindi è sempre utile, a mio giudizio, una ricerca, anche quella che in apparenza sconfina rispetto ai nostri compiti istituzionali. La forza e il prestigio della CGIL sono dovuti in larga misura a questo atteggiamento, a questa capacità di parlare alla società intera, come una forza che è protagonista della vita democratica del Paese. Ma, in particolare, il tema che in questi giorni vogliamo affrontare, la dignità della persona, può e deve essere un punto di riferimento essenziale dell’agire sindacale, proprio perché la struttura sociale si è profondamente trasformata e alle tradizionali identità collettive è subentrata una identità più fluida, plurale, con un accento nuovo che viene posto sulla realizzazione di sé come persona, nel lavoro e nella vita. Questo mutamento era stato colto con esattezza, alcuni anni fa, da Bruno Trentin, che aveva cercato di rinnovare la cultura sindacale della CGIL proprio a partire dalla considerazione del lavoratore come persona. E questo nuovo orizzonte culturale è assolutamente decisivo per noi, per il sindacato dei pensionati e delle persone anziane, perché noi ci occupiamo non di un segmento produttivo, ma di quella complessiva condizione sociale ed esistenziale di chi si sta avventurando nell’ultima fase della sua vita, nella quale il tema dominante è proprio quello del riconoscimento sociale e della qualità delle relazioni. In questo contesto la dignità acquista un preciso significato: è la pienezza della cittadinanza, è la possibilità di vivere il proprio invecchiamento non come declino ed esclusione, ma come partecipazione attiva alla vita sociale. Ma è chiaro che la dignità è indivisibile, e che noi possiamo difendere la nostra dignità solo se sappiamo difenderla anche in tutte le situazioni in cui essa è messa a rischio, se combattiamo una battaglia generale, non corporativa, contro tutte le forme di esclusione. Questo è il nostro tratto distintivo, quello di un sindacato “generale”, e solo se facciamo così saremo riconosciuti come una forza che ha qualcosa da dire, e da dare, nella vita sociale complessiva del nostro Paese.
Busta: 4
Estremi cronologici: 2007, 26-27 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: Pubblicato in “Argomenti umani”, maggio 2007, col titolo “Riflessioni sulla dignità della persona”, pp. 28-36. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Dignità”, pp. 203-210