PARTITI DI SINISTRA, PROGETTO DI GOVERNO, SINDACATO RIFORMISTA

Intervento di Riccardo Terzi – Segretario generale CGIL Lombardia

Una caratteristica particolare della situazione italiana sta nel fatto che la sinistra politica e la sinistra sociale stanno tra loro in un rapporto estremamente complesso. Mentre in altri Paesi europei è più chiaramente visibile una linea di demarcazione che è insieme sociale e politica, ed è esplicito un collegamento tra il movimento sindacale e l’organizzazione di partito, in Italia invece non c’è corrispondenza diretta tra questi due livelli, e l’autonomia sindacale non è solo una regola formale, ma è il riflesso necessario del tipo di rapporto, complesso e dialettico, tra sfera sociale e sfera politica.

La sinistra sociale, il cui il movimento sindacale è l’espressione più significativa, anche se non esclusiva, si muove in un quadro di riferimenti politici molto largo, e ciò è dovuto essenzialmente al fatto che è presente una robusta componente cattolica che non ha rotto il suo rapporto con il partito democristiano, e inoltre anche altri partiti non dichiaratamente di sinistra hanno una loro presenza non esigua nell’organizzazione sindacale.

D’altro canto, la sinistra politica si muove in un quadro di riferimenti sociali anch’esso molto largo, e ciò vale non solo per il PSI, che esplicitamente rifiuta una caratterizzazione di classe, ma anche per il PCI, la cui originalità storica, di impronta togliattiana, sta nello sforzo di costruzione di un sistema di alleanze e di un blocco sociale che sappiano coinvolgere forze anche molto lontane dalla classe operaia.

Avviene così che ogni tentativo di radicalizzazione del conflitto politico apre contraddizioni e divisioni nel movimento sindacale: così è stato, ad esempio, con l’assunzione da parte del PCI di una linea di alternativa, che ha provocato un deterioramento grave dei rapporti col sindacalismo cattolico. E parallelamente ogni tentativo di radicalizzazione del conflitto sociale apre contraddizioni e suscita resistenze e reazioni nella sinistra politica, in quanto indebolisce e mette a rischio la politica delle alleanze. La vischiosità e il tendenziale immobilismo della situazione italiana dipendono anche, in una certa misura, da questo rapporto, potenzialmente conflittuale, tra sindacato e partiti della sinistra.

Paradossalmente, sinistra sociale e sinistra politica trovano un punto di equilibrio solo nella rinuncia ad ogni ipotesi di radicalizzazione del conflitto, mettendo quindi in ombra la loro vocazione alternativa. È evidente che proprio a questo tipo di sbocco, non del tutto irrealistico mirano le forze conservatrici, interessate a creare una situazione nella quale l’opposizione politica è idealmente subalterna e l’opposizione sociale imbocca la strada della collaborazione.

A questo ordine di questioni non è certo facile offrire una risposta, e le risposte che fin qui si sono tentate si sono rivelate inefficaci.

Il principio dell’autonomia sindacale non è di per sé sufficiente. Esso infatti può significare due cose assai differenti. Nel primo caso, esso tende a delimitare due distinti e separati campi di intervento, due aree di influenza. Il movimento sindacale è autonomo in quanto circoscrive un proprio ambito di azione che non interferisce nelle scelte politiche. È in questo contesto che prendono senso alcune norme di funzionamento dell’organizzazione sindacale come quelle sull’incompatibilità.

Ma una operazione di questo tipo poteva riuscire solo con una trasformazione del sindacato in senso corporativo, con una dichiarata rinuncia ad essere, come si usa dire oggi, “soggetto politico”. E, d’altra parte, l’intreccio crescente di economia e politica rende questo tentativo quanto mai problematico.

Nel secondo caso, invece, l’autonomia è capacità del movimento sindacale di elaborare proprie posizioni su tutto l’arco dei problemi della società, indipendentemente dal quadro politico e dai comportamenti dei partiti. Ma in questo caso, è evidente, la contraddizione non viene risolta.

Io credo, in sostanza, che questa contraddizione tra sinistra sociale e sinistra politica debba essere assunta, accettata come un dato reale di cui tener conto. L’autonomia allora consiste nel fatto che il movimento sindacale esprime fino in fondo tutto il suo potenziale di lotta, senza lasciarsi frenare o condizionare da ragioni politiche, così come è auspicabile, d’altro lato, che la lotta politica possa svilupparsi nel senso di individuare una possibile alternativa all’attuale assetto di potere, e indubbiamente nella costruzione di questa alternativa lo sinistra non può essere solo il riflesso politico della classe lavoratrice, il portavoce del movimento sindacale, ma deve poter compiere scelte che siano in grado di realizzare uno schieramento sociale maggioritario.

Da ciò derivano, per il movimento sindacale, alcune conseguenze che vorrei sottolineare.

Il sindacato può svolgere una funzione progressiva, e può anche contribuire a dinamizzare lo situazione politica, solo in quanto si ripropone di esprimere e di rappresentare la “parzialità” degli interessi sociali che organizza. Il suo radicamento sociale, il suo rapporto democratico con i lavoratori, il suo essere veicolo organizzato del conflitto sociale, la sua capacità di esercitare appieno tutto il potere contrattuale, queste sono le necessità oggi preminenti.

In questo modo esso può anche incalzare le forze politiche, aprire nel quadro politico delle contraddizioni nuove, e misurare i partiti intorno a questioni reali, a discriminanti programmatiche precise. Solo così, mi pare, il rapporto tra sindacato e partiti non rischia di spegnersi in un immobilismo reciproco, che lascerebbe libero il campo alle forze conservatrici.

Per questo mi sembrano da non condividere quelle tendenze che individuano il necessario rinnovamento del sindacato nell’accettazione di una logica di cooperazione sociale, nella rimozione del tema del conflitto. Il sindacato non può che rappresentare uno dei poli dell’antagonismo sociale. E può pesare anche politicamente solo in quanto è forza rappresentativa reale degli interessi “parziali” della classe lavoratrice.

La crisi recente del sindacato dipende molto dal fatto che, in modi diversi e con protagonisti diversi, dai tempi dell’Eur a quelli a noi più vicini, ci si è posti in un’ottica extra-sindacale, pretendendo che il sindacato potesse in quanto tale rappresentare gli interessi generali e offrire una piattaforma politica complessiva.

La discussione su questi temi è ancora aperta, in tutte le organizzazioni sindacali. Per la CGIL, dato il suo rapporto storico con i partiti della sinistra, il chiarimento di questi nodi è particolarmente importante. Se è giusto riaffermare che la CGIL si muove in modo tale da favorire un’evoluzione politica che assegni sempre più un ruolo di governo alle forze della sinistra, che favorisca l’affermazione di una grande sinistra riformatrice, occorre però aggiungere che il sindacato intende contribuire a ciò esercitando in modo limpido e radicale lo propria funzione di rappresentanza sociale. Uso il termine “radicale”, in quanto, appunto si tratta di risalire alle radici dell’azione sindacale, che stanno nel conflitto sociale e di potere che è insito nell’organizzazione produttiva.

Il “riformismo” del sindacato (non mi occupo qui dei suoi aspetti politici) non può che consistere in questa azione volta a modificare i rapporti di forza, e a realizzare quindi una “riforma democratica” dell’impresa e del sistema economico, che consente ai lavoratori e alle loro rappresentanze sindacali di concorrere alla determinazione delle scelte, di essere protagonisti attivi di un governo democratico dell’economia.


Numero progressivo: B56
Busta: 2
Estremi cronologici: 1986, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Polis”, ottobre 1986, pp. 10-11