ORGANIZZARE NELLA SCUOLA UN’AZIONE ANTAGONISTA

di Riccardo Terzi

L’esperienza di lavoro dei comunisti nell’Università e più in generale nel mondo studentesco assume un significato esemplare ai fini di un chiarimento della linea politica perseguita dalla Federazione giovanile comunista in tutti questi anni, preziosi per le analisi compiute e per le verifiche pratiche che il movimento ha offerto.

E pertanto un discorso che metta a fuoco la nostra concezione del movimento studentesco si rende necessario, non solo per le scadenze immediate della battaglia democratica degli studenti e per l’imminenza del congresso dell’UGI, ma anche nel quadro di quel dibattito politico generale che il rinvio del nostro congresso certamente non ci autorizza a frenare o rimandare.

Già una discussione si viene sviluppando, nel movimento unitario e nell’organizzazione comunista, e in essa affiorano analisi politiche che non sono compatibili con la linea che fino ad oggi abbiamo perseguito e che rischiano di ritardare il rafforzamento e la chiarificazione nel movimento studentesco. Può essere utile fissare come punto di partenza la questione dell’autonomia dell’Università (e della scuola in generale) rispetto alla struttura sociale.

In una certa fase della sua esperienza storica, in corrispondenza con una fase ancora arretrata del capitalismo, il movimento di classe si è fatto fautore di una concezione “radicale” dell’autonomia della scuola e della cultura nel senso di configurare la scuola come una pura comunità di ricerca, come un libero centro di relazioni intersoggettive.

Si trattava di recuperare, pur nel quadro di una società profondamente diversa, il valore umanistico dell’antica comunità Universitaria, di stampo medioevale, in cui gli studenti e gli uomini di cultura erano protagonisti di un’esperienza culturale che traeva da se stessa la sua giustificazione.

Era questa una posizione difensiva: di fronte all’ingerenza non certo disinteressata dei gruppi privati, di fronte all’ondata della controriforma clericale, che si occupava della cultura solo per ossificarla, si riaffermava l’autonomia della cultura da ogni elemento estrinseco per riconquistare la dignità degli studi e la libertà di pensiero.

Sulla base di questi presupposti, si giunge a configurare il modello di una scuola che entra con la società in un rapporto soltanto ideologico. Non si realizza cioè una vera interazione sociale, la scuola non entra nella società come uno dei fattori oggettivi che ne determinano lo sviluppo, come una componente della dinamica sociale, ma è, soltanto il terreno su cui si sviluppa la competizione delle ideologie, È lo strumento per la conquista dell’egemonia culturale.

Con le conseguenze che seguono: che la scuola o è l’espressione della ideologia dominante, e fornisce il supporto ideologico all’assetto sociale esistente, mediante un’organizzazione centralizzata e autoritaria della cultura (è questa la vecchia scuola umanistica, che realizza una fittizia sintesi culturale sulla base della quale si qualificano i gruppi dirigenti della società) oppure assume come suo fondamento il principio del dialogo fra le diverse ideologie, senza proporsi un’azione di sintesi, con tutti i rischi di relativismo culturale che ne derivano. E anche in questo secondo caso agisce nel senso della conservazione sociale, in quanto impedisce lo svilupparsi di un’ideologia antagonista e il suo affermarsi come ideologia tendenzialmente dominante.

Infatti non si vede come possa radicarsi nella società una coscienza antagonista altrimenti che sulla base di una esperienza pratica, che rimuova le condizioni oggettive dell’egemonia borghese.

Appare chiaro, a questo punto, il vizio idealistico della posizione che abbiamo descritto. E qualora anche questa concezione radicale dell’autonomia sia intenzionalmente orientata verso contenuti progressivi, finisce inevitabilmente per soggiacere all’egemonia della classe dominante, proprio perché la scuola si riduce a un fatto ideologico e non entra in un rapporto pratico con la realtà sociale.

Il limite idealistico emerge ancora più chiaramente, se consideriamo che di fatto un rapporto con la società si stabilisce comunque, sia pure in termini negativi. Il lasciare che si sviluppino liberamente le tendenze spontanee del capitalismo è già un’azione sociale. Nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico è poi evidente che la scuola esercita comunque un’azione determinante ai fini della formazione del mercato del lavoro, e della definizione del valore della forza lavoro.

Sia chiaro che non si intende, con questa premessa, polemizzare con nessuno, Se non con quelle aristocrazie accademiche che identificano l’autonomia con l’esercizio dei loro privilegi corporativi. Questa utilizzazione reazionaria delle istanze di autonomia conferma, fra l’altro, la giustezza dell’analisi precedente. Non è dunque per una polemica, che sarebbe affatto scontata, che si giustificano le considerazioni finora svolte; si tratta di fissare un punto fermo, la cui utilità apparirà nel seguito della riflessione.

 

Il movimento di classe, dunque, deve prendere atto del rapporto non solo ideologico, ma economico e produttivo che esiste fra la scuola e l’assetto sociale. E questo già è avvenuto in larga misura.

Ma, una volta fissata questa consapevolezza, il problema si riapre e appare anzi, a prima vista, meno risolvibile di prima. Infatti ci si trova di fronte a un circolo vizioso: posto che l’organizzazione della scuola non può essere dissociata dalla struttura economica della società, è possibile soltanto richiedere una sua funzionalità, un più efficiente adeguamento a questa struttura, e quindi operare nel senso dell’ammodernamento capitalistico, oppure attendere una trasformazione sociale per affrontare in un tempo posteriore i problemi dell’organizzazione scolastica.

In entrambi i casi, viene meno la possibilità di un’azione positiva da condurre oggi, e che non entri in contraddizione con gli obiettivi generali del movimento operaio ma anzi li favorisca.

Per sciogliere questo nodo, può essere utile uscire dalla genericità e vedere quale specifico rapporto realizza la società capitalistica fra la scuola e la sua struttura sociale determinata.

Ora, fra le tendenze generali dello sviluppo capitalistico vi è in primo piano quella verso la parcellizzazione del lavoro. Nella fabbrica moderna la divisione del lavoro raggiunge un grado particolare di intensità, così che si perde ogni carattere di specializzazione o di mestiere. Questo processo sconvolge il sistema tradizionale delle qualifiche e sollecita una formazione professionale altrettanto fratturata. Le basi oggettive della produzione, che potrebbero essere il fondamento di una riconquistata unità della dimensione dell’uomo e del lavoro, sono invece nell’ambito specifico dei rapporti di classe capitalistici lo stimolo alla frantumazione di ogni visione unitaria.

E allora la scuola nella società capitalistica e incapace di ricongiungete professione e cultura, tecnica e scienza.

Si operano delle fratture profonde: la formazione professionale si riduce a un complesso disarticolato di cognizioni tecniche e operative, private di ogni fondamento culturale, di un metodo critico che consenta la comprensione dei nessi storici e sociali; e anche ai livelli intermedi o superiori la tendenza è a produrre un personale tecnico dotato di conoscenze limitate, settoriali, a cui è negato il rapporto con la ricerca scientifica.

In una parola il capitalismo cristallizza a diversi livelli i ruoli sociali, e ad essi corrispondono nella scuola binari distinti, predeterminati e fra loro non comunicanti.

Il carattere disarticolato della società si riflette nell’organizzazione della scuola, negando la tendenza della cultura a essere un organismo unitario.

Ecco dunque che il rapporto specifico è un rapporto di subordinazione di vasti settori della scuola non tanto alle esigenze della produzione in sé quanto alle esigenze di una politica padronale che vuole forzare la produzione entro determinati rapporti di classe.

Separazione dei ruoli sociali, rottura dell’unita di classe, frantumazione della scuola: sono fenomeni riconducibili tutti ad un’unica matrice sociale, al dominio della proprietà privata.

Il capitalismo assegna alla scuola un ruolo subalterno: essa deve essere modellata a misura dei ritmi e delle qualità della produzione capitalistica.

Questo stato di cose non viene certo riscattato dal permanere di una cultura ufficiale e accademica ossificata nel suo formalismo. È questa solo l’altra faccia di una medesima realtà: l’idealismo della cultura accademica garantisce la preminenza ideologica della borghesia, è lo stravolgimento ideologico di quella realtà lacerata che abbiamo descritto.

L’autonomia di questa cultura, il suo disinteresse, consente che all’altro polo vengano conservati gli interessi particolari della classe dominante.

Se osserviamo le linee della politica governativa, riceviamo una puntuale conferma di tutta l’analisi precedente. Anzitutto viene riaffermato il ruolo della iniziativa privata, quasi a sottolineare il fatto che la scuola deve garantire la sua funzionalità agli interessi dei gruppi imprenditoriali.

E questa funzionalità viene realizzata concretamente configurando da un lato una scuola selettiva, che prepara i quadri dirigenti, e d’altro una scuola puramente utilitaria, che garantisce quel bagaglio di conoscenze tecniche necessarie al normale sviluppo della produzione. E anche al livello superiore si propone la formazione di due binari distinti: uno con fini professionali e l’altro con fini scientifici.

Questa scissione sancita da precise norme burocratiche che impediscono ogni libertà di movimento all’interno di questa struttura, corrisponde ad un disegno conservatore: rendere permanente la struttura sociale capitalistica mediante lo sviluppo di una tecnica neutrale che assicura la continuità della produzione e mediante una cultura che ha il solo compito di riprodursi all’infinito, come un patrimonio definito una volta per tutte, così da sottolineare la continuità dell’egemonia ideologica della classe dominante. Un’egemonia tra l’altro che trova oggi modo di esprimersi anche utilizzando l’onnipotenza della tecnica contrapposta alla cultura, e la sua neutralità, la sua incompatibilità con ogni disegno politico rivoluzionario, con ogni pretesa all’universalità. La tecnica è il regno delle soluzioni parziali, il regno in cui l’efficienza è l’unico criterio di valutazione. Attraverso questi miti il tecnico integrato e subalterno trae una rivalsa sul piano ideologico e contribuisce alla difesa dell’assetto sociale esistente.

 

Torniamo al nostro circolo vizioso e analizziamo le due ipotesi che vi sono contenute.

Vi è innanzitutto l’ipotesi riformista: è possibile soltanto richiedere la funzionalità della scuola all’assetto sociale esistente e favorire quindi l’ammodernamento capitalistico.

La società moderna ristruttura il quadro delle professioni, crea nuovi ruoli sociali, esige uno sviluppo ininterrotto delle conoscenze tecniche e allora la scuola deve corrispondere puntualmente a questa realtà.

Niente da eccepire se queste preoccupazioni muovono da una volontà politica conservatrice. Ma che il movimento di classe si preoccupi di costruire una scuola organica rispetto al tipo di sviluppo del capitalismo è un fatto abbastanza grottesco.

Dietro questa si nasconde una mistificazione di fondo: si suppone cioè che il capitalismo, al massimo del suo sviluppo, trapassi quasi spontaneamente nella società socialista, per cui è sufficiente una semplice presenza politica del movimento operaio per assicurare al socialismo la sua necessità storica. In altri termini, il socialismo viene inteso come il prodotto dello sviluppo capitalistico non più nel senso che la classe operaia è condotta oggettivamente ad assumere una posizione assolutamente negatrice, ma nel senso molto più accomodante che si tratta solo di aggiungere qualcosa al capitalismo sviluppato o meglio di condurre a compimento un processo già avviato. E allora, è chiaro, il punto di vista della classe operaia non ha un senso antagonista e nel caso specifico della scuola si tratta solo di chiedere una scuola moderna. In fondo, ritroviamo in questa posizione il mito della politica nazionale e cioè una falsa comprensione del ruolo universale della classe operaia la quale è universale solo in quanto è assolutamente negatrice e nella sua azione rivoluzionaria comincia proprio dal negare se stessa.

La seconda ipotesi: che un’azione positiva sia possibile solo nella fase di costruzione della società socialista. Un’asserzione così brutale probabilmente non è sostenuta da nessuno, ma la sostanza politica di questo discorso la si ritrova in una serie di formulazioni di “sinistra”.

Si parte in questo caso da un’analisi della società capitalistica che assolutizza alcuni fenomeni parziali e concede una patente di realtà ai miti e alle illusioni del capitalismo maturo per cui ogni obiettivo parziale viene automaticamente integrato dal sistema e tutto finisce per rientrare nella programmazione capitalistica.

Questo sia che si presenti l’immagine di un capitalismo “razionale” che fa propri gli obiettivi transitori del movimento di classe o quella di un capitalismo anarchico e autoritario che annulla i risultati dell’azione rivendicativa e fa trionfare soprattutto la sua logica irrazionale.

In entrambi i casi, infatti, non resta spazio che per una rivendicazione di autonomia di tipo tradizionale: si tratta soltanto di negare globalmente la realtà capitalistica, senza vedere la dialettica dei processi reali, e allora l’unica battaglia possibile nella scuola è quella per una coscienza anticapitalistica. È questa ancora una posizione idealistica che assegna all’azione del movimento di classe un carattere soltanto ideologico. Non solo, ma caratterizzando la società capitalistica come essenzialmente autoritaria e vedendo la scuola come il semplice riflesso dell’autoritarismo Sul piano culturale, si propone in sostanza una battaglia puramente democratica e difensiva, che non vede come nella realtà non sia affatto esclusa una funzionalità degli istituti democratici alle oggettive tendenze autoritarie, nella misura in cui sono appunto soltanto democratici. In altri termini l’autoritarismo implicito nella società capitalistica non esclude degli strumenti per l’organizzazione del consenso e per questo viene meno l’antinomia della battaglia democratica e si impone un’azione che incida al livello delle strutture sociali.

 

Tutte le posizioni finora descritte sono carenti in quanto non avvertono il carattere articolato della società e sono incapaci di cogliere i problemi della organizzazione scolastica come problemi specifici pur nel loro nesso non la società.

E pertanto, cosi appiattito il rapporto scuola società fino al punto da non essere più propriamente un rapporto, non si può sfuggire a quella alternativa sconsolata fra integrazione e passività. Ma nella realtà, come abbiamo visto, la scuola ha una sua dimensione peculiare ed entra in rapporto non la società non solo per subirla ma anche per orientarla; per cui è possibile ed è corretto considerare l’ambito specifico della scuola come un particolare terreno di lotta in cui emergono e si risolvono delle contraddizioni specifiche che riflettono mediatamente le contraddizioni generali della società.

È questa l’unica via che consente di sfuggire al circolo vizioso e di elaborare una linea positiva che non si risolva nell’integrazione.

Non è, questa, una sottigliezza formale o una formula di comodo, è invece la base da cui il movimento studentesco ha potuto ricavare i suoi obiettivi di lotta qualificandosi in senso autonomo. A questo proposito l’esemplificazione può essere ricca. Dalla scissione tra cultura e professione, scienza e tecnica, discendono obiettivi precisi per una diversa organizzazione della scuola a livello secondario come a livello superiore. La proposta di unificazione dell’istituzione tecnica e di quella professionale, l’esigenza di una ristrutturazione del liceo tale da consentire un inizio di specializzazione professionale, l’opposizione ad un’articolazione dei diplomi nell’Università, la proposta dei dipartimenti come centri di lavoro collettivo in cui formazione professionale e ricerca scientifica si trovano ad essere strettamente collegate, tutti questi obiettivi discendono logicamente da quella premessa generale.

Il loro significato sta nel richiedere una struttura non funzionale all’organizzazione capitalistica della società, e capace di incidere sul mercato del lavoro nel senso della valorizzazione della forza lavoro, e nel raccogliere inoltre esigenze maturate tra gli studenti tecnici e gli intellettuali, che avvertono il carattere distorto della loro formazione. Solo sulla base di questa linea politica acquistano un valore anche le proposte di democratizzazione.

La linea di tendenza del capitalismo è, in piena coerenza con tutti gli altri fenomeni considerati, verso una separazione del momento decisionale dal momento della democrazia, il che significa riduzione della democrazia a organizzazione del consenso. Per restituire alla democrazia il suo valore universale di fondazione delle scelte sociali è necessario sottrarre all’automatismo del mercato capitalistico gli strumenti esecutivi, e cioè battere il mito della neutralità e oggettività della tecnica, per farne un mezzo di strumentazione delle scelte democratiche.

Così, obiettivi di democrazia e obiettivi di riforma risultano inscindibili, e al di fuori di questo rapporto la battaglia democratica è solo una battaglia di retroguardia.

Ad esempio, quando si pone il problema del governo democratico dell’Università, è chiaro che non basta richiedere degli organismi “rappresentativi”, ma bisogna entrare nel merito delle loro funzioni, dei loro rapporti con la burocrazia statale da un lato e con gli enti privati dall’altro, e bisogna definire quali obiettivi si intendano raggiungere attraverso questa nuova organizzazione democratica del potere.

Una volta scelta questa “linea positiva”, è necessario ancora fare chiarezza su una serie di questioni. Si tratta infatti di precisare in che rapporto sta questa nostra linea con certe posizioni cattoliche, le quali pure sono orientate a risolvere positivamente determinati problemi parziali. Così, vi è tutta una letteratura politica di orientamento cattolico che affronta il problema della frantumazione del lavoro e tende a ricostituire l’unità della persona.

Ma la soluzione che viene proposta consiste in un nuovo ordinamento dei contenuti scolastici, che aggiunge alla formazione professionale, lasciata alla sua parcellizzazione, una cultura generale e formativa. Con ciò la scissione non viene superata, ma riproposta a un livello diverso.

Non vengono infatti rimosse le condizioni oggettive dell’alienazione, ma si nutre soltanto un’illusione illuministica, per cui sarebbe sufficiente la partecipazione alla “cultura” per ricostituire la dignità umana del lavoratore, E ancora una volta, questa cultura che si aggiunge non può essere che la cultura borghese. Vi è qui tutto l’idealismo cattolico, che da un lato abbandona alla spontaneità la condizione sociale delle masse, e dall’altro pretende di fornire una soluzione soltanto a un livello ideologico e coscienziale, senza che intervenga la forza liberatrice della prassi. Il problema è un altro: è quello di connettere esperienze sociali e culturali così da rendere possibile sia una coscienza critica, sia un’esperienza pratica liberatrice.

In questo senso vanno intesi gli obiettivi di lotta: essi devono tendere a realizzare un rapporto critico con la struttura sociale, una storicizzazione delle conoscenze tecniche così da cogliere i fondamenti teorici e sociali di una determinata funzione produttiva.

Su questa base sarà possibile un’azione pratica, di contestazione. E qui va aggiunto che gli obiettivi che noi poniamo hanno senso anzitutto in quanto sollecitano e organizzano la lotta delle masse, indipendentemente dal loro raggiungimento. In una parola, si tratta di avviare un processo che fa della scuola non più la base e la giustificazione del potere capitalistico, ma il terreno di formazione e di organizzazione di una coscienza antagonista e di classe. Questo vale per i contenuti culturali come per l’organizzazione e per i legami con la realtà esterna.

Cogliamo qui, in una accezione nuova, il concetto di autonomia: come funzione critica della scuola, che entra in rapporto con la società per orientarla, per sollecitarne la trasformazione. Anche a questo proposito, la posizione dei cattolici appare inadeguata, in quanto configura la scuola come una “comunità intermedia”, per cui si coglie l’elemento di specificità ma non il rapporto con la realtà sociale. E si sfugge quindi alla necessita di compiere delle scelte politiche e di classe, dando credito all’illusione che nella scuola non si rifletta l’antagonismo delle classi. La scelta dei programmi e del personale insegnante, l’organizzazione del governo, l’influenza esercitata dai gruppi privati o dalle organizzazioni di classe, la selezione degli studenti e la loro destinazione sociale, tutto questo ha necessariamente un significato politico sociale e tutti questi problemi vanno affrontati sulla base di una prospettiva politica generale.

 

Una linea di azione positiva è possibile alla sola condizione che intervenga nell’ambito della scuola una forza attiva e autonoma, che fa propri gli obiettivi di fondo che abbiamo indicato. È necessario cioè il movimento studentesco: non si vede infatti quale altra forza possa contestare dall’interno l’ordinamento attuale, se non in forme sporadiche e corporative.

Tutta la linea che ci siamo sforzati fin qui di delineare vale quindi come base dell’azione del movimento studentesco, e ne giustifica sia l’autonomia sia la possibilità di caratterizzarsi politicamente.

Quale deve essere la natura del movimento studentesco? Questo problema è stato a lungo dibattuto, ma troppo spesso non si è avuto il coraggio di trarre dalle analisi compiute le conseguenze necessarie. Anzitutto, importa sapere che cosa oggettivamente gli studenti sono e quale sia la tendenza del movimento. Ogni discorso fondato sul dover essere è soltanto volontaristico e annulla i problemi nelle nebbie della coscienza.

Il fatto è che gli studenti tendono sempre più a trovare punti oggettivi di collegamento con l’azione del movimento operaio, ma questo avviene senza annullare l’autonomia della loro collocazione sociale e delle loro aspirazioni, solo in un senso particolare quindi il movimento studentesco è anticapitalistico: lo è nella sua tendenza, ma è astratto pretendere che lo sia pregiudizialmente e al livello della coscienza. E pertanto deve essere respinta ogni sovrapposizione politica, e bruciati gli intralci ideologici. Si tratta di far esprimere fino in fondo la logica oggettiva del movimento studentesco, affermando la sua autonomia, e quindi la sua possibilità di essere un movimento di massa unitario, che parte da una piattaforma di tipo sindacale.

Non dobbiamo certo nascondere i possibili rischi: nulla ci autorizza ad escludere che lo sbocco di questo movimento sia nel senso di una integrazione sociale. Ma, in ultima istanza, il risultato finale dipenderà dalla nostra iniziativa politica e dal grado di maturazione dei contrasti di classe. Se il movimento di classe è incerto e concede spazio alle posizioni riformiste, non sarà certo il movimento studentesco a salvare le sorti del socialismo.

È questa dunque una scelta che ci deve stimolare sul terreno dell’azione politica, ed è l’unica scelta corretta, in quanto la possibile alternativa, e cioè la pretesa di una immediata caratterizzazione politica e ideologica del movimento studentesco, è un alibi che frena il movimento invece che svilupparlo. È quasi superfluo precisare che la concezione di un sindacalismo studentesco non può ridursi a un’elencazione di rivendicazioni settoriali. Ciò avverrebbe se noi frantumassimo ulteriormente la problematica della scuola limitandoci a un’azione per settori. Ma è incontestabile la possibilità di un’azione sindacale che non perda di vista l’unità del problema e si proponga quindi ‘un’azione generale per la riforma della scuola.

È questa azione di contestazione che importa suscitare, prima che educare la coscienza e richiedere una fede rivoluzionaria.

Non vogliamo né adattarci, né attendere: mettiamo dunque in moto le forze oggettive che esistono nella società, senza preclusioni ideologiche, senza porre condizioni pregiudiziali. Se è vero che la società capitalistica impone il suo superamento starà a noi compiere una verifica sul terreno dell’azione politica e condurre ad uno sbocco rivoluzionario la dinamica delle forze sociali.


Numero progressivo: G123
Busta: 7
Estremi cronologici: 1965, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “La città futura”, aprile 1965, pp. 41-43