NUOVO E VECCHIO SPONTANEISMO

di Riccardo Terzi – Segretario del Comitato cittadino del PCI di Sesto San Giovanni

C’è nel mondo moderno, molta ansia del nuovo.

E anche noi non manchiamo ogni volta di parlare di nuovi problemi, di nuove esigenze, di nuove soluzioni.

Ma, a ben guardare, ci accorgiamo che il nuovo è molto spesso una riedizione di cose passate, che tornano all’improvviso d’attualità.

Così, le nuove tendenze di sinistra, le nuove posizioni d’avanguardia, riproducono, con poche variazioni, le vecchie posizioni dello “spontaneismo”, già più volte affrontate e combattute dal movimento operaio.

Può essere utile esaminare alcune manifestazioni di questo nuovo spontaneismo, che pongono al nostro partito questioni concrete di tattica politica da risolvere con molta chiarezza.

1) Nell’esame critico delle lotte operaie è diventato di moda mettere l’accento sulle spinte spontanee e non organizzate, vedendo in queste spinte l’elemento nuovo e propulsivo. Di qui si ricava l’idea della necessità di nuovi strumenti, naturalmente di base, che possano rimpiazzare o per lo meno integrare nelle loro funzioni gli organismi tradizionali, sindacato e partito. In questa impostazione ci sono almeno due errori di fondo: il primo è quello di vedere nella esplosione delle lotte soltanto il lato superficiale ed epidermico, così che esse appaiono spontanee anche quando sono state in realtà preparate da un lungo e organizzato lavoro di propaganda e di agitazione politica.

E, in secondo luogo, se davvero, in determinate situazioni, si verifica una specie di scavalcamento delle organizzazioni sindacali e politiche, allora il problema non è quello di inventare nuovi strumenti, ma piuttosto di correggere l’impostazione politica, dimostratasi insufficiente, di quelli esistenti. Se ad esempio il partito in fabbrica si lascia prendere di sorpresa dallo sviluppo della lotta, se i suoi obbiettivi di lavoro si rilevano arretrati rispetto alla situazione, allora in questo caso bisogna sottoporre a critica severa la politica del partito, ma in nessun caso bisogna rinunciare alla funzione del partito o delegarla ad altri.

Francamente non si capisce, e nessuno l’ha finora dimostrato, perché mai nuovi organismi dovrebbero riuscire là dove il partito non riesce, e tanto meno si capisce che senso avrebbe parlare di partito di classe se, nel vivo della lotta, il partito si rinchiude timidamente in se stesso lasciando ad altri i compiti di direzione e di guida politica. Ecco un caso concreto di spontaneismo che si risolve, nei fatti, in una liquidazione del partito.

2) Non manca chi apertamente pone in discussione il ruolo del partito, considerandolo come uno strumento ormai invecchiato e burocratizzato.

Libero, chi vuole, di sostenere questa tesi. Ma va detto, con molta chiarezza, che la critica ai partiti in generale non è affatto una posizione di sinistra, è anzi il mezzo migliore per disarmare il movimento di classe. Quelli che oggi, armati da capo a piedi, conducono una specie di santa crociata contro le burocrazie di partito, contro l’autoritarismo degli apparati, e così via, non fanno che ripetere gli argomenti usati dalla sociologia borghese con l’intento di screditare il partito di classe e di dimostrare che le classi subalterne finiscono per essere, anche all’interno di un partito rivoluzionario, semplici strumenti al servizio di interessi loro estranei. Come diceva Michels, «possono bensì vincere i socialisti, ma non però il socialismo».

Con ciò non si vuole introdurre il dogma della infallibilità anche per il partito, ma si richiede invece una critica che sia politica, che si riferisca ai contenuti della linea strategica, e che non sia superficiale e moralistica. Chi spende tutta la propria intelligenza nel ricercare nuove formule miracolose di democrazia dal basso, mi pare che potrebbe utilizzare meglio il proprio tempo, in quanto non ci potrà essere democrazia, e cioè partecipazione reale, se non sulla base di una linea politica giusta, tale da suscitare la mobilitazione delle masse, e quindi le questioni essenziali, anche sotto il profilo della democrazia, sono sempre questioni di linea politica.

3) Un ultimo problema importante è quello del nostro rapporto con i movimenti di massa e con le correnti di contestazione.

È noto che la politica del nostro partito sostiene la necessità della reciproca autonomia, come forma concreta per regolare questi rapporti.

Questo principio è giusto ma non può essere sufficiente.

Prendiamo l’esempio del movimento studentesco; di fronte ad esso non può bastare il riconoscimento della sua importanza e della sua autonomia, ma bisogna pur dire con chiarezza il nostro giudizio nel merito dei problemi che questo movimento sta affrontando.

Non ci possiamo fermare alla solidarietà e all’adesione generica, ma è necessaria una nostra azione politica per condurre più in là, verso sbocchi più precisi, tutto il movimento. E anche per smascherare tutto quanto vi può essere di snobistico e provocatorio in queste spinte spontanee e contestatrici.

Anche qui, dunque, non si può eludere il discorso sul partito, e l’autonomia non può essere intesa come sacra inviolabilità dei movimenti di massa.

Altrimenti il principio, in se stesso giusto, dell’autonomia diviene un pretesto per sfuggire alle responsabilità nostre, e si finisce ancora una volta nelle secche dello spontaneismo.

In conclusione, al fondo di queste manifestazioni sulle quali mi sono soffermato (critica ai partiti tradizionali, appeno alla spontaneità di base, istanze di democrazia non delegata; autonomia inviolabile dei singoli movimenti di massa) e nelle quali si vuol vedere il nuovo della situazione di oggi, si ritrova un problema teorico generale, in verità non molto nuovo intorno al quale si impegnarono alcuni dei maggiori teorici del marxismo, da Lenin a Gramsci. È il problema del rapporto di spontaneità e direzione, di libertà e disciplina.

Vale la pena di ricordare che, secondo Lenin, il movimento operaio spontaneamente può approdare soltanto ad una forma d’azione tradunionista, che la coscienza di classe rivoluzionaria non è un dato spontaneo, immediato, ma è invece il risultato di un’azione esterna, esercitata da un partito politico che sia armato della teoria rivoluzionaria.

L’esaltazione della spontaneità ha quindi un effetto deviante, in quanto impedisce al movimento operaio di maturare come forza politica cosciente, e lascia che il movimento si fermi al livello della immediatezza, portando con sé tutti gli elementi di fragilità teorica e di debolezza organizzativa che ne conseguono.

II partito è il luogo di formazione della classe operaia come classe dirigente; senza questa premessa non ci può essere una politica rivoluzionaria.

Che poi il partito riconosca la validità di altri movimenti e quindi la possibilità di un pluralismo, questa è un’altra faccenda. Ma, intendiamoci bene, il nostro pluralismo non è una posizione rinunciataria e di falsa tolleranza, e non deve mai cessare il nostro impegno per ridurre ad unità politica e ideologica le diverse componenti del movimento operaio e rivoluzionario, non deve mai venir meno la nostra polemica aperta con le posizioni errate dello spontaneismo piccolo-borghese.



Numero progressivo: G84
Busta: 7
Estremi cronologici: 1968, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Milano oggi”, dicembre 1968, pp. 9-10