NUOVA DESTRA, GOVERNABILITÀ, GRANDE RIFORMA

di Riccardo Terzi

Le tesi congressuali della maggioranza “riformista” del PSI sono segnate da una forte ambizione politica e strategica, Esse tentano un rilancio e un aggiornamento di tutto il patrimonio del riformismo italiano, vedendo nel solco di questa continuità l’unica risposta adeguata ai problemi della moderna società industriale. Il fatto merita indubbiamente attenzione. Esso si inscrive in quella ricerca di identità e di autonomia che è stata, in questi ultimi anni, il filo conduttore che ha guidato le mosse del nuovo gruppo dirigente.

Si viene compiendo, in sostanza, una operazione di carattere “ideologico”, nonostante le ricorrenti dichiarazioni in contrario. Infatti, questa sottolineatura enfatica dei valori propri del riformismo non corrisponde ormai più alla realtà delle alternative di oggi, e appare quindi fuori tempo. Sulla “strada maestra della democrazia politica e delle riforme” si è messo a camminare, ormai da decenni, tutto quanto l’esercito della classe operaia.

Non siamo più a dover scegliere tra Turati e Bordiga, ed è vano far tornare in vita alternative che il movimento operaio ha già, nel suo processo storico, riassorbito e superato. Ma, appunto, l’operazione è tutta politica, e va letta guardando alla storia di oggi del PSI, alla questione della sua identità, del suo spazio politico, del suo ruolo nella società italiana.

Le stesse tesi congressuali rendono esplicita questa questione, e proprio da qui prendono avvio.

«Si è fatta più nitida in primo luogo, al vertice ed alla base del Partito, la coscienza collettiva della propria identità storica, della propria fisionomia originaria ed autonoma.

Si è accresciuta la fiducia nelle concrete possibilità di allontanare definitivamente ogni rischio temuto di decadenza e di subalternità, di marginalità politica rispetto alle tendenze e ai partiti che a lungo hanno prevalso ed egemonizzato la dialettica politica italiana».

Il Congresso di Palermo vuol essere il coronamento di questo processo faticoso di rinnovamento e di risveglio della forza socialista.

È presto per dire che il rovesciamento di tendenza è ormai assicurato e consolidato, che è scongiurato ogni pericolo di declino, e nei dirigenti socialisti vi è forse una eccessiva euforia e una poco meditata sicurezza di sé, e tuttavia non è fuor di luogo parlare di una “nuova stagione” del PSI.

In effetti, quali che possano essere le prospettive future, il Partito socialista in questi anni ha cambiato profondamente la sua immagine, ha saputo scrollarsi di dosso una tradizione ormai appesantita, e i risultati elettorali hanno premiato l’immagine di modernità e di dinamismo aggressivo del “nuovo corso” socialista. La nuova simbologia del garofano è la veste esteriore in cui vuole dimostrarsi questo processo, è anch’essa dunque una scelta politica meditata e appropriata.

Ogni politica ha i suoi rituali, le sue forme esteriori, e a questo aspetto il nuovo gruppo dirigente si mostra particolarmente attento, proprio in quanto si tratta di risvegliare un forte patriottismo di partito.

Mi pare essenziale cogliere il fatto che vi è stata una rottura nell’evoluzione del PSI e capire le ragioni che l’hanno resa necessaria.

Il gruppo dirigente socialista aveva davanti a sé il problema di sottrarre il partito all’ineluttabilità del declino, e ciò comportava la necessità di una scelta, anche arrischiata di rinnovamento, che consentisse di entrare in contatto con nuove forze di allargare e modificare le tradizionali basi sociali del partito.

Ciò può spiegare l’asprezza dello scontro interno e i metodi di direzione, talora perfino brutali, che sono stati instaurati. Per il gruppo dirigente craxiano il nemico è soprattutto all’interno, è la vecchia tradizione che cerca di resistere, sono gli uomini che la incarnano e la rappresentano. Di qui viene tutta l’azione, tenace e spregiudicata, per sgretolare le vecchie correnti e per costruire all’interno del partito un nucleo dirigente incontrastato, che possa muoversi senza troppi impacci e condizionamenti.

Non può stupire, allora, la scelta di eleggere direttamente al Congresso il segretario del partito.

Si vuole così sanzionare l’irreversibilità del processo, e avere un punto di riferimento fermo e indiscusso.

Nel quadro di questa operazione di rifondazione del partito hanno avuto un loro ruolo prezioso quei giovani intellettuali iconoclasti che hanno dichiarato guerra a tutta la tradizione storica e teorica del movimento operaio. Anche la tardiva e un po’ ridicola rivalutazione di Proudhon è una mossa politica che si spiega entro questo disegno, un gesto volutamente polemico e provocatorio, la ricerca di un qualche punto di riferimento da contrapporre all’eredità leninista.

Si trattava di una mossa politica, e non certo di un tentativo organico di rifondazione teorica: una volta compiuta la provocazione, il vecchio Proudhon è ritornato nell’ombra da cui era uscito solo per poche settimane, e i militanti socialisti si sono dedicati ad altre più aggiornate e proficue letture.

In ciò si rivela uno stile caratteristico del gruppo craxiano, che sceglie con accuratezza e abilità le mosse tattiche, senza collocarle in un più vasto quadro strategico e teorico.

Questo assoluto predominio della tattica sulla strategia è un dato importante, che occorre avere ben chiaro per valutare il senso reale dell’attuale politica socialista.

Tutti coloro che si affannano a decifrare il “disegno strategico” di Craxi finiscono per rimanere disorientati da atti e scelte che non risultano compatibili con quel presunto disegno.

Da questo approccio inadeguato vengono molti errori di valutazione, molte generalizzazioni sommarie, molti indebiti processi alle intenzioni.

Il “disegno” consiste più semplicemente nel proposito di allargare in ogni modo e in tutte le direzioni possibili lo spazio politico del PSI, ridottosi ad essere troppo angusto per le ambizioni politiche di un partito che legittimamente non vuole rassegnarsi ad un ruolo minore e subalterno. Se si giudica con questo criterio di valutazione, mi pare che si possa trovare una logica nella tortuosità e contraddittorietà dei comportamenti politici del PSI.

Ciò cambia, evidentemente, la natura dei rapporti all’interno della sinistra, crea nuove e inevitabili tensioni, ma non ci autorizza a considerare come già compiuto o inarrestabile un mutamento di campo, una dislocazione del PSI nello schieramento moderato. Non c’è una strategia consapevole da battere, ma c’è piuttosto un dinamismo e un nuovo spiccato orgoglio di partito che occorre cercare di mettere in sintonia con le esigenze complessive della sinistra. Le divisioni sono aspre, ma non hanno un carattere di principio, investono la tattica più che la strategia, e riflettono una situazione di concorrenzialità che si è accentuata.

L’impianto robusto e ambizioso delle tesi “riformiste” non deve farci perdere di vista questa flessibilità tattica del PSI e non smentisce, a mio giudizio, l’analisi fin qui fatta. Ho già osservato, all’inizio, come sia carico di ideologia, ovvero di strumentalità politica, il richiamo ai valori della tradizione riformista. Piuttosto, questo risalire alle fonti del movimento socialista italiano può essere il segno di una riacquistata sicurezza, dopo una fase di ricerca affannosa e di spericolati tentativi culturali. Ormai il nuovo PSI si è affermato, e può tornare a rispecchiarsi nella sua storia.

Con il congresso di Palermo, il PSI vuole fornire un’immagine di sicurezza e di equilibrio, correggendo quell’impressione di congenita instabilità ed inquietudine che, in molti momenti, ha fatto apparire il ruolo dei socialisti come un fattore di permanente destabilizzazione.

C’è una correzione di percorso, visibile nella dichiarata freddezza verso l’area radicale, e nei toni di misurata prudenza, nella rinuncia ad ogni gesto clamoroso.

Un congresso di stabilizzazione, dunque, che vuole consolidare i risultati politici acquisiti negli ultimi anni, senza forzature e accelerazioni ulteriori.

Ma veniamo, dopo questa premessa anche troppo lunga, a prendere in esame i concetti-chiave su cui si regge tutto il discorso politico delle tesi: nuova destra, governabilità, grande riforma. Si nota subito la tipica impronta craxiana: concetti immaginosi, non rigorosi nel loro contenuto, ma capaci di interpretare stati d’animo, di fornire motivazioni, di suscitare emozioni politiche.

«Una nuova destra è in formazione, decisa ad inserirsi nei fattori di crisi presenti nella società, per allargare il fossato della sfiducia tra i cittadini, la politica e le istituzioni e per aprire il varco a nuove concentrazioni di potere. Essa, come è nella tradizione delle destre di tutta Europa, nella loro fase iniziale ed ascendente, ricorre con frequenza a temi semplici e demagogici, ricalca in modo più sofisticato le orme del qualunquismo, ha i suoi punti di appoggio consapevoli e inconsapevoli all’interno ed all’esterno dei partiti, i suoi punti di forza in gruppi economici finanziari e in comparti e settori della stampa, non disdegna di ricorrere all’ambiguità delle tattiche rovesciate ricorrendo all’uso di un linguaggio progressista e di sinistra».

Non è un’analisi, ma è l’evocazione di un’oscura minaccia, di un nemico in agguato. La definizione è troppo ampia e sfuggente per poterne trarre indicazioni precise, puntuali. Il senso di questo concetto della nuova destra può forse essere meglio individuato se lo mettiamo in connessione con il tema della governabilità. Il pericolo di destra sta allora in tutto quel complesso di forze e di tendenze che fanno ostacolo alla governabilità, che mettono in discussione il sistema politico, che irrompono sulla scena politica in modo tale da rendere sempre più arduo e problematico il ruolo di mediazione e di rappresentanza dei partiti politici.

Se è così, si tocca una questione cruciale, ma non può in nessun modo risultare convincente la posizione presa nelle tesi socialiste.

È certamente vero che nella moderna società italiana si esprime, in forme varie e complesse, una critica della politica, un rifiuto del suo primato, una rivendicazione di autonomia da parte dei diversi soggetti sociali che tende a sconfinare nel corporativismo. Ma in tutto questo movimento, denso di incognite e di rischi, non è oggi prevalente, come è stato nel passato, l’aspetto reazionario, ma vi è piuttosto una richiesta, forte e legittima, di rinnovamento delle forme della politica, di ritorno ai bisogni reali degli uomini, alla loro radicalità, in opposizione ad una politica che manipola e distorce questi bisogni costituendosi come sfera separata, come astratto esercizio del potere.

Una riaffermazione rituale del ruolo dei partiti è di assai poca utilità, e anzi rischia di approfondire il fossato tra società e istituzioni. È lo stesso concetto del primato del politico che va ripensato, o quanto meno posto su nuove basi, spogliato da quell’involucro conservatore che appare oggi prevalente.

In sostanza, credo che alle manifestazioni della cosiddetta “nuova destra” si debba prestare una qualche attenzione, che si debbano indagare con più serietà i problemi che ne derivano, che oggi più che mai sia improponibile una qualsiasi “boria di partito”.

Mi pare che, intorno a tale questione, il PSI compia un pericoloso passo all’indietro, mettendo in ombra quella che pure è stata, in molte occasioni, una sua caratteristica di apertura e una sua capacità di rapporto più immediato con la realtà sociale e con gli stati d’animo che in essa maturano.

È probabile che anche in questo caso sia determinante, nelle posizioni del PSI, una considerazione più immediata, più contingente, l’esigenza cioè di far fronte a una campagna di ostilità che il nuovo corso socialista ha suscitato, che ancora una volta si tratti essenzialmente di un problema di spazio politico, di ruolo, di riconoscimento di una funzione vitale. L’asprezza della polemica con Visentini ha certamente questo significato.

Ma è comunque pericoloso agitare spauracchi generici e indefiniti. Ciò può alimentare proprio quelle tendenze integralistiche e conservatrici che nel progetto di tesi vengono denunciate.

E inoltre, mettendo dentro un’unica e indistinta definizione fenomeni tra loro così diversi, confondendo pericoli reali che vanno combattuti e fermenti nuovi che vanno compresi e indirizzati, si oscura il discrimine reale dello scontro politico e di classe, e diviene sbrigativamente di destra tutto ciò che in qualche modo costituisce una difficoltà, un problema.

Si tratta, a ben guardare, di un metodo di estrazione stalinista, di una logica non troppo dissimile da quella che porta, ad esempio, a considerare reazionari tutti i processi di tumultuosa novità che accadono oggi nella società polacca.

A questo approdo pericoloso si giunge, come si è già notato, per il ruolo centrale che ha assunto nell’elaborazione socialista il concetto della governabilità. Per un partito della sinistra assumere come prioritario il criterio della governabilità conduce necessariamente ad una grave limitazione della propria iniziativa politica, ad un offuscamento della sua essenziale ragione d’essere come: forza di trasformazione.

Un processo di cambiamento, anche graduale e riformista, non può non dar luogo a momenti di rottura, di tensione, di crisi degli equilibri sociali e politici, e occorre quindi preventivare una fase lunga e travagliata di instabilità, e sapersi muovere dentro di essa.

Il valore della governabilità, preso in se stesso, ha come unico sbocco possibile la cristallizzazione dell’esistente, la perpetuazione del sistema politico così com’è.

E allora è la destra che se ne avvantaggia, una destra, questa, corposa e ben determinata, insediata nel sistema del potere. E tuttavia, non c’è dubbio che da parte socialista si sia colto un problema reale, politicamente rilevante.

C’è uno stato d’animo del paese di cui tener conto, un bisogno di stabilità, un pericolo serio quindi che da tutto ciò possa venire un’ondata restauratrice, un colpo alla forza e al prestigio della sinistra.

La scelta politica contingente di una partecipazione al governo, per scongiurare il meccanismo di ripetute elezioni anticipate, può essere considerata una scelta obbligata e ragionevole. Ma perché caricarla di questo valore astratto ed ambiguo che si esprime nella formula della governabilità? Perché accettare una logica che è di per sé sfavorevole alle prospettive della sinistra? Possono essere opportuni momenti di tregua e di compromesso, ma bisogna evitare che essi si trasformino in una sorta di sabbia mobile dove è fatale affondare.

Mi pare che qui si riveli il limite di quel calcolo tattico esorbitante di cui prima si è parlato.

Il PSI ha giocato questa carta della governabilità con una indubbia intelligenza tattica, prendendo atto di una situazione obbligata e tentando di volgerla a proprio favore, di affermarsi come una forza di sinistra responsabile e di scaricare sul PCI i prezzi del ripiegamento cui la sinistra si trovava costretta.

Ma ora la manovra si ritorce contro lo stesso PSI e lo mette in una condizione di impasse, sempre più prigioniero di un quadro politico mediocre e sbiadito, da cui non c’è da attendersi nessun elemento di novità e nessuna possibile evoluzione positiva.

Il Partito Socialista si trova così esposto al rischio di una mera “occupazione del potere”, in un rapporto più concorrenziale che conflittuale con la Democrazia Cristiana. E c’è chi lavora per assecondare questo sbocco, per surrogare una DC ormai logorata e incapace di egemonia con il dinamismo del nuovo PSI, che potrebbe trovare in questo esito un sufficiente e gratificante riconoscimento del proprio ruolo e delle sue ambizioni politiche.

È questo un pericolo insito nelle cose, e la flessibilità tattica del PSI, che si è rivelata di grande utilità in una fase di rilancio del partito, lascia aperta la possibilità di esiti diversi e può finire nelle secche di un ruolo di inerte mediazione, dentro le rigidità di un sistema di potere che non si è modificato.

A questo punto il problema investe le responsabilità complessive di tutta la sinistra. Se non c’è un’accorta iniziativa unitaria capace di offrire al PSI il terreno di una collaborazione possibile e vantaggiosa, si può creare nella sinistra una divaricazione profonda e incolmabile.

La sinistra può governare se c’è un PSI forte e vitale, e questa sua vitalità non è scindibile dalla sua capacità di autonomia, da una sua caratterizzazione originale e diversa che sia visibile, da una sua collocazione “di cerniera” che lo metta in grado di estendere in nuovi campi l’influenza della sinistra e di sfondare anche sul versante moderato.

Indubbiamente, nell’autonomia socialista agisce anche il riflesso di spostamenti sociali, di modificazioni intervenute nella sua composizione di classe.

Si è notevolmente esteso, nella moderna società industriale, lo strato delle forze intermedie, ed esse tendono a costruire un proprio spazio politico, a non lasciarsi schiacciare dentro una rigida contrapposizione di classe: nel PSI possono trovare uno strumento adeguato alla condizione che esso accentui la sua autonomia e che assuma una posizione di forte concorrenzialità ed antagonismo verso i due maggiori partiti.

Questa tendenza non è tale da fare svanire la tradizione operaia del PSI, ma certo è operante e cambia il quadro della sinistra, lo arricchisce e lo completa, mette in campo nuove forze sociali, con la loro peculiarità, riproponendo quindi tutto il tema delle alleanze.

Il pericolo incombente del settarismo sta nello smarrire questa visione più ampia e articolata della realtà della sinistra in Italia, ed esso ridurrebbe il movimento operaio ad un ruolo di testimonianza agguerrita ma isolata.

La questione politica centrale è, per l’insieme della sinistra, quella del rapporto tra governabilità e alternativa. Da un lato sta il pericolo di un inserimento subalterno nel sistema di potere, dall’altro il rischio di una predicazione astratta, di una riduzione della politica a propaganda.

È da questo circolo vizioso che occorre uscire. E allora si tratta di individuare quali possono essere, nel concreto delle possibilità reali, i processi anche parziali nel senso di un’alternativa al sistema di potere democristiano, di una rottura della sua centralità.

Tutta la problematica della “grande riforma” può essere utile ad avviare questa discussione, a ricercare le strade di una possibile politica di trasformazione.

Se è vero tutto quanto si è ripetutamente detto sull’intreccio malsano costruito dal partito dominante, dentro i meccanismi più delicati dello Stato, tra funzione pubblica e interesse di parte, se non si tratta semplicemente di sostituire la DC ma di rovesciarne la logica e di costruire un modello nuovo di Stato democratico, allora è interesse vitale della sinistra mettere le mani su questo complesso di problemi, indicare soluzioni nuove, legare la propria candidatura come forza di governo a un’idea di profondo rinnovamento delle istituzioni.

Sono di corto respiro quelle obiezioni al tema della “grande riforma” che nascono da una pregiudiziale difesa dall’attuale ordinamento democratico e quindi dal sospetto che qualsiasi ipotesi di cambiamento non possa che essere il preludio di una “seconda Repubblica” autoritaria e conservatrice.

«L’edificio della Costituzione non deve essere considerato intoccabile salvo che nei principi e nei valori che ne definiscono il carattere profondamente democratico.

Ma proprio per raggiungere lo scopo di preservare l’edificio nelle sue strutture portanti e nel suo disegno complessivo si rende necessaria un’attenta opera di verifica e di restauro». Sono affermazioni che possono essere condivise, con la riserva naturalmente di valutare il merito delle modifiche che possono essere proposte.

A me sembra, piuttosto, che le tesi socialiste non riescano a sviluppare conseguentemente questa loro premessa, che dall’enunciazione solenne della necessità di un vasto processo riformatore non riescano a far discendere che proposte assai limitate e parziali. E, soprattutto, tutto sembra concentrarsi sul problema della stabilità dell’esecutivo (sfiducia costruttiva, voto palese in Parlamento, ecc.).

Questa particolare curvatura della linea di riforma proposta dal PSI, se viene vista nel contesto generale delle tesi sulla nuova destra e sulla governabilità, non può che suscitare un’impressione negativa.

In sostanza, si tratterebbe solo di mettere in atto dei puntelli efficaci per far fronte all’attuale crisi dello Stato, senza indagarne più a fondo le cause e le ragioni politiche.

Sarebbe apparso più convincente, se davvero si considera sostanziale il problema della stabilità del governo, aprire una discussione sulla Repubblica presidenziale, in quanto questa via potrebbe almeno avere il vantaggio di parlare alla coscienza della gente, di chiamare in causa la responsabilità dei cittadini, e anche di modificare a tal punto le regole del gioco politico da costringere tutte le forze politiche a uscir fuori da una situazione stagnante e bloccata.

Il governo può chiedere più potere, più stabilità, in quanto esso si qualifica tramite una più forte investitura democratica. Non ho particolari predilezioni per un’ipotesi di questo tipo, ma mi sembra che essa avrebbe potuto essere un coronamento più logico e più coraggioso del discorso avviato dalle tesi socialiste.

Credo però che la ricerca debba orientarsi in altre direzioni. La crisi di governabilità sta in primo luogo nel fatto che tutto l’impianto istituzionale non è in funzione di un governo democratico dei processi economici e sociali, non corrisponde alle esigenze della programmazione, che restano pertanto, allo stato attuale delle cose, vane dichiarazioni di intenti.

È qui, in questo nesso tra politica ed economia, che la sinistra può sviluppare un proprio discorso originale, coerente con una prospettiva di tipo socialista, capace di porre tutto il problema della governabilità su una base meno angusta e meno esposta alle pressioni conservatrici.

A questa necessità di un forte rilancio della programmazione il Partito socialista non è certo insensibile. È anzi questo un problema fortemente sottolineato nelle Tesi congressuali.

Partire da qui per affrontare i problemi di riforma istituzionale: in questo modo si può dare a tutto il disegno riformatore un taglio più convincente, lo si può legare alle esigenze reali del paese, alle esperienze di lotta della classe lavoratrice. E diviene più chiaro e visibile l’avversario: non una nuova destra dai contorni sfuggenti, ma un complesso corposo di interessi materiali e di posizioni di potere che in ogni modo si oppongono all’idea di un governo democratico dell’economia, a un mutamento di rapporti di potere nella fabbrica e nella società.

Programmazione economica e democrazia industriale: su queste due leve la sinistra può intervenire, e può farlo in modo unitario perché già esiste una vasta convergenza di posizioni. Perché allora non vedere in questa ottica tutto il tema della riforma istituzionale, non assumere questo punto di vista anche per quella rilettura critica della Costituzione di cui parlano le Tesi socialiste?

Può fare ostacolo la diversa valutazione che si dà della crisi, della sua ampiezza, l’orientamento ancora troppo ottimistico presente nel Partito socialista, da cui viene il fatto che un nuovo corso di politica economica, e un passaggio al metodo della programmazione, è sì auspicato, ma non assume quel rilievo centrale che invece si ricava da una piena consapevolezza della profondità della crisi in atto e dei pericoli di decadenza a cui è esposta la società italiana.

Tuttavia, da una discussione e da un confronto più serrato possono venire analisi e valutazioni più ragionate e più convergenti, e non appare impossibile, su questo terreno, un cammino unitario. Occorre dunque far sì che l’ambizioso disegno riformatore annunciato dal PSI divenga l’occasione per un confronto, occorre evitare che esso si riduca ad un generico messaggio propagandistico, o, peggio, che venga utilizzato in una chiave restauratrice.

C’è spazio, invece, per un lavoro di elaborazione che dia corpo e sostanza a una linea di alternativa politica, e questo lavoro appare condizione preliminare e necessaria perché divenga fattibile e realistica una evoluzione della situazione italiana, oggi pericolosamente bloccata.

È evidente, ad esempio, che la riproposizione della presidenza socialista, che è apparsa nel corso del dibattito congressuale del PSI come un tentativo di ritrovare dinamicità e di sfuggire alle secche di una governabilità fine a se stessa, può avere credibilità e può effettivamente spingere in avanti la situazione solo in virtù dei contenuti programmatici che possono qualificare una tale proposta, del disegno di riforma che ad essa si accompagna.

Se non c’è il supporto di un programma riformatore e di un’intesa unitaria nel movimento operaio, il tema dell’alternanza, pur in sé significativo e rilevante, finisce per essere caricato di ambiguità e di sospetti.

Il clima di confronto più costruttivo che, nelle forze della sinistra, si sta gradualmente determinando, e che lo stesso congresso socialista di Palermo ha contribuito in una certa misura a far maturare, può consentire che nel prossimo futuro si trovi una risposta al problema politico che oggi ci sta davanti: quali passaggi, quali percorsi politici, quali tappe ci possono condurre ad uno stadio più avanzato, a una maturazione del disegno di alternativa, quali equilibri nuovi, sia pure provvisori e parziali, possono essere costruiti in questa delicata fase di transizione.



Numero progressivo: G19
Busta: 7
Estremi cronologici: 1981
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Estratto rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Laboratorio politico”, n. 3, 1981, pp. 217-224