NORD-SUD
Convegno Associazione Ambiente e Lavoro - Giugno 1990
Relazione di Riccardo Terzi
Dall’insieme dei lavori del convegno esce con sufficiente chiarezza una linea di coerenza nell’analisi e anche nelle proposte operative, che si riassume in alcuni concetti chiave, che hanno percorso la nostra riflessione e il nostro dibattito. Sono stati posti il concetto di sviluppo sostenibile, innanzitutto, di uno sviluppo, quindi, compatibile con l’equilibrio ambientale ed il concetto di tecnologia appropriata, cioè di una tecnologia che si innesta sulle risorse economiche e culturali di un determinato ambiente.
Mi pare che alcuni punti fermi di analisi e di valutazioni siamo riusciti insieme a definirli. Mi pare che esca da questa valutazione l’esigenza di andare oltre una conoscenza, un’informazione, un sapere di tipo funzionale, cioè che si limita ad applicarsi alla situazione data. La crisi dei sapere funzionale, una crisi della conoscenza tutta interna agli attuali meccanismi di regolazione dello sviluppo è l’esigenza in altri termini di un sapere che non si occupa solo dei mezzi, ma si occupa anche dei fini, cioè va oltre la dimensione di un pragmatismo empirico, che spesso caratterizza l’operare politico. Credo ci sia per tutti l’esigenza di una riflessione, perché è vero che ormai nel dibattito politico ci sono delle acquisizioni comuni, sul tema del rapporto equilibrio ambiente. Ormai tutti parlano della necessità di armonizzare le esigenze di sviluppo con le esigenze ambientali.
Lo scarto tra queste affermazioni, spesso generiche, ed i comportamenti pratici, reali dei vari soggetti e uno scarto ancora grandissimo sul quale occorre intervenire.
Da queste idee generali, da questi concetti chiave su cui abbiamo ragionato deriva una convinzione di fondo, che assumeva Mercedes Bresso all’inizio. Il modello di sviluppo dominante, il modello di sviluppo dettato dal paesi ricchi non è generalizzabile; le spinte imitative, le spinte all’omologazione a esportare anche nei paesi del Terzo Mondo, nelle forme distorte in cui questo avviene, questo modello di sviluppo dominante provoca, se non viene bloccato per tempo, uno scenario di distruzione.
I paesi del Terzo Mondo allora rischiano di trovarsi di fronte a due alternative terribili, l’una e l’altra: o restare in una situazione di stagnazione o di ulteriore arretramento rispetto ai livelli di vita bassissimi oggi esistenti, o entrare dentro questo circuito perverso, terribile di un tipo di sviluppo che provoca delle distorsioni, dei costi sociali altissimi.
Quindi la risposta non è appunto in una via di sviluppo qual è quella perseguita in certe aree, nella Corea del Sud o a Formosa. Ieri abbiamo sentito con grande partecipazione la denuncia fatta dal sindaco di S. Paolo, dei terribili costi sociali che un certo tipo di sviluppo provoca in un paese che pure ha delle grandissime risorse, su cui potrebbe costruire una prospettiva diversa. Quindi l’esigenza di valorizzare le diversità, le culture nazionali, le tradizioni nazionali e di non pensare che ci sia come unica possibilità una rincorsa all’infinito per raggiungere i livelli dei paesi più avanzati.
Però, aggiungo il modello dominante ha in sé intrinsecamente una spinta di tipo espansivo, una spinta omologante. Per questo occorre partire dalla testa, partire, agire sul motore dello sviluppo, come ricordava anche Mercedes Bresso.
In questo contesto allora qual è il senso possibile, o meglio i diversi sensi possibili, di una politica di cooperazione?
Una politica di cooperazione può essere intesa semplicemente come un aiuto che non intacca le leggi generali dello sviluppo, le regole di fondo che definiscono ii sistema dei rapporti tra paesi avanzati e passi del Terzo Mondo, un aiuto che in qualche modo mette a posto la coscienza dei paesi avanzati, senza modificare alla radice il meccanismo complessivo di sviluppo mondiale. Può essere, invece, un tentativo di avviare una diversa regolazione dei rapporti, di cambiare la logica delle relazioni internazionali. Questo mi pare il punto su cui allora possiamo discernere dentro la politica di cooperazione su quello che c’è di positivo, o di negativo e, in quale misura, attraverso una politica di cooperazione, noi agiamo sulle cause di fondo che hanno determinato le strozzature e gli squilibri su scala mondiale.
È stato più volte ricordano ii concetto dell’interdipendenza, si e detto, richiamando anche la politica Gorbacioviana, come non c’è soluzione oggi ai problemi mondiali entro una logica chiusa. Così come per i rapporti tra Est e Ovest non c’è soluzione dentro la logica dei blocchi, cosi i rapporti su scala mondiale tra Nord e Sud non possono essere risolti se non si pensa in termini mondiali e non si costruisce una politica a scala mondiale.
Un altro aspetto, nella ricerca di nuove soluzioni, se questo è il quadro: abbiamo bisogno tutti almeno di un grande sforzo di ricetta, di elaborazione culturale, per uscire fuori da un meccanismo che, se non viene corretto per tempo, provoca gli effetti che abbiamo sotto gli occhi.
In questa ricerca un punto importante è la ricerca tecnologica, come intervenire nell’uso delle tecnologie: vi sono le considerazioni importanti che faceva ieri Commoner, possibilità di soluzioni tecnologiche alternative rispetto a quelle che fin qui sono state praticate.
In questa ricerca di diverse soluzioni economiche e tecniche, si deve però fare i conti e misurarsi concretamente con la struttura del potere, con la corposità delle strutture di potere e degli interessi dei vari gruppi sociali e delle varie classi dominanti, cioè non è un fatto puramente di ricerca.
Ieri, in un intervento interessante, Ettore Tibaldi ricordava alcuni aspetti di questo problema, con la citazione sulla sorte che ha avuto la tecnologia della ruota. Ad un certo punto, nella civiltà egiziana questa tecnologia si è bloccata per un millennio perché ha vinto la corporazione dei cammellieri il che ha modificato una possibilità di sviluppo, in quanto erano intervenute delle strutture di potere che hanno dato un certo segno a questo tipo di civiltà.
Oggi credo che sia così per molte delle cose; molte delle soluzioni tecnologicamente possibili già da oggi sono bloccate da interessi, da strutture di potere, da responsabilità delle classi dirigenti.
Questo vale per molti dei paesi del Terzo Mondo, ne parlava ora Giorgio Napolitano, citando le cifre impressionanti su quanto del debito di questi paesi e stato rapinato dalle borghesie nazionali, dai gruppi dominanti di questi paesi. C’è un problema insieme di ricerca tecnologica, di ricerca di soluzioni alternative e di scontro politico di classe, che nelle singole realtà nazionali assume poi caratteristiche di verse.
In questo senso a me pare che il tema della cooperazione non può essere visto, in modo neutro, almeno così lo intendiamo noi, nell’impegno della CGIL di Progetto e Sviluppo. Abbiamo idea di partecipare a una politica di cooperazione avendo presente queste esigenze, di partecipare alla cooperazione vedendo le contraddizioni interne ai singoli paesi e cercando di far crescere la possibilità di un diverse sviluppo di questi paesi. Abbiamo in corso un’esperienza interessante di cooperazione in Brasile con la centrale sindacale della CUT, un progetto di cooperazione che consiste nell’obiettivo dl costruire lì, sul campo, una forza sindacale in grado di affrontare i problemi della sicurezza, della medicina del lavoro, di controllare lì i processi devastanti che stanno avvenendo sulla pelle dei lavoratori.
Quindi il problema è far crescere in questi paesi la possibilità di uno sviluppo democratico diverso da quello che è stato imposto dalle classi dominanti.
Più in generale io credo che il movimento sindacale debba lavorare sistematicamente per un rapporto di collaborazione molto stretta con i movimenti ambientalisti. Questo abbiamo cercato di farlo nell’esperienza lombarda, sia come CGIL, sia con l’esperienza molto importante dell’Associazione Ambiente e Lavoro. Non dico che questo rapporto sia di per sé pacifico, che non ci siano delle potenzialità anche di contraddizione e di conflitto. Tuttavia senza una ricerca sistematica di convergenze rischiamo entrambi di prendere delle strade sbagliate, rischiamo di avere un sindacato corporativo, subalterno, che non tiene conto degli interessi generali, che si limita a stare dentro ad una logica di collaborazione subalterna nell’ambito delle singole imprese, o d’altra parte rischiamo di avete un movimento ambientalista che prende una linea di direzione molto astratta, ideologica, di tipo fondamentalista, che non fai conti quindi con la concretezza dei processi sociali.
Quindi noi in questa direzione stiamo lavorando, come organizzazione sindacale in Lombardia, d’altra parte i problemi di cui abbiamo parlato hanno già oggi una concretezza.
Ieri nel corso della giornata molta parte è stata dedicata al tema delle grandi aree urbane e su come nelle grandi aree urbane sia visibile il limite di un certo tipo di sviluppo, l’insostenibilità di una linea di sviluppo, che non riesce a trovare delle regole. Credo che, a partire appunto dalla concretezza del tema delle grandi aree urbane, possiamo impegnarci in un’azione anche concreta sindacale e in un rapporto molto aperto con le forze politiche, con le forze ambientaliste per tentare di ripensare radicalmente il tipo di sviluppo.
Non parliamo di cose astratte, parliamo di problemi che abbiamo direttamente qui, in Italia, nelle grandi città il problema Nord Sud, con la presenza massiccia di lavoratori che vengono dal Terzo Mondo, che hanno quindi modificato lo scenario sociale, politico delle nostre città. È un tema interno, non soltanto di solidarietà con una realtà lontana; è un problema visibile, immediato, che ci pone concretamente i temi che abbiamo discusso: è come riconoscere, valorizzare le diversità pensare una società multietnica e insieme, però, garantire a tutti un’uguaglianza di diritti. A partire da questa situazione dobbiamo riuscire a fare una grande battaglia culturale, per rompere la vecchia logica egocentrica, che ha molto condizionato la vita politica, l’orientamento anche di forze democratiche, abituate a ragionare soltanto dentro questo mondo, tutto sommato piccolo dell’Europa occidentale.
Io credo che il movimento sindacale, e le forze del movimento operaio della sinistra oggi possano affrontare in modo nuovo l’ecosistema.
Cito un’ultima questione, su cui mi pare importante un’iniziativa e un lavoro concreto del movimento sindacale: il tema delle società multinazionali. Bisogna riuscire e a costruire un’iniziativa iniziativa e un controllo sindacale su processi che hanno questa dimensione. Qui si è parlato di trasferimento delle tecnologie verso i paesi del Terzo Mondo, che avviene nella logica di un trasferimento che determina guasti sociali e ambientali. Questo vale anche dentro la realtà europea verso paesi meno sviluppati; pensiamo a paesi come la Spagna e il Portogallo, dove tutte le grandi imprese sono imprese straniere, necessità quindi un’azione coordinata su scala europea e su scala mondiale.
Questo è problema per il sindacato che è ancora dentro una dimensione prevalentemente nazionale.
In questi giorni si è posto il problema di una riforma della CES e del sindacato europeo, l’esigenza di costruire in modo adeguato un’azione coordinata del sindacato su scala europea anzitutto e su scala mondiale, per controllare questi processi, per impedire che il futuro sia deciso in modo unilaterale dalle società multinazionali.
In questa linea noi siamo impegnati.
Testo non rivisto dal Relatore
Busta: 1
Estremi cronologici: 1990, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Dossier Ambiente”, n. 10, pp. 94-96