MOVIMENTO OPERAIO E FORZE AMBIENTALISTE: NECESSITÀ DI UNA CONVERGENZA
Politica e ambiente: chi decide e come? - Convegno FIOM Lombardia maggio 1988
Intervento di Riccardo Terzi – Presidente Associazione Ambiente e Lavoro
Cercherò con questa relazione di motivare una tesi politica che può essere così riassunta: nelle condizioni attuali il movimento operaio da un lato, e le forze della cultura ambientalistica dall’altro, si trovano in una condizione oggettiva di convergenza tanto che sempre più diventa necessario per entrambe le parti un lavoro in comune, un lavoro di collaborazione.
Dico questo sapendo che esistono tuttora difficoltà, contraddizioni, punti di vista diversi, ma credo che nella sostanza, se andiamo al fondo delle questioni, non soltanto c’è un’opportunità di un lavoro comune, ma credo che vi sia una convergenza sostanziale considerando i cambiamenti che stanno avvenendo nella società italiana, nelle società capitalistiche sviluppate e considerando i termini nuovi in cui si presenta oggi il problema dello sviluppo.
A me pare che non funziona più oggi un vecchio schema di ragionamento, un vecchio schema ideologico che è stato per lungo tempo proprio del movimento operaio e della cultura della sinistra; lo schema per cui la destra conservatrice, le forze conservatrici sono portatrici di una linea di stagnazione e quindi la contrapposizione con questa funzione di stazione propria delle forze conservatrici spetta alla sinistra.
C’è oggi un notevole dinamismo delle forze economiche dominanti, forze che propongono un’ipotesi di sviluppo, un’ipotesi possibile, praticabile e praticata.
Con questa ipotesi di sviluppo noi dobbiamo fare i conti e misurarci perché si tratta di un modello di sviluppo che per la sinistra, per il movimento operaio non è accettabile per gli aspetti qualitativi che presenta. Quindi l’alternativa non è tra stagnazione e sviluppo, ma è tra due modalità diverse dello sviluppo.
Lo sviluppo che viene guidato oggi dalle grandi concentrazioni capitalistiche presenta alcuni aspetti qualitativi, dai quali prende il via l’esigenza di un nuovo conflitto sociale.
Primo di questi aspetti è l’accentramento del potere decisionale e quindi la concentrazione del potere economico politico che fanno riemergere con forza una questione democratica che è di controllo sociale, di controllo democratico dei processi. C’è poi l’affermarsi di nuove forme di alienazione del lavoro, di subordinazione del lavoro; l’uso capitalistico delle nuove tecnologie, quindi una tendenza alla marginalizzazione del lavoro umano nei processi produttivi, per cui il lavoro umano è sempre più una variabile dipendente da fattori esterni tecnologici e di mercato; e in questo contesto l’impresa si configura come organizzazione gerarchica e autoritaria. In terzo luogo lo sviluppo in atto apre contraddizioni sociali di grande rilievo a partire dalla contraddizione sociale che si riferisce ai livelli di occupazione.
Infine la contraddizione tra sviluppo e esigenza di salvaguardia dell’ambiente. Una contraddizione che si determina non soltanto all’interno dei luoghi di lavoro, dove in qualche misura c’è sempre stata, ma che si espande su tutto il territorio. Non una contraddizione interna al luogo di produzione, ma una contraddizione sociale più ampia, relativa al rapporto tra fabbrica e territorio, tra produzione e ambiente esterno.
La sinistra oggi si qualifica se è capace di criticare questo modello di sviluppo ed è in grado di costruire un proprio progetto politico alternativo.
Per quanto riguarda il rapporto sviluppo/ambiente ci sono numerose analisi approfondite che evidenziano come questo rapporto è giunto a un punto limite, a una soglia oltre la quale rischiano di essere compromesse le condizioni fondamentali dell’organizzazione sociale.
Questi non sono soltanto singoli episodi di contraddizione, c’è un equilibrio sociale e ambientale che rischia di essere definitivamente compromesso da un certo tipo di sviluppo quale è quello che si sta realizzando nei paesi capitalistici sviluppati. Per questo c’è bisogno di un nuovo tipo di approccio politico al problema.
Sinora si è considerato il problema ambientale come un problema derivato: c’è lo sviluppo che va assicurato, va perseguito, poi se questo determina effetti collaterali negativi, su questi si interviene con una politica specifica per rimediare ai guasti.
Ora se è vero invece che siamo a un punto limite, questo tipo di approccio è evidentemente insufficiente. Occorre considerare il rapporto con l’ambiente alla radice, quindi progettare scelte di sviluppo che in partenza si facciano carico delle questioni ambientali. Altrimenti si interviene soltanto sugli effetti. Così come è stato in questi anni.
Per questo oggi è indispensabile l’incontro delle due culture, del movimento operaio e del movimento ambientalista, perché soltanto da questo incontro possiamo fare davvero un salto qualitativo nel modo di porci di fronte alle questioni dello sviluppo.
Incontro indispensabile per il movimento operaio che può così incorporare nella propria cultura tutta la tematica ambientalistica, incorporarla come scelta propria per non finire in una posizione subalterna, per non finire cioè in una posizione secondo la quale facciamo nostri i parametri che determinano lo sviluppo capitalistico.
La medesima esigenza di incontro c’è per il movimento ambientalista se non vuole ridursi a una posizione di mera testimonianza.
Il movimento ambientalista deve tentare un’operazione più in profondità che entra nel vivo proprio dello scontro sociale e dei rapporti di classe. Per fare questa operazione c’è però bisogno di una battaglia politica e culturale contro tutte le posizioni che sono da ostacolo a questo incontro, a questa sintesi tra le ragioni dei movimento operaio e le ragioni del movimento ambientalista.
Nel movimento operaio sono ancora presenti i residui di una cultura industriale di vecchio stampo, di una concezione di tipo positivistico dello sviluppo tecnico e scientifico, secondo la quale tutto quello che va nel senso dello sviluppo va comunque incoraggiato.
Tutto ciò fa sì che parte del movimento operaio, della sinistra, si trovi in una posizione culturalmente subordinata rispetto alla logica che prevale nel tipo di sviluppo in corso.
Qui emerge quell’offensiva ideologica che si è sviluppata in questi anni che ha fatto del modello dell’impresa capitalistica il modello sociale, il modello che vale come unico criterio di selezione dei problemi e di scelta delle soluzioni.
Sull’altro versante, quello del movimento ambientalista, c’è il problema di contrastare posizioni che possono essere chiamate di tipo fondamentalistico, cioè posizione per cui la stessa idea della natura viene vista come un’idea del tutto astorica, una difesa della natura in quanto tale, come valore astratto, non storicizzata, non vista in relazione con i cambiamenti sociali concreti. Da qui viene un rifiuto della civiltà industriale in quanto tale, non per le distorsioni capitalistiche che si sono determinate. È su questa base che c’è lo scontro con le ragioni del movimento operaio.
La contrapposizione diventa infatti inevitabile se il movimento ambientalista si caratterizza per una linea anti industriale, perché così facendo non riconosce le ragioni dei movimento operaio a partire appunto dal processo di produzione.
Il problema comune è allora quello di ridefinire le linee di un nuovo sviluppo che affronti e risolva le contraddizioni esistenti, riconoscendole come contraddizioni reali. Sbaglieremmo profondamente a non vedere come il rapporto sviluppo/ambiente è comunque un rapporto contraddittorio, esistono contraddizioni reali che vanno governate; perché non c’è una contraddizione insolubile fra le ragioni all’ambiente e le ragioni dello sviluppo.
Ci sono contraddizioni che hanno una dimensione molto vasta, complessa. C’è una contraddizione planetaria che sarebbe bene ogni tanto ricordare: è quella tra aree di grande sviluppo e aree arretrate; la contraddizione nord-sud a livello mondiale.
L’interrogativo legittimo che a questo punto ci si può porre è se si tratta di contraddizioni risolvibili. Perché la portata di queste è tale che si potrebbe anche ritenere che siamo a un punto in cui l’unica soluzione è proprio il blocco dello sviluppo.
Credo che noi dobbiamo valutare bene tutte le possibilità che derivano dall’utilizzo dallo sviluppo delle potenzialità della scienza e della tecnologia; senza avere concezioni ottimistiche di tipo ottocentesco un uso corretto e un impulso ulteriore alla ricerca scientifica, possono metterci nelle condizioni di risolvere alcuni problemi.
Però questo è soltanto un aspetto. Va superata poi l’idea che il progresso è grado di risolvere spontaneamente i problemi che genera, di risolvere le proprie interne contraddizioni. L’esigenza di un forte impegno nella ricerca tecnica e scientifica va però di pari passo con l’esigenza di cambiamento anche radicale dei modelli sociali, dei modelli di vita.
Ci sono una serie di questioni che oggi stanno diventando delle vere e proprie emergenze sociali che possono essere affrontate soltanto se tentiamo delle operazioni di riorganizzazione della società e di definizione di un modello sociale.
Il movimento operario su questi temi non ha lavorato molto; oggi si trova quindi in ritardo.
È ancora molto presente nella coscienza comune la convinzione che il progresso ha degli inconvenienti, ma, tutto sommato, non è necessario ripensare radicalmente al modello di sviluppo.
Da tutto ciò si fa comunque strada un concetto ben preciso: che l’idea liberista cioè l’idea del mercato come regolatore dello sviluppo non funziona. Questo è un punto decisivo di convergenza tra il movimento operaio e il movimento ambientalista: cioè la convinzione che c’è bisogno di un governo dei processi e che l’automatismo del mercato determina contraddizioni crescenti e, in ultima istanza, effetti catastrofici.
Quando affrontiamo il problema dell’ambiente, del rischio industriale vediamo che quello di cui c’è bisogno è un intervento politico più mirato. Su questo punto siamo infatti in estremo ritardo anche rispetto ad altri paesi dell’occidente.
Solo adesso cominciano ad esserci alcuni cambiamenti dopo anni in cui si è verificato un esplicito boicottaggio da parte di certe forze.
Tutta la legislazione in materia ambientale deve essere ridefinita, ricostruita; poi c’è da risolvere il problema dell’efficacia delle varie strutture pubbliche di intervento, a partire da quelle di base.
Un secondo punto decisivo di convergenza tra le esigenze del movimento operaio e le esigenze del movimento ambientalista è quello del controllo sociale, del controllo democratico sui processi. Qui c’è stata in tutti questi anni la tendenza a una linea di tipo tecnocratico; cioè esistono degli esperti, esistono delle grandi tecnostrutture che hanno le competenze, i mezzi, gli strumenti di conoscenza e la decisione va lasciata a questi. Qualunque interferenza dell’opinione pubblica, del movimento o del sindacato o dei lavoratori non può che essere deviante perché c’è appunto una oggettività scientifica che non può essere sottoposta a nessuna verifica democratica. Introdurre la democrazia nella scienza, si dice, è una follia.
È un argomento ricorrente, è stato l’argomento usato dagli oppositori del referendum sul nucleare: com’è possibile che la grande massa dei cittadini possa pronunciarsi su una materia così complessa, è stato detto?
La stessa questione si pone dentro i luoghi di lavoro.
Anche qui c’è per i lavoratori un problema che noi faticosamente cerchiamo di introdurre anche nella contrattazione sindacale: non soltanto la difesa del posto di lavoro e delle condizioni di lavoro, del salario, ma un intervento sulle scelte, sulle strategie delle imprese.
Certo che questo intervento è più complicato, richiede delle conoscenze, richiede per il sindacato un lavoro grandissimo di formazione se vuol essere in grado di intervenire a quel livello. E ciò che vale nel microcosmo della fabbrica, vale poi nella società: c’è un problema di intervento attivo di massa, di una diffusione sociale, un controllo democratico sulle modalità e sulle scelte generali dello sviluppo industriale in tutti i suoi aspetti.
Sul nucleare questa operazione è riuscita almeno in parte, questo salto c’è stato. La stessa direttiva Seveso rischierà di essere inefficace se non si attiva dal basso questa capacità di intervento, se tutto viene affidato soltanto agli esperti governativi.
Qui c’è un compito specifico del sindacato, del movimento dei lavoratori che può intervenire a partire dal processo produttivo.
Da qui il tentativo che si sta facendo in Lombardia. La stessa scelta di dare vita a un’associazione come quella di Ambiente e Lavoro che ha la caratteristica di essere un’associazione che, proprio perché di iniziativa sindacale, tenta di radicarsi nella realtà produttiva. Un’associazione che lavora in comune con le associazioni ambientalistiche, in particolare con la Lega Ambiente, per costruire insieme delle vertenze sociali coinvolgendo i consigli di fabbrica, vedendo assieme a loro i problemi dell’ambiente interno alla fabbrica e dell’ambiente esterno. Credo che questa sia una linea più efficace di quella dei referendum, mi sembra che una strada come questa possa andare più in profondità, possa dare dei risultati migliori.
Perché spesso il problema è complesso; si tratta magari di vedere quali sono gli interventi possibili di riorganizzazione dei cicli produttivi, quali sono le innovazioni tecniche da introdurre per garantire dei livelli più alti di sicurezza, quali sono le produzioni che possono essere spostate.
Ciò implica un esame il più possibile rigoroso e scientifico dei problemi, e tutto questo mi pare difficile possa essere affrontato semplicemente con un sì e con un no. C’è un lavoro di costruzione di proposte positive, di piattaforme, che può essere fatto attraverso la stretta collaborazione tra il movimento operaio, la sua organizzazione di fabbrica e il movimento ambientalista.
L’ultima questione è quella dell’occupazione, che è il punto più visibile di una contraddizione e di una difficoltà.
Questo è un problema che necessita di essere approfondito meglio da tutti. La domanda centrale che dobbiamo porci è: quale politica per l’occupazione noi possiamo proporre e costruire, una linea di coerenza senza scontri, senza pagare dei prezzi pesanti in termini di difesa dell’ambiente?
È un discorso che va approfondito. In termini generali possiamo dire che una politica per l’ambiente che abbia quelle caratteristiche di complessità innanzi citate può avere degli effetti positivi sull’occupazione.
Questo però e vero in generate, non è vero nello specifico, cioè non è che si tratti di una regola in grado di risolvere automaticamente il singolo caso.
Per ovviare a questa difficoltà occorre forse riflettere sul fatto che quanto ci si è trovati di fronte a esigenze di ristrutturazione di settori industriali il movimento operaio si è fatto carico di queste esigenze anche se lo hanno penalizzato dal punto di vista occupazionale.
Se oggi andiamo in una fabbrica e spieghiamo appunto che la riorganizzazione del settore determina necessariamente un ridimensionamento dei livelli occupazionali veniamo capiti; certo, non c’è l’entusiasmo dei lavoratori, ma questi capiscono che il sindacato deve misurarsi con quella questione per dare delle risposte, non può chiudersi in una difesa a riccio.
È indicativo a questo proposito il fatto che si fa meno fatica a far capire ai lavoratori la logica della competitività capitalistica dell’impresa rispetto alle esigenze di tipo ambientale. Qui c’è appunto l’effetto di un ritardo e di un problema di orientamento politico e culturale. Questo è un problema che deve essere meglio affrontato da parte di tutti. Altrimenti non siamo in grado di affrontare concretarmene i problemi dell’occupazione.
Busta: 1
Estremi cronologici: 1988, maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: ?