[LO SPI VERSO IL CONGRESSO UNITARIO]

Relazione di Riccardo Terzi decontestualizzata

I pensionati dello SPI sono parte integrante della CGIL e per questo noi dobbiamo partecipare attivamente a tutta la fase congressuale. È un congresso unitario che si basa su un documento comune largamente condiviso limitando a soli due punti (la contrattazione e le regole democratiche) una articolazione di posizioni divergenti. Non ci sono dunque strategie contrapposte o alternative, ma c’è un impianto comune da approfondire e da precisare con il concorso di tutti, senza pregiudiziali, senza schieramenti precostituiti. Ciò dovrebbe consentire, se davvero tutti partecipiamo al congresso con questo spirito unitario, una discussione seria e aperta, una ricerca, un approfondimento, per trovare insieme le risposte giuste e più efficaci alla difficile fase politica che attraversiamo.

Ma io non voglio ora anticipare questa discussione. Voglio solo dire che dobbiamo fare il massimo sforzo per ottenere la più larga partecipazione, aumentando il numero delle assemblee congressuali e prendendo tutte le misure politiche e organizzative perché il congresso assuma davvero i caratteri di un grande confronto democratico di massa. Noi, che organizziamo circa la metà degli iscritti alla CGIL, non possiamo certo accontentarci di un ruolo marginale, ma dobbiamo sapere che il successo politico del congresso dipende in larga misura da noi. Anche perché i temi dello stato sociale, in una società che ha uno dei più alti indici di invecchiamento, hanno oggettivamente un carattere strategico prioritario e sono oggi centrali in tutto il dibattito politico in Europa. Destra e sinistra si definiscono proprio intorno a questo problema. È su questo nodo che dobbiamo lavorare rendendo chiaro che politiche di sviluppo e politiche di welfare sono tra loro strettamente connesse, sono i due lati di uno stesso problema.

I pensionati, dunque, non sono solo nella CGIL i testimoni del passato, la memoria storica di una grande stagione di lotte sociali, ma sono i portatori di un grande e attualissimo problema politico: come costruire oggi una società dei diritti e dell’eguaglianza, come garantire davvero per tutti una piena cittadinanza sociale. Insomma non vogliamo solo occuparci di quel grande evento che sarà il centenario della CGIL ma vogliamo avere voce nella discussione sul futuro del sindacato. Di questo parleremo nelle diverse fasi del lavoro congressuale.

La riunione di oggi ha un altro carattere: è un momento di riflessione sulla realtà delle Leghe dello SPI su ciò che sono e su ciò che potrebbero essere. Io intendo dare a questa nostra discussione un carattere molto aperto, senza pensare di poter imporre dall’alto un unico modello, e senza avere la presunzione di conoscere pienamente tutta l’esperienza delle Leghe e le loro dinamiche interne. Per questo, vorrei soprattutto ascoltare la vostra testimonianza, invitandovi al massimo di schiettezza e di freschezza di pensiero. Non serve a nessuno imbrigliare la realtà dentro schemi burocratici artefatti, ma serve sempre capire dove sta lo scarto tra ciò che diciamo e ciò che riusciamo a fare, e quali sono le ragioni di questo scarto.

Il burocrate è chi riesce a vedere nella realtà solo quel poco che è riuscito a pensare: e se la realtà non si adatta ai suoi schemi tanto peggio per lei. Per questo, il processo di burocratizzazione è per qualsiasi organizzazione l’inizio del declino. Una continua verifica critica e autocritica una continua capacità di interrogarsi sul senso di ciò che facciamo, sui risultati del nostro lavoro, è il modo per sfuggire alla paralisi della burocratizzazione, la quale consiste infine nel fatto che un’organizzazione gira a vuoto, pensando solo a conservare se stessa, avendo smarrito le finalità per cui si è costituita. Ciascuno si interroghi: quanto tempo dedichiamo alla manutenzione della macchina organizzativa, e quanto alla progettazione delle cose da fare. Da questo esame possiamo ricavare un giudizio sulla qualità del nostro lavoro.

Ora, nel caso di una struttura di base come la Lega, la capacità di rispondere sempre alla realtà e ai suoi mutamenti è una condizione davvero essenziale. II vertice può anche sopportare un certo grado di burocratizzazione, le strutture di base no. Questa è la mia prima sollecitazione: ad agire in modo sciolto, flessibile, adattando forme di lavoro e obiettivi alla concretezza delle diverse situazioni, imparando dalla realtà, e mettendo anche nel conto la possibilità di errori, di percorsi che si debbono poi correggere, senza pensare che tutto sia già scritto nei nostri documenti o nei nostri statuti. Dovete liberamente sperimentare. Io non vi criticherò mai per un peccato di eresia, ma solo per un eccesso di conformismo.

Ed è questo il metro con cui valutare i nostri quadri: va incoraggiata la fantasia creativa, la libertà del pensiero e non l’ossequio pedante all’autorità costituita. La nostra forza è stata nella grande capacità di innovazione, che ci ha permesso di inventare un’esperienza sindacale del tutto nuova e originale. In questo abbiamo anticipato la CGIL, investendo sul territorio e indagando i nuovi bisogni sociali, le nuove forme di povertà e di emarginazione nella società post-fordista. Noi dobbiamo continuare ad essere, nella CGIL, una forza innovativa.

Quello che sembra a me essenziale è fare della Lega il luogo e lo strumento della più larga partecipazione democratica. Anche così possiamo contrastare la tendenza ad una politica oligarchica, per pochi addetti ai lavori, e l’idea, davvero reazionaria, che la democrazia sia solo una inutile perdita di tempo, perché basta trovare un capo, un leader carismatico, e dargli tutti i poteri necessari. Gli antichi avevano elaborato l’idea della “res publica”, ovvero di uno spazio comune in cui dibattere liberamente, a viso aperto, di tutto ciò che interessa la vita della comunità. Bisogna riconoscere: dalla Atene di Pericle alla Roma di Berlusconi è una bella regressione. È un duro colpo per i fautori della storia come progresso.

Quella della democrazia è una partita tutta aperta. La democrazia vive se ci sono dei soggetti collettivi che la sanno interpretare e realizzare. Non è un dono che ci viene dall’alto, ma una conquista da rinnovare ogni giorno. E il sindacato, proprio in quanto la sua funzione essenziale è quella della rappresentanza, ha un ruolo decisivo nella promozione della vita democratica. Ed è proprio sul concetto di rappresentanza che noi dobbiamo più attentamente riflettere.

Che cosa significa rappresentare? Ci sono almeno due diverse modalità, quella della politica e quella del sindacato. La rappresentanza politica è indiretta, mediata, in quanto essa si realizza per il tramite di una ideologia o di un progetto di società, ed essa funziona essenzialmente come mezzo di legittimazione democratica per chi si candida a funzioni di governo. Ma per il sindacato il meccanismo è del tutto diverso (e questa è una decisiva ragione a sostegno dell’autonomia sindacale). La rappresentanza sindacale esiste solo se c’è un rapporto diretto, non mediato, non ideologico, con le persone rappresentate. Il movimento sindacale è il processo di auto­organizzazione del lavoro e della domanda sociale, ed esso quindi segue il ritmo della concreta esperienza quotidiana dei soggetti sociali, con le sue oscillazioni, i suoi tentativi, le sue sperimentazioni, senza mai anteporre alla pratica sociale la rigidità di una teoria già confezionata. Per questo, esiste rappresentanza sindacale solo se c’è un reale rapporto democratico, non tanto sotto il profilo delle regole formali, quanto da un punto di vista sostanziale, in quanto c’è organicamente un legame forte e reciproco tra rappresentanti e rappresentati, una continua interlocuzione tra gli uni e gli altri, un movimento nei due sensi, dall’alto e dal basso.

Con un modello solo gerarchico, di trasmissione del comando e di centralizzazione delle decisioni, il sindacato non può funzionare, e inevitabilmente si inceppa la sua forza espansiva. In secondo luogo, il sindacato deve rispondere all’immediatezza dei bisogni. Rappresenta in quanto si fa carico delle domande, e cerca le soluzioni possibili, praticabili, nel contesto dato, senza rinviarle ad un futuro ipotetico. Rispetto alla dimensione politica, il sindacato ha bisogno quindi di un sovrappiù di democrazia e di concretezza, di un rapporto diretto con le persone e di una risposta immediata alle loro domande.

Ecco che allora si delinea, su questa base, ciò che è davvero essenziale nel lavoro delle Leghe. La Lega è uno strumento di partecipazione, nel quale le persone cercano collettivamente una risposta ai loro problemi, e trovano sui diversi terreni degli interlocutori, delle competenze, trovano in ogni caso un ascolto, la possibilità di far sentire la loro voce. Ora, quando parliamo dei pensionati e delle persone anziane, dobbiamo sempre avere presente la complessità della loro situazione, il fatto cioè che non si tratta solo di bisogni di ordine economico, ma di una fase della vita che è comunque, per tutti, difficile da interpretare e da gestire, perché ciò che è messo in gioco è il proprio ruolo, la propria identità personale, è l’insieme delle relazioni con gli altri. L’invecchiamento è il momento critico in cui si rischia la passività, la solitudine, il vivere solo del passato senza un progetto. Tutti questi aspetti li abbiamo analizzati nella ricerca sulle “paure” degli anziani. In una società tutta proiettata alla competizione e al successo individuale, l’anziano sembra essere destinato ad una progressiva emarginazione. E allora la domanda che emerge è soprattutto una domanda di socialità, di relazioni, di riconoscimento. Il problema dunque è quello di accompagnare l’invecchiamento con una politica che offra a tutti le condizioni per una cittadinanza attiva, con pari diritti, con pari dignità.

Il nostro lavoro, se vogliamo davvero “rappresentare” i bisogni reali delle persone, non può che essere un lavoro complesso, che si muove in diverse direzioni, che prende in considerazione la persona nella pienezza della sua esperienza di vita. Possiamo, schematicamente, distinguere tre grandi comparti: la negoziazione, i servizi, la socializzazione. Non sono attività tra loro separate, ma ciascuna di esse è efficace solo se si integra con le altre. La Lega dello SPI deve essere anzitutto un agente contrattuale, il titolare della negoziazione sociale nel territorio, nel confronto con gli enti locali, con le autorità sanitarie, con le strutture che si occupano dei servizi alle persone. Come avviene, con quali modalità, con quali regole democratiche, questo lavoro di contrattazione? Noi abbiamo bisogno di coinvolgere le persone interessate, sia nella elaborazione degli obiettivi, sia nelle fasi successive fino alla definizione delle intese istituzionali. Naturalmente, le modalità saranno diverse rispetto all’attività contrattuale in un luogo di lavoro, perché non c’è l’equivalente di una RSU né può essere praticabile uno strumento di tipo referendario. E allora, come garantire la democraticità delle decisioni, la loro trasparenza, come evitare che la nostra sia solo una rappresentatività “presunta”, non verificata, non condivisa dalle persone interessate? Un minimo di regole e procedure dobbiamo definirlo, unitariamente con FNP e UILP. Si tratta cioè di chiarire chi può decidere e come può decidere. Il metodo può essere quello di assemblee pubbliche, in entrata per decidere gli obiettivi e nominare una delegazione trattante, e in uscita per valutare le ipotesi di accordo. Il problema si complica se il livello istituzionale è la Provincia o la Regione. Ma anche in questo caso occorre pur definire una platea rappresentativa a cui affidare le decisioni. È un tema da affrontare, e mi interessa molto conoscere quali sono le vostre esperienze e le vostre opinioni.

In secondo luogo, c’è tutto il lavoro di assistenza che si svolge attraverso i servizi. Non ha senso, io credo, contrapporre contrattazione e servizi, e scegliere in modo unilaterale uno o l’altro di questi settori come unico cardine del nostro lavoro. Noi dobbiamo fare un’azione continua di accompagnamento, di informazione, di sostegno alle persone anziane in tutti i passaggi della loro vita, in tutte le complicate procedure burocratiche che si trovano ad affrontare e che sono un motivo di disagio e di ansia. Si tratta qui di impostare nel modo giusto questo lavoro, non come uno sportello burocratico, ma come un momento di dialogo, di rapporto vero con le persone. Tutta la nostra collaborazione con i servizi della CGIL deve servire a questo, ad integrare competenza e socialità, professionalità e umanizzazione dei rapporti. Ma, in ogni caso, accanto alla negoziazione collettiva ci deve essere l’attenzione per la situazione individuale, per la persona in carne ed ossa che chiede a noi un aiuto, un consiglio, una informazione.

Come si vede, al fondo di tutto c’è il rapporto sociale, il bisogno di socialità a cui occorre rispondere. Le nostre Leghe riescono ad essere questo, un luogo di partecipazione e di socializzazione? E possiamo, in questa direzione, esplorare nuovi campi di lavoro, sperimentare nuove iniziative? Penso ad esempio al lavoro culturale, alla formazione permanente, ad una campagna di massa per l’accesso alle nuove tecnologie, e penso a tutte le attività ricreative, di svago, ai luoghi di incontro che già esistono, e nei quali possiamo essere presenti con una nostra iniziativa, o che possono essere da noi promossi, di intesa con le istituzioni locali o con altri soggetti.

Si tratta di contrastare la tendenza alla passività, a chiudersi nel piccolo guscio delle relazioni private, perdendo interesse per la vita collettiva. Si tratta di far vivere la polis, lo spazio pubblico in cui ciascuno si misura con i problemi della comunità. Se non lo facciamo noi, non c’è nessuno che lo fa. E questo è l’unico modo per evitare che l’invecchiamento significhi regressione, sopravvivenza passiva in un mondo che non si riesce più a decifrare e che viene vissuto solo come una minaccia. Quando scatta questo meccanismo regressivo, quando si è dominati dalla paura e dall’insicurezza, allora accade che gli anziani sono usati come massa di manovra per una politica conservatrice. Occorre saper vedere anche i riflessi politici e culturali del nostro lavoro.

Io penso che questi tre aspetti (negoziazione, servizi, socialità) dobbiamo sempre vederli insieme, e avere una iniziativa su tutti questi terreni. A che punto siamo, oggi? Dove stanno le criticità, le debolezze del nostro lavoro? A chiarire questo può servire la nostra discussione. Ora, tutta la complessità della nostra politica o riesce a realizzarsi nelle Leghe, oppure resta un’intuizione incompiuta, enunciata ma non praticata nella realtà.

Deve essere chiaro questo: che le Leghe sono la nostra struttura portante. Se ci sono, rispetto a questa scelta, comportamenti difformi, incoerenti, li dobbiamo rapidamente correggere. Perché per noi è essenziale il carattere di massa, popolare, del sindacato dei pensionati, e ciò può essere garantito solo dalla vitalità delle nostre strutture di base. Ciò vuoi dire anche creare nelle Leghe una vera struttura di direzione, attivare competenze, valorizzare tutte le risorse disponibili, e non affidarsi solo al carisma personale di un capo-lega che si occupa di tutto e concentra in sé tutte le decisioni. Può capitare a ciascuno di noi di sentirsi indispensabile, e di cedere, ciascuno nel suo ambito, alle lusinghe del narcisismo. Ma per costruire qualcosa di serio, che dura nel tempo, c’è sempre bisogno del pluralismo delle idee, del confronto con gli altri, del lavoro collettivo.

Non dobbiamo consentire che si formino nella nostra organizzazione poteri personali, o gruppi chiusi, in cui si può entrare solo per un rapporto di fedeltà. Dobbiamo invece lavorare seguendo l’idea opposta: che dirigere vuoi dire portare a sintesi le diversità. Non è facile, ma a che serve un dirigente se non sa affrontare le difficoltà, se si accontenta di una comoda routine?

Dirigere vuoi dire anche attivare il più largo sistema di relazioni, e sapere che per raggiungere i nostri obiettivi non serve l’isolamento, la chiusura in noi stessi, ma serve la più ampia collaborazione con altri soggetti, in diverse direzioni. Di questa strategia di “apertura” vorrei sottolineare, in breve, tre aspetti. In primo luogo, deve essere ben impostato il rapporto con la CGIL. Se la nostra scelta è quella di presidiare il territorio, di puntare sulla negoziazione sociale, in vista di uno sviluppo locale che sia fondato sulla coesione e sulla solidarietà, è chiaro che questa strategia può camminare solo se diviene la strategia di tutta la CGIL. Da soli non andiamo lontano. È su questo che dobbiamo insistere, anche in occasione del congresso: che la CGIL riorganizzi la sua forza puntando sul decentramento territoriale.

Oggi, in molti casi accade che ci dobbiamo accollare, un po’ abusivamente, una rappresentanza generale, perché siamo l’unica presenza organizzata. Ma se le politiche sociali vengono viste soltanto dal punto di vista degli anziani, c’è una distorsione. Chi si occupa della precarizzazione giovanile, dell’immigrazione, delle politiche ambientali? Verso i giovani, vorrei che lo SPI sviluppasse una linea di attenzione e di dialogo, cercando di individuare i punti di comune interesse. Ma è chiaro che questo lo possiamo fare seriamente solo se c’è una politica complessiva della confederazione.

In secondo luogo, c’è il lavoro unitario con FNP e UILP, dal quale non possiamo mai prescindere, perché è solo sulla base di intese unitarie che possiamo praticare la contrattazione e ottenere risultati concreti. Nel momento in cui celebriamo il centenario, dobbiamo rivendicare la vocazione all’unità che ha segnato tutta la nostra storia. E l’unità fa passi in avanti solo quando c’è una spinta dal basso, che riesce a trasmettere anche ai gruppi dirigenti un nuovo impulso, superando i patriottismi di organizzazione. Se voi lavorate per una unità di base, se la consolidate, se riuscite a smuovere i piccoli settarismi e a fugare le diffidenze, potete dare un contributo straordinario all’intero movimento sindacale. Perché le cose cambieranno, questa è la mia convinzione, quando saranno i lavoratori e i pensionati a dire che l’unità è matura, è necessaria, è attuale. L’apparenza è che sono i vertici a decidere. La realtà è che i vertici raccolgono ciò che si è seminato alla base. Infine, c’è il grande campo della nostra collaborazione, a livello locale, con i diversi soggetti sociali e istituzionali. Un nuovo sviluppo locale ha bisogno di una pratica di concertazione. Se è vero che ciascuno deve fare la sua parte, senza confondere i diversi ruoli, occorre però aggiungere che per svolgere bene il proprio compito bisogna conoscere ciò che fanno gli altri e trovare i punti possibili di convergenza. Per governare bene occorre il confronto con le forze sociali. E per fare bene il lavoro del sindacato, occorre il confronto con tutti e la costruzione di progetti condivisi, di obiettivi comuni da realizzarsi con il concorso di forze diverse. Una comunità funziona se c’è la capacità di “fare sistema”, di coordinare le diverse forze. Se costruiamo questa rete vasta di rapporti, saremo più forti, più propositivi, più capaci di conseguire risultati. L’isolamento è sempre un segno di debolezza. In questo ambito, è molto preziosa la nostra collaborazione con l’Auser, che si deve svolgere su una base chiara di reciproca autonomia. L’Auser non è una struttura a cui possiamo impartire ordini e direttive, o imporre noi dall’esterno i quadri dirigenti, ma è un’organizzazione che ha grandi potenzialità di crescita se riesce a sviluppare in autonomia il suo ruolo e la sua identità. Ora, sono tutti questi temi che potremo affrontare e discutere più a fondo nei congressi. Ma abbiamo voluto, prima dell’apertura dell’iter congressuale, organizzare questo incontro per rendere visibile la centralità che ha per noi, per lo SPI della Lombardia, il ruolo delle Leghe. E per mettere a confronto le diverse esperienze, i diversi modelli organizzativi, i diversi progetti. Ripeto: noi vogliamo soprattutto ascoltare e capire, per poter prendere, nel congresso, le decisioni più giuste e meglio rispondenti alla vostra realtà e alle vostre esigenze. Questo dialogo aperto, non imperativo, non gerarchico, tra vertice e base, è un metodo di lavoro che dobbiamo più ampiamente sperimentare, perché da questo dialogo possiamo tutti reciprocamente imparare, e possiamo migliorare la qualità democratica del nostro lavoro.



Numero progressivo: D40
Busta: 4
Estremi cronologici: s.d.
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -